Italiani illustri/Appendice C

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Appendice C

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Appendice B. Ugo Foscolo a Vincenzo Monti Appendice D

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APPENDICE C (pag.92)


Dell’Ossian non solo si parlò molto in Italia, ma ebbe certamente influenza sul rinnovamento della nostra poesia, laonde non è fuor di proposito il qui ragionarne.

Prima che fosse conosciuta l’indole e notata l’importanza della poesia popolare, nel 1756 lo scozzese Macpherson pubblicò in prosa inglese Frammenti di antiche poesie, che diceva aver raccolti dalla bocca de’ montanari scozzesi, e che attribuiva ad Ossian, figlio del re Fingal, vissuto fra il secondo ed il terzo secolo, al tempo che i Caledonj contro i Romani difendeano l’indipendenza, minacciata dall’imperatore romano Severo. Ossian combattè col padre, inanimando e celebrando le imprese. In una spedizione in Irlanda amò Evirallina, figlia di Brano re di Rego e amico degli stranieri, e n’ebbe un figlio, Oscar, che perì per tradimento mentre stava per isposare Malvina. Questa rimase allora consolazione e sostegno dell’orbo padre, con lui piangendo l’estinto; e perduti tutti i suoi parenti e compagni in un gran disastro cantato nella Caduta di Tura, Ossian, cieco ed ultimo di sua stirpe, ritirossi nella valle di Cona, oggi nella contea d’Argyle, presso un tal Culdeo figlio d’Alpino, consolandosi o sfogandosi col canto, e rammentando le imprese dei suoi verd’anni, allorchè Caracul re del mondo fuggì attraverso i campi del suo orgoglio. Voleva così indicare l’imperatore Caracalla; ma qui subito poteva avvertirsi che questo nome non venne applicato all’imperatore Antonino se non dopo morto, e come scherno, tratto da una certa sottana che volea tutti portassero.

I primi frammenti invogliarono d’altri: e Macpherson ne diede fuori nel 1765; poi G. Smith, visitati i montanari, raccolse altri quattordici poemi fra d’Ossian e di altri bardi.

Era il tempo che la scuola enciclopedistica per moda imponeva il vilipendio del passato onde arrivar alla demolizione delle cose più sacre. Fu dunque un concerto universale ad esaltar questo nuovo poeta, a svantaggio non solo di Pindaro e di Omero, ma, e sopratutto, d’Ezechiele e d’Isaia; ed è bello vedere il Cesarotti nostro ogni tratto mettere quel genio caledonio al disopra del suo Omero. Realmente quei canti non vanno privi di merito, chi si spogli delle idee classiche: se non altro portavano della novità in mezzo a un mondo, pieno d’Olimpo, di Parnaso, di ninfe, di cetre, d’ambrosia; all’Aurora delle bianche dita, alla messaggiera Iride, all’inalterabile sorriso del cielo di Grecia surrogavansi le nebbie della Caladonia; Cuculino, Fingallo, Temora, Oinamora agli Agamennoni, agli [p. 160 modifica]Enea, ai Pelidi, ai Goffredi, agli Orlando; Selma e Malvina alle Antigoni e alle Cesire; v’era ancora un “cieco d’occhi e divin raggio di mente”, ma aveva combattuto, era figlio di re, signore dei canti, e il vento delle montagne fischiando fra le corde della sua arpa davagli l’illusione di ombre degli estinti eroi che venissero a chiedergli il canto, in cui vivrebbero eterni.

