Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XIX

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CAPO XIX.

I Romani servi presso de’ Cuturguri tornano, fuggendo, liberi. I Cuturguri udita la strage de’ loro compagni vengono a patti con Giustiniano, e ne hanno tracico suolo. Querimonie di Sandilo, capo degli Uturguri, per l’imperiale ordinamento.

I. Nella tenzone, come ho detto, in tra prefati barbari, mentre andava crescendo il pericolo delle armi la fortuna maravigliosamente si dichiarò pe’ Romani; conciossiachè tutti i prigionieri in mano dei Cuturguri, il qual numero si vuole ascendesse a più miriadi, nel trambusto della pugna dimenticati, con precipitosa fuga e liberi da ogni molestia ricomparvero in patria, di questo modo raccogliendo grandissimo frutto dall’altrui vittoria. Giustiniano Augusto poi mandò l’ambasciadore Arazio ad informare Chinialo e gli altri Unni dell’avvenuto nella patria loro, ed a persuaderli, in forza di molto danaro, che abbandonassero tosto le romane frontiere. Queglino, udito l’assalimento degli Uturguri e lieti dell’oro in copia di cui era apportatore il messo, promisero astenersi per l’avvenire da nuove stragi, dall’imprigionare e da altra molestia comunque, portandosi da veri amici cogli abitatori di quella regione. Fu statuito parimente che ov’e’ potessero tornare e rimanere nel patrio suolo terrebbonsi ognora in fede co’ Romani; se poi venissero colà impediti di vivere tranquillamente l’imperatore darebbe loro nella Tracia un asilo perchè, sempre obbligati all’osservanza delle fatte conversioni, veglino di concordia co’ suoi alla difesa [p. 510 modifica]della regione opponendosi agli assalimenti de’vicini barbari.

II. Due mila degli Unni vinti in campo dagli Uturguri fuggendo unitamente alle mogli ed alla prole ripararono su quel de’ Romani: altri dei loro duci era Sinnio, il quale molto prima guerreggiato avea nell’Affrica sotto Belisario contra Gelimero ed i Vandali. Giustiniano Augusto vedutili supplichevoli offrirgli i loro servigi benignissimamente li accolse, e ordinò che si rimanessero di stanza nella Tracia. Sandilo re degli Uturguri a cotal nuova montò in furore, e pieno di sdegno considerando che queglino stessi della sua schiatta da lui cacciati dalle patrie sedi per gastigarli delle ingiurie fatte ai Romani, ora, in amicizia con essi e donati di terra, si viveano molto più agiatamente di prima, spedì all’imperatore ambasceria rimproverandogli l’operato, ma non l’accompagnò con iscritto essendo gli Unni anche al dì d’oggi affatto ignari d’ogni maniera di letteratura, non volendo tampoco udirne il nome, e ben contrarj che i proprii fanciulli nell’apparare a leggere e scrivere consumino gli anni. Que’ messi adunque giusta la propria consuetudine doveano ripetere a memoria i comandamenti ricevuti; al qual uopo fattisi alla imperiale presenza gli dissero a voce quanto re Sandilo significargli potea col mezzo di lettera: «Una volta, essendo fanciullo, apparai tal proverbio che era portato nelle bocche di tutti, ed eccone le parole se ben mi ricorda; il lupo, fiero animale, potrà sì mutare il pelo non l’indole sua, opponendosi natura a questo cambiamento. Io [p. 511 modifica]Sandilo udivalo da miei maggiori, accennandosi per indiretta via con esso un che bellamente adatto all'uomo. Ammaestrato inoltre da miei occhi so di molte cose, le quali mi fu d'uopo apprendere abitando alla foggia di noi barbari la campagna. Dai pastori vengon raccolti i lattanti cucciolini e cresciuti accuratamente nelle capanne; il cane poscia, memore del beneficio, mostrasi grato al suo nutricatore, e questi si adopera coll'accorgimento che ove dai lupi venga molestato l'ovile, quello postovi a guardia ne respinga le offese; nè dubito accadere da per tutto lo stesso, conciossiachè non havvi esempio di cani insidiatori della greggia, nè di lupi guardiani di lei, come se legge di natura siffattamente abbia ordinate le faceende tra cani, greggia e lupi; sono quindi ben persuaso dell’egual maniera procedere le cose nel tuo imperio a dovizia provveduto di tutto, e forse anche di quanto allontanasi dalla comune saputa. Ora se cado in abbaglio palesalo a' miei ambasciadori bramando, avvegnachè sullo scorcio della vita, l'acquisto di straordinarie cognizioni. Se poi la prudentissima natura dello stesso modo ebbe stabilito da per tutto sue leggi, penso che a te disconvenga l'accordare ospitalità ai Cuturguri, procurandoti una turpe vicinanza, e dando ricetto a coloro che non potesti comportare di là da tuoi confini e ben lontani da essi; nè guari andrà in fe' mia che a’ Romani addivengane palese l'orribile tempra. Se poi e' ripiglino a nemicarsi teco, ognor più li avrai perversi nella speranza che pur vinti sieno per conseguire sorte [p. 512 modifica]migliore: nè questa loro amicizia teco li porterà giammai ad impedire i guasti delle tue provincie, nella tema che dopo felice impresa i domi da essi abbiano a rimirarsi con generosità maggiore trattati. E valga il vero, noi passiamo nostra vita in isterile e deserta regione, mentre i Cuturguri vanno abbondantemente provveduti d’annona, trangugiano vino a josa nelle cantine, ed hanno tutti come fornire di soave cibo i loro palati; non difettano tampoco de’ bagni? Vuoi di peggio? corron le vie azzimati con ornamenti d'oro e con sottilissime vesti screziate del prezioso metallo; vivonsi poi questa beata vita per avere condotto seco innumerabili caterve di romani prigionieri assoggettandoli a tutti gli uffizj de’ mancipj, e non appena caduti nel minor fallo, dannandoli, non paghi delle battiture, ben di leggieri alla morte; renduti così miserabili vittime di quanto la perversità dell’animo e la forza sa porre in capo ad un barbaro padrone. Noi Uturguri in cambio la mercè di nostre fatiche ed incontrando il massimo de’ pericoli ci facemmo a sottrarli da sì tremenda vita, e messi in non cale tutti i disagi della guerra li abbiamo restituiti ai congiunti. Ma che, in modo ben opposto furono guiderdonate le azioni d’entrambi; dimorando noi tuttavia abbandonati nella brettissima nostra patria, e queglino stessi cui valorosamente affrancammo da sì orribile giogo mettendo senza discrepanza veruna i Cuturguri a parte de’ beni loro.» Gli ambasciadori terminata questa diceria ebbero da Giustiniano belle parole, accompagnate da sontuosi doni, e non guari dopo si partivano: tanto di costoro voleasi dire.