Italiani illustri/Appendice B. Ugo Foscolo a Vincenzo Monti

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Appendice B. Ugo Foscolo a Vincenzo Monti

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Appendice B. Ugo Foscolo a Vincenzo Monti
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APPENDICE B (pag.114)


Ugo Foscolo a Vincenzo Monti.

Milano, 13 giugno 1810.


Vi mando un libretto dove ho parlato di voi, e per l’ultima volta, affine di smentire i maligni che vi circondano. Ora vi scrivo per l’ultima volta; onde è bene ch’io vi manifesti l’animo mio, e ch’io conservi in un foglio di carta alcuna difesa, se mai la coscienza in età più severa mi domandasse ragione del contegno con voi; se forse in quell’età la coscienza parlerà più forte, e la memoria mi avrà abbandonato.

Mi fu scritto da Mantova che si condannavano da voi quei miei giudizj, letterari, da voi confermati altre volte come utilissimi e giusti: non ho creduto; e d’altra parte chi mai non si muta nelle misere opinioni di gusto? Mi fu detto e ridetto che voi minacciavate di seppellire i miei Sepolcri: ma io, ricordandomi che non solo li avete lodati, ma mi avete esortato a stamparli e persuaso a correzioni che ho fatte, non ho creduto; del rimanente vi avrei lasciato, e vi lascerò fare senza risponder sillaba, dacchè so, che tutte le viscere di molti giovani fremerebbero. Questi giovani un giorno diranno sul mio vero sepolcro e sul vostro la verità e la insegneranno a’ loro figliuoli; onde non ho temuto, e non temo.

Lampredi disse in casa Calepio che voi avevate accettato il guanto gettato, ed altrove spacciò che vi accingevate a dichiararmi la guerra stessa da voi sostenuta contro i Gianni, i Lattanzi, i Coureil, i Filebi; non ho stimato me stesso di tal compagnia, nè voi sì basso o sì forte; sapeva di non avervi mai sfidato, e non ho creduto. Seppi la sera stessa che Trussardo Calepio, nel ribattere l’asserzione dell’abate Lampredi, si lasciò, per giudicio precipitato e per troppa amicizia, scappare di bocca, ch’egli aveva veduta in casa mia una vostra lettera scrittami da Ferrara. Ho scritto subito, e son otto giorui, al Calepio, esortandolo a non dire il falso in difesa mia, e dichiarando maligne le voci sulla nostra contesa; egli conserverà forse anche il mio biglietto, e potrà farvelo leggere; intrattanto v’includo la sua risposta. Esaminate, vi prego, l’altrui condotta nelle scissure della mia amicizia, e, malgrado la vostra collera, mi loderete della mia delicatezza. Fate la lettera di Calepio non vada smarrita; e se il Lampredi, seguendo il suo vecchio costume, venisse a ridirvi ciò che l’imprudenza d’un giovane ha detto in difesa mia; s’egli alle altre calunnie avesse [p. 152 modifica]aggiunta nei crocchi questa di dichiararmi millantatore, pagatemi di pari delicatezza, e difendete l’onore e la verità col documento che vi mando. Mi furono bensì mandati due paragrafi in copie di vostre lettere contro di me; ma perchè io non vidi il vostro carattere, nè credo alle azioni de’ traditori, non ho credute vere le copie; nè risposi; nè troverete che dal momento de’ vostri sdegni io abbia mai scritto un’unica sillaba intorno a voi, nè il nome vostro a veruno; e nelle mie lettere a tanti, e segnatamente agli amici