Pure alcuni dubitarono dell’autenticità di que’ componimenti, e conservarono tanto buon senso da respinger il senso comune, e vedere che poteano ben essere l’opera d’un mediocre verseggiatore come il Macpherson. La contesa si agitò coi soliti modi della passione. Sarebbe stato semplicissimo che altri si recasse ad intendere dai pastori scozzesi le canzoni stesse: o che almeno il Macpherson le pubblicasse originali, quai le avea raccolte da essi: ma gli spedienti semplici non sono mai i preferiti. Sol tardi si pubblicò un testo nel linguaggio gaelico della Caledonia, ma si dimostrò che non era se non una traduzione della prosa inglese, benchè sembri assumere un tono più riposato e un colorito particolare. La quistione agitossi a lungo, e non è ancor affatto risoluta. Il ritenere che Macpherson e Smith inventassero ogni cosa, supporrebbe in essi una identità di genio, non possibile in natura. D’altra parte Macpherson era uom religiosissimo e persistette sempre nell’asserire quel trovato: stimabile ecclesiastico era pure Smith. Mentre il gentile poeta Gray non rifiniva di lodare quelle poesie, il sapiente critico Johnson ne fu il più acre impugnatore, e dopo un diligente viaggio nelle Ebridi, attaccò violentemente Macpherson, che altrettanto virulento rispose: e che poi morendo (1796) lasciò mille sterline a Giovanni Mackensie, affinchè stampasse il testo originale delle poesie di Ossian. Infatti la Highland Society nel 1805 mandò fuori una relazione, compilata da Mackensie suo presidente, diretta a provare l’autenticità di que’ carmi. Vennero in terzo gli Irlandesi, pretendendo che quel bardo appartenesse alla gente loro, non alla scozzese. Realmente i mandriani hanno certe canzoni, ma, se stiamo a quei che meglio ne discorsero, quali O’Reilly e Drummond, pochissimo presentano di quanto sta in Macpherson, e non sarebbero più antiche del secolo ottavo: ed anzichè prodotto della Scozia, parrebbero dell’Irlanda. Man mano che si pubblicano testi di poesie popolari, come n’entrò la smania nel secol nostro, rinnovasi il paragone con Ossian; e ultimamente fu fatto in occasione dei canti della Bretagna continentale. Lungo troppo sarebbe il riportar qui i documenti o neppur le ragioni contraddittorie; onde ci accontenteremo di registrar le opere principali che potrà consultare chi voglia chiarirsi.

Primi saggi nello Scottish Magazine, 1756, january, e nei Remains of ancient poetry, collated in the Highlands of Scotland (Edimburgo, 1760, in-12°).

Fingal, an ancient epic poem in six books, with several other poems, ecc., by Ossian, the son of Fingal (Londra, 1762, in-4°).

The songs of Selma, from the originai of Ossian (ivi, 1762, in-4°).

Temora, an ancient epic poem in eight books, ecc., translated from the same (ivi, 1763, in-4°). Comprende un libro nel supposto originale. [p. 161 modifica]

The Works ef Ossian translated from the gaelic poems, ecc., by J. Macpherson. To which is subjoined a criticai dissertation on the poems of Ossian by Hugh Blair (ivi, 1765, II, in-4°). Riprodotta in molte edizioni.

Report of the Committee of the Highland Society of Scottanti, appointed to inquire into the nature and authenticity of the poems of Ossianii (Edimburgo, 1805, in-8°). Nell’appendice si riporta il principio del poemetto Carrickthura, che fu poi ristampato, con qualche ommissione nel testo, nei

Poems of Ossian in the original gaelic, with a literal translation into latin by R. Macfarlane, together with a dissertation on the authenticity of the poems by J. Sinclair, and a translation from the italian of the abbè Cesarotti’s.

Dissertation on the controversy respecting the authenticity of Ossian, with notes and a supplementary Essai by J. M’Arthur, published under the sanction of the Highland Society of London (Londra, 1807, III, in-8°).

O sein Mac Fhinn, etc, Duncidin (Edimburgo, 1818, in-8°).

Ginguené, Notice sur l’état actuel de la question rélative à l’authenticité des poèmes d’Ossian (Parigi, 1810).

Leggasi la storia delle prime quistioni sull’autenticità, ecc. in Gurlitt, Ueber Ossian (Magdeburgo, 1802, e Amburgo, 1804-5, in-4°).

Talvi (pseudonimo di una signora Jacob, rimaritatasi poi a New-York col dottore Ed. Bobinson, autore dei Biblical Researches in Palestine, ecc.), Die Unächtheid der Lieder Ossian’s und des Macphersonischen Ossian’s insbensondere (Lipsia, 1840, in-8°).

Attribuiscono ai cantici ossianici origine irlandese:

Hamilton Drummond, Essay on the authenticity of Ossian’s poems, nei Transactions of the Irish Academy (t. XVI). O’Reilly, Essay to investigate the authenticity of Ossian’s poems (Dublino, 1830, in-8°). G. Shaw, Inquiry into the authenticity of the poems ascribet to Ossian (Londra, 1781).

