Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XX
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XX.
Vittoria pronosticata a Belisario da un fanciullesco giuoco; — I Romani tollerano a malincuore l’assedio. — Ambasceria di Vitige al duce imperiale. — Risposta di Belisario.
I. Belisario apprestò, come dicea, tutto l’occorrente per durare l’assedio: intanto molti fanciulli sanniti condottisi a pascolare la greggia sul proprio terreno, dopo avere trascelto dal numero loro i due più robusti ed all’uno dato nome Belisario, Vitige all’altro, vollero ch’e’ giuocassero insieme alla lotta. Principiatasi questa con gagliardia somma da ultimo il finto Vitige rimasevi al disotto; la puerile turba allora proseguendo nel trastullo sospende il vinto ad un albero; ma in quella apparsovi per caso un lupo tutti si danno a precipitosa fuga lasciando che il pendente dall’albero privo d’ogni soccorso dopo lunghi patimenti sen muoia. I Sanniti udito il fatto, senza punto gastigarne la prole, dell’accaduto pronosticarono che il duce imperiale sarebbe a non dubitarne, com’e’ dicevano, uscito di quell’aringo vincitore. Così avvennero le narrate cose.
II. Il popolo romano al tutto disavvezzo alle molestie della guerra e dell’assedio, oppresso da innondazioni e penuria di fodero, costretto a vegliare le notti di su le mura, e persuaso che tosto i nemici entrerebbon vittoriosi in Roma, vedendoli già mettere a sacco le campagne e quanto aveavi d’intorno, gravemente commosso mal suo grado pativa d’essere non colpevole assediato e caduto in sì orrenda sciagura. Laonde i cittadini venuti a lega tra loro inveivano alla scoperta contro il duce, aggravandolo di avere intrapreso quella guerra con forze minori delle occorrenti all’uopo, ed eguali rimproveri erangli pur fatti dai padri della curia, detta con altro vocabolo senato. Pervenute adunque coll’opera de’ fuggitivi tali querimonie all’orecchio di Vitige, e’ per vie più inasprirne gli animi, sperando produrre là entro grandi sconvolgimenti, inviò a Belisario ambasciadori con Albis1, i quali fattiglisi innanzi presente il senato e tutti i duci dell’esercito, proferirono queste parole: « I nostri proavi, o condottiero, posero alcune distinzioni tra’ nomi delle cose, e n’è forza ridirne qui una, quella che havvi da temerità a fortezza; sendo che gli animi nostri abbandonandosi alle instigazioni di colei precipitano vergognosamente ne’ pericoli, questa in cambio riporta lode grandissima di virtù; nè può a meno che l’una delle due ti spignesse contro a noi, e quale si fosse ora cel manifesterai. Conciossiachè ove tu, o uomo illustre, guernito dello scudo della fortezza imprenda a guerreggiare i Gotti hai pronto il mezzo di comprovarlo, campeggiando il nemico sotto queste mura e presso degli occhi tuoi. Se al contrario armato di audacia insorgesti a nostro danno, vivi pur certo che avrai pentimento dell’arditissimo tuo procedere, subentrando tosto nel fragore della pugna il rimorso negli animi di coloro che osarono sconsigliatamente incontrarla. Che se tale è il tuo caso, come sta fermo nelle menti nostre, adopereresti assai meglio ritraendoti dal farti strumento di pene a questi Romani, cui Teuderico governò con somma liberalità e nelle delizie, e dal contendere col legittimo signore degli Italiani e de’ Gotti. Nè sapremmo in fè nostra come tu non debba trovare assurdo il volertene rimanere chiuso in Roma, ed il rifiutarti di valicarne le porte per tema del nemico, quando il re suo dimorante nel campo è costretto ad affliggere i proprj sudditi con tutti i disagi e mali della guerra? Or dunque se conformandoti ai nostri consigli cangi di mente noi accorderemo a te ed alle tue genti la facoltà di partire con tutto il vostro, non estimando equo ed ufficio di umanità l’insultare a coloro che docili si rimettono sulla via del dovere e della modestia. Di buon grado inoltre interrogheremo i Romani, che sino ad ora hanno sperimentato la nostra amorevolezza, e veggonci adesso, di conformità alla parola avutane, aiutatori, sulle offese ricevute dai Gotti, per cui deliberarono tradire non meno le cose loro che la fede nostra.»
III. Al sermone degli oratori il duce rispose: «Mai più, o Gotti, accatteremo da voi consigli nelle nostre deliberazioni, non costumandosi tra gli uomini di far guerra coll’approvazione del nemico, ma tratta ognuno i suoi affari come giudica per lo migliore. Verrà poi tempo, e valgavi l’annunzio, in che neppure sotto queste prunaie rimarravvi luogo da occultare i capi vostri. Noi signoreggiando Roma nulla d’altrui possediamo: voi per lo contrario l’occupato per l’addietro ingiustamente ora avete dovuto a malincorpo restituire agli antichi padroni. Del resto se alcuno de’ vostri ha lusinga di rimettere qui il piede senza combattimento, egli vive nel massimo inganno, sendo onninamente impossibile che a Belisario sua vita durante cada in pensiero di abbandonare queste mura. » Intanto che il duce parlava i Romani sopraffatti dal timore sedevano tutti silenziosi, né ardivano confutare il rimprovero de’ legati, i quali altamente querelavansi della perfidia loro contro de’ Gotti. Al solo Fidelio, creato allora dal condottiero prefetto del pretorio, bastò l’animo di aringare in difesa de’ suoi, e n’ebbe rinomanza di magistrato in grado superlativo ligio dell’imperatore.