bresciani, che mi credevano in rissa con voi e me ne chiedevano conto, dissimulai tanto su quest’articolo, che niuno saprà se non quello che a voi piacque di scrivere. Tanto io mi fidava e mi fido della vostra lealtà, e tanto io sdegno di chiamar ajuti e mediatori nelle contese! Alcune persone che frequentano certi luoghi da voi frequentati, mi assicurano che voi mi avete tacciato di cortigiano, aggiungendo la frase ch’io portava la maschera di Catone, ed allegando per prova un mio profondo saluto alla carrozza del grangiudice al corso. Ma io ho pensato a tutti gli atti della mia vita, meritevole di molte taccie, fuorchè di questa, e poichè ho amato passionatamente le donne, e ho pazzamente perdute le notti al giuoco, non mi sono trovato mai nè Catone, nè mascherato, nè mai cortigiano. Ho dunque compianto voi e me per la qualità de’ partigiani e degli avversarj che abbiamo, e non vi ho creduto capace di accuse e di prove sì fanciullesche. Nel tempo stesso vive chi pensa d’avermi con prove più gravi e più evidenti accertato, che voi, in quelle poche ore nelle quali vi ho confidato il manoscritto sull’articolo della versione d’Omero (e ve l’ho confidato perchè vi si parlava anche di voi, e perchè trovo più obblighi da adempiere nella scissura che nella concordia delle amicizie) in quelle pochissime ore voi siete andato a leggerlo a monsieur La Folie. Quantunque questo tratto m’avrebbe fatto abjurare qualunque amicizia, io nondimeno l’avrei perdonato a voi solo, purchè almeno non me l’aveste taciuto, dacchè voi, parlandomi ’appunto qualche ora dopo ch’io riebbi il manoscritto, mostraste desiderio ch’io mutassi una frase che vi offendeva, io l’ho infatti mutata. Inoltre vi ho udito tante volte sparlare pubblicamente di monsieur La Folie, ch’io non poteva, nè posso ancora presumervi in tanta dimestichezza; e quando pure quel signore, che non conosco e che perciò non posso nè stimare, nè disprezzare, si fosse meritata una volta la vostra stima, io viveva e vivrò sempre certo che niun vostro nemico sarà punito da voi con la violazione del secreto. Finalmente da tale ch’io conosceva appena di vista, mi fu, non sono otto giorni, esibita copia d’un poema che si dice scritto da Ceretti contro di voi. Non mi ricordo che Ceretti nè veruno altro m’abbiano parlato mai di tal satira: ne ho chiesto a un amico vostro e mio, e mi è stato detto, che pur troppo il Ceretti l’aveva scritta. Comunque sia, vi giuro per quanto v’ha di più sacro, e s’io mento invoco l’ira del cielo contro di me e contro la mia famiglia, vi giuro che non volli vedere nè sapere altro di quel poema; ch’io da quel giorno ho sfuggito ancor più di parlar di voi; che anzi ho cercato di smentire le ciarle che avevano dato incitamento all’offerta; — e a chi [p. 153 modifica]mi credeva capace di sì vili vendette risposi, che il Ceretti era capace di tutto, e che se mai quel poema uscisse alla luce mentre io avessi ancora voce e braccio, avrei gridato a tutti e per tutto che il Ceretti aveva cercato di calunniare il Cicognara suo benefattore recente, e calunniarlo appunto nei giorni che era carcerato e perseguitato. Ma io raccapriccio pensando ai letterati che possono proditoriamente e implacabilmente insidiare l’innocente, anche dal fondo del loro sepolcro.