Campbell, Essay on the authenticity of Ossian’s poems (Londra, 1835).

Mac Gregor, The genuine Remains of Ossian literally translated (Londra, 1841, in-8°).

Vedansi anche Les Pseudonymes Anglais au dix-huitième siècle, di Filarète Chasles, nella Revue des deux Mondes, 31 maggio 1844, e il Grasse, Lehrbuch der Allgemeinen Literärgeschichte (II, 1, p. 40.).

In Italia quei canti vennero a cognizione di Melchiorre Cesarotti, il quale conosceva molte lingue, e aveva un gusto suo particolare, secondo il quale credeva che la lingua italiana dovesse continuamente arricchirsi coi francesismi; che Omero fosse un rozzo, sicchè egli s’incaricò di raffazzonarlo, di rimpolpettarlo, come alcun disse, prestandogli e modi e sentimenti convenevoli col galateo nostro; altrettanto fece con Demostene e coi sofisti. Ove non è a tacere che simili raffazzonamenti avea fatto Macpherson sopra Dante, riducendolo in prosa inglese. Questa baldanza, sacrilega verso i classici, riusciva opportunissima verso un mediocre scoz[p. 162 modifica]zese pseudo-antico; e il Cesarotti la adoprò francamente a rifar quei canti. Certamente Macpherson avria avuto a rallegrarsi d’esser così interpretato, e disse bene chi disse che Ossian bisognerebbe leggerlo nella versione del Cesarotti. Tutto vi è ricomposto, vestito di bella poesia, gonfia se si vuole, ma armoniosa; ben toccato il patetico: a volta ne escono quadretti che alcun classico non isdegnerebbe. Valga d’esempio questo, ove, piangendo la morte di Cuculino, ne descrive il figliuolo bambino.

Verrà coi vezzi teneri,
     Vedrà la madre in lacrime,
     E la cagione incognita
     Del pianto chiederà.
Alzerà gli occhi il semplice,
     E alla parete pendere
     Il brando formidabile
     Del genitor vedrà.
Vede il brando del padre.
— Quel brando e di chi è? — piange la madre.

Se non sapessimo che i poeti sogliono farsi de’ complimenti, stupiremmo all’udir l’Alfieri confessare che deve al Cesarotti l’aver imparato a far versi: versi che sono lontani a tiro d’occhio dal modo del Cesarotti. Fatto è che, pel solito andazzo dell’imitare, s’introdussero allora strane frasi nei nostri poeti: il figlio della spada, il signor dei brandi, la vergine della neve, i fiacchi figli del vento, la stridula voce della notte; e così, rotolar nella morte, impennar l’agile piede, metter l’ali al pugnare, il bianco petto gonfiarsi all’aura dei sospiri.... e nelle cose una sovrabbondanza d’immagini e traslati, viziosi particolareggiamenti, frivola anatomia del sentimento, e il predominio del lugubre e del fantastico. Non che nel Natale del Pellegrini e nel Bardo della selva nera del Monti, quest’influenza sentesi nel Foscolo e nel Leopardi, e in qualche vivente, che affettando originalità, non s’accorge di farsi scolaro del finto Ossian.

La traduzione del Cesarotti è accompagnata d’un saggio storico ed estetico, ove vuol provare l’autenticità del suo poeta, e conchiude che se non vuolsi chiamarlo Ossian, lo si chiami Orfeo, o figlio d’Apollo. L’Oinamora fu tradotta da Giovanni Torti. Le Tournear ne diede la versione in francese: in spagnuolo Ortez, in tedesco Denis ed Harold, ecc.

A chi volesse ridere della poca critica dei nostri nonni, suggeriremo sommessamente che nel 1862 a Parigi si stamparono da D’Assally, col titolo di Chevaliers poètes, delle pretese traduzioni di minnesingeri tedeschi; e il dotto critico Saint-Marc Girardin le onorò di gran lodi nella Revue des deux Mondes, e vi trovò bellezze superiori a Pindaro; e tutto era invenzione francese.