Da queste maniere tenute dai Tersiti, per azzuffarvi con un avversario ch’essi credono più onorato de’ Filebi e compagnia, e meno placabile dei Bettinelli e dei Mazza, ho congetturato quanto possono avere tentato per irritarvi contro di me. Io per altro non voglio indagare cosa veruna; e benchè io vi conosca meno incredulo di me, non desidero che mi palesiate persona del mondo, nè mi reputo sì reo da scolparmi. Solo vedo ciò che mi cade naturalmente sott’occhio... Lampredi, Bettoni ed altri, nel lodar voi ne’ libelli e nelle gazzette sparlano direttamente e obliquamente de’ miei scritti, e si stampa ch’io vi minaccio. Carlo Catena, che pure non sa di greco, mi disse d’aver udito da Lampredi, che questi v’aveva eletto Mecenate della critica contro il mio tentativo intorno ad Omero, inserita nel Corriere delle Dame. Infatti osservando la dedica, vidi nel vocabolo nicoro le radici greche del verbo vincere e del sostantivo monte; ne’ nomi assunti dal critico parmi vi siano gli equivalenti di urbanità e di lampreda; di questi due ultimi vocaboli non sono certissimo come de’ primi, perchè in casa non ho nemmen dizionario.

M’avete, in casa Venèri, alla presenza del senatore Stratico, detto ch’io m’accorgerò forse un giorno quale amico io mi abbia perduto in voi. Ora io, con vero dolore per me stesso e per voi, vi confesso che me ne vado accorgendo ornai da più mesi. La colpa è tutta della mia natura, dacchè non ho potuto dissimulare la mia dissensione da molte vostre opinioni. Ma vi prego di considerare, mio caro Monti, che appunto alla costanza d’ogni mia opinione ho sempre sagrificato e sagrifico la comodità della vita, la lusinga d’onori e perfin la speranza di morire tra le braccia di parenti, d’amici e di cittadini. In quindici anni che ci conosciamo, voi m’avete veduto sempre or onorato, or vagabondo, or perseguitato, or lusingato, or vizioso, or favorito ed or negletto dai grandi, ma poverissimo sempre; nè potete ricordarvi mai d’un solo minuto, nel quale io mi sia allontanato da’ miei principj, o mostrato timido ed avvilito. Così mi sono educato alla povertà, e m’apparecchio alla morte in terra straniera. Una unica volta in tanti anni di famigliarità m’avete veduto piangere, e solo per la mia disgraziata famiglia; e questa è la sciagura ch’io forse sopporterò lungamente in espiazione degli errori della mia gioventù.

Ed anche un vostro amico pochi giorni addietro mi vide piangere mentre io gli parlava di voi, benchè io non tema e non isperi nulla da voi: ma sento la perdita della vostra amicizia, e non potrò se non sinceramente dolermene finchè avrò vita; e sento ad un tempo che il Cielo diede a me tal rigore, e a voi tale instabilità di carattere, ch’io mi meraviglio come voi vi [p. 154 modifica]siate persi lunghi anni fidato di me; sento insomma, ch’io non potrò sacrificare nè a voi, nè a persona, nè a cosa del mondo veruna i miei principj, perchè io li considero come dote divina dell’anima mia, e come mia sola e sicura proprietà sulla terra. Certo è adunque, che non vi verrò più vicino; e perchè altri non abbia nuovi mezzi da turbare con lo spionaggio la vostra pace, tenete per promessa inviolabile ch’io non parlerò più di voi, nè de’ vostri versi, e che non mi giustificherò mai per qualunque cosa che altri vi facesse mai credere, o che il vostro sdegno vi facesse uscire di bocca contro di me. Solo (poichè l’umana fortuna è variabile) io tornerò a parlare di voi se mai dovessi tornare a difendervi dalla ingiusta persecuzione, o dalla calunnia. Voi sapete che, mentre i partigiani di Gianni e di Salfi vi perseguitavano a morte; mentre quel solo partito poteva dare impiego a me che era giovinetto, poverissimo ed esule; mentre il Corpo legislativo e gli uomini buoni sedotti, come fu il Butturini, fulminavano una legge contro di voi, io bene o male vi difesi pubblicamente; e se ve ne ricordate, io appunto in que’ giorni correva pericolo di essere carcerato con Custodi e con Gioja, e scrissi e stampai ramingando di casa in casa per fuggire gli uomini d’arme. Inoltre la città può ricordarsi ch’io, quattro a cinque anni dopo, promisi e diedi nel caffè de’ Servi uno schiaffo a quell’uomo che non obbedì alla mia intimazione di non denigrarvi: che s’egli, venuto poi coll’armi sul campo, non osò affrontarsi con me, benchè ei fosse giovane e forte, non è men vero ch’io difendo gli amici con mio carico e con pericolo della mia vita. Non però credo avervi pagato, o potervi pagare i benefici e i consigli, coi quali m’avete aiutato nelle mie sventure e nei falli di mia gioventù. E quante volte voi pure non m’avete difeso dall’altrui fiele? Ma tolga il Cielo che voi vi ricordiate di me; e poichè mi sono deliberato di non ravvicinarmi più a voi, se non ne’ vostri veri e gravi pericoli, io desidero che voi viviate sempre glorioso e tranquillo, anche a patto ch’io sia tenuto da voi, dal mondo e da’ vostri amici per uomo ingrato ed implacabile.

Solo vi scongiuro e vi esorto in nome dell’antica amicizia, di non affratellarvi a que’ tanti che non possono amarvi; e senza ch’io vi nomini alcuno, serbate questa regola. Tutti coloro che avete giustamente infamati e che cercarono d’infamarvi, si valsero del vostro perdono perchè non potevano più nuocervi. E solo un vile può pacificarsi con chi l’ha denigrato; nè i vili mantengono i patti, nè i vili si divezzano mai dalla vendetta di traditore. Nè i vili si mostrano vostri alleati, se non per onorare sè stessi e per fare che il vostro contegno smentisca le vostre parole; nè i vili, lodando voi, cercano di vituperare me e di farvi nemico mio, se non per vendicarsi del freddo disprezzo e dello sdegno costante, con cui sapete ch’io gli ho sempre cacciati dalla mia famigliarità. Or sappiate, che nella città si tiene per certo, che voi temete me per la mia filosofia, ed io temo voi per la vostra poesia. Tocca a voi ed a me a lavarci da questa macchia che non meritiamo. Per me credo di aver trovato un facilissimo mezzo: a voi non oso, nè saprei dare altro consiglio, se non questo, rispettate tacitamente la verità. [p. 155 modifica]

Voi avete detto anche prima della vostra partenza ch’io era odiato dal mondo, e più temuto che amato nelle case dove io vi vedeva. E ciò mi fa detto da persona che venne subito da casa vostra a scongiurarmi, piangendo, di mutar modi. Ma io ho lunghe prove dell’amore di molti, e son certo che non si stima il mio povero ingegno, se non perchè s’ama la nobiltà del mio cuore: e d’altra parte Venéri e Vaccari mi si mostrarono e mi si mostrano tanto cordiali, ch’io li pagherei d’ingratitudine e di villania se non li frequentassi, e non li stimassi per nobilissimi fra quanti mortali ho mai conosciuto nel mondo, dacchè vedo che co’ loro amici si spogliano della loro dignità, e vivono colle sole qualità dell’uomo nè padrone, nè servo. E ch’io li ami più per loro stessi che pei loro titoli, ne sia prova che nulla in due anni ho mai chiesto a Venéri; e che a Vaccari non ho parlato di me se non nel primo mese del suo ministero, e ne ho parlato per non meritarmi da lui e da me medesimo la taccia d’orgoglio. Da indi in qua, e fu verso la metà di novembre, non no più aperto bocca per me o per altri, tranne per lo stampatore Bettoni, ch’io voglio vedere schernito come ciarlatano letterario, ma non carcerato come mercante fallito. Ora voi tornate a dire che il ministro dell’interno si mostra pentito di avermi offerto stanza in sua casa, anzi narrate ch’ei m’abbia detto non convenire nè al suo decoro, nè al mio, che abitassimo insieme. Monti mio, il ministro non ha mai detto nulla di decoro e di convenienza. Altri l’ha foggiato malignamente, e voi al solito l’avete creduto; e per compiangere la mia imprudenza, e per consigliarmi a pensar meglio alla mia utilità lo andate ridicendo a’ nostri amici; ma badate che a me non importa, se non che gli amici miei e gli uomini pari vostri non si facciano complici di bugiardi, e di quei bugiardi che non mentono a caso.

La cosa sta così. Due. o tre volte il ministro alla sua tavola e a quella di Venéri mi esibì, sorridendo, alloggio in sua casa; ed io non accettai se non sorridendo. Ma io pensai che non conveniva nè al mio decoro, nè alla mia sicurezza ch’io abitassi con lui; anch’egli pur troppo avrà molti nemici, meno ciarlieri per avventura, ma più potenti; ed io parlo con assai libertà d’aspetto e di voce. La novella trattanto andò per la città, perchè due o tre commensali di Vaccari non taciono nulla, e sanno esagerare ogni cosa. A molti che si consolavano meco e mi credevano già secretano o chi sa altro, risposi sempre negando e scherzando; ma Pecchio, assistente del Consiglio di Stato, e che vedrete in casa Bignami, vi farà fede ch’io, fino dalle feste di Pasqua, tempo di quella novella, dissi seriamente che non mi tornava d’abitare con verun uomo in carica. Il ministro non me ne parlò più, nè io gli mossi il discorso; e tutto cominciò e finì sorridendo.

Del rimanente, mio caro Monti, vivete sicuro ch’io continuerò sempre a provvedere più al decoro che agli agi della mia vita; più alla tranquillità degli altri che al mio piacere; e più alla dignità degli amici in carica che alla puerile ambizione di vivere famigliarmente con essi. Però Borsieri, dopo le guerre al suo articolo, e qualch’altro giovane bisognoso di [p. 156 modifica]impiego, furono da me fortemente esortati d’astenersi dalla mia casa, dove cercando schietta e povera amicizia, si troverebbero involti nelle persecuzioni de’ ciarlatani; e quasi dello stesso tenore ho parlato a Carlo Catena, perchè lo ridicesse al cavaliere Tamassia, il quale mi fece intendere che tutti gli amici miei patirebbero per mia colpa. Rispetto a’ ministri, ho decretato da più settimane d’allontanarmi dalla loro ospitalità, acciocchè niuno nel ferir me possa più obliquamente ferire, con nostro e pubblico danno, il loro nome. Ma voi vedete ch’io, dimorando in Milano, non posso in ciò fare la mia volontà senza parere villano o stravagante con essi, ed avvalorare così le ciarle dei novellisti. E poichè in quindici anni non ebbi nulla di celato per voi, udite per l’ultima volta i miei minuti secreti. Aspetto di vendere in massa, anche per meno del prezzo che mi sono costate, le copie del Montecuccoli, e i pochi libri ed arredi lasciati in pegno a Pavia, dove per dovere di galantuomo pago ancora un affitto gravoso. Così soddisfatti i miei creditori, e rinunciando, come ho già fatto, a tutte le speranze d’impiego, accomodandomi da quasi un anno alle rendite mie, che di poco passano le lire duemila all’anno, andrò in luogo più oscuro a dare tutta alle lettere l’età forte che ancora mi avanza; e quand’anche, perdessi, come ad ogni cangiamento di ministero e di pubblica economia può presto e facilmente avvenire, le mie pensioni di riforma, andrò a cercar pane in terra straniera; e se l’indigenza superasse le forze della mia vita, io son certo, che non v’è terra, la quale possa contendermi l’onesta e libera morte, a cui m’apparecchio sino dal giorno ch’io vidi tutto incerto e tutto facile ad avvilirsi ed a macchiarsi nel mondo. Ma fino a quel punto cercherò compiacenza libera e santa nell’arte mia, e spererò ricordanza onorata dalla mia patria.

De’ miei pericoli adunque non importa che siate sollecito. Non ho scritto per collera contro i ciarlatani, dacchè niuno di loro può sostenere la mia presenza; e questo doveva e deve bastarmi. Ho scritto bensì per onore dell’arte mia e per amore della gioventù, e ho già calcolato ogni cosa. La parte più vile del genere umano, che assaliva voi venendo addosso a me, si scoprirà... si scoprirà da sè stessa. Siavi d’esempio il Bettoni, che, nel calunniarmi come suo debitore, s’avvedrà d’essersi dato la scure sui piedi.

Socrate, Locke, D’Alembert dissero le medesime cose, e patirono più di me! Non ch’io sudi i pericoli, ma l’uomo di onore non deve tacere, per timore, le opinioni utile vere; e se il sacrificarsi inutilmente è pazzia, il sacrificare il pubblico bene fu sempre viltà. Io non ho certamente l’ingegno, nè avrò la millesima parte di gloria di quei grand’uomini che vi ho nominati; ma io, che non ho ricchezza, nè onori, nè certezza di sepoltura, devo almeno serbare con religione la compiacenza di obbedire alla mia natura, e di nutrirmi dell’amore per le lettere e per l’Italia.

Ma io vi prego ad un tempo di non intricarvi mai in queste misere gare, e di non difendermi mai, qualunque sarà per essere il danno ch’io forse vado affrontando. Voi invece dovete essere ornai stanco, ed avete obblighi più santi di padre di famiglia. Non accettate la vittima che i ribaldi vi [p. 157 modifica]offrono in me, come vittima di conciliazione, ma non opponetevi mai alle loro ribalderie; e voi li disanimerete se seguirete il mio consiglio, di rispettare tacitamente la verità. Se voi, voi voleste ajutarmi, essi forse, ora che sono accresciuti di forza e di numero, tornerebbero a molestarvi co’ loro latrati, ed io avrei la macchia ed il rimorso d’avervi turbato quella pace a cui finalmente vi hanno lasciato.

Questa lettera non domanda risposta; e se mai voleste rispondere, piacciavi di rileggerla freddamente. Ma quali possano essere le vostre ragioni, e qualunque sia la mia colpa, io attribuirò tutto al mio rigore di carattere e alla vostra instabilità, e persisterò a fidarmi del vostro cuore, e a non avvicinarmi più a voi se non quando la mia amicizia potrà efficacemente giovarvi.

Intanto io sono sicuro, che voi tornerete a maledire e a perdonare a’ Creonti e a’ Tersiti; ma sono certo altresì che voi mi perdonerete le colpe che forse inavvedutamente ho commesse, e quelle ch’altri v’ha fatto e vi farà credere.

Per me siate certo ch’io non conservo rancore contro di voi, ch’io perdonerò le vostre collere momentanee all’antica e lunga amicizia; e torno a ripetervi, ch’io non credo che abbiate fatta mai contro di me cosa alcuna, la quale meriti un lungo risentimento. E vivetevi lieto.