L'Erminia

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Gabriello Chiabrera

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La conquista di Rabicano L'Alcina prigioniera
Questo testo fa parte della raccolta Poemetti di Gabriello Chiabrera
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L’ERMINIA

AL SIG. FRANCESCO BALDI.

     O bella, o della lira alma custode,
Nemica dell’obblío, regina Euterpe,
Di’ l’amorosa fè del buon Tancredi
Ver la sua donna indegnamente uccisa,
5E quella incontra Amor salda promessa,
Di che dolente sè medesma offerse
Erminia disperando a dura morte.
Queste memorie verseran nell’alma
(Candida in ver vie più che neve alpina)
10Del tuo nobile Baldi alma dolcezza;
E quinci ei forse tornerà sovente
Ad ascoltar della sacrata istoria,
Che tutta aspersa di nettaree rime
Oggi l’orecchie, i cor tanto lusinga.
15O venturoso, o avventuroso il Cigno,
Che sull’ali possenti ha corsi i gioghi
O del Carmelo, o del Sionne eccelsi;
Anzi pur, siccome Aquila sicura
Dell’avverso tonar, spiega le piume
20Per entro i nembi, e all’aureo Febo appresso,
E sotto lascia ogni mortal sentiero.
Io non così, non cotanto oso, o Diva:
Io non le palme del guerrier sublime,
Non l’aria tinta intra le Sirie squadre
25Del real sangue; d’amoroso affanno
Picciol canto a raccontar m’appresso,
Se de’ soccorsi tuoi non mi diffidi.
Poiché a Gerusalem scorsi rimira
I gioghi acerbi, e del Tiranno ingiusto
30La vita estinta, e le seguaci turbe
Dentro scura prigion rinchiuse, o morte,
Goffredo umil della vittoria altera
Sciogliea l’inclito voto, e nudi i crini
D’ogni corona, discendea sovente
35I sassi ad adorar della gran tomba.
Gli altri guerrier, non già le man sanguigne,
Correan l’alma città fatti bramosi
Di dar le vele in ver la patria, ed ivi
Giojosi di mostrar le belle piaghe.
40Sol del mesto Tancredi il petto, e ’l volto
Ne’ comuni trionfi era dolente:
Egli il busto feroce in negre spoglie
Chiudeva, e del cimier tolte le piume,
Elmo vestiva rugginoso, e bruno
45L’else cingea dell’onorata spada.
Cotal movea solingo o che sorgesse,
O che nell’Ocean chiudesse il giorno,
Là ’ve giacea la male amata amica.
Ivi mirando un dì gli usberghi appesi,
50Mesta memoria, e lo spezzato scudo,
De’ quali armossi in van l’alta guerriera,
Fermò lo sguardo, e giù nel cor profondo
Mille girò crudi pensieri, e poscia
Percosse il petto, e così disse al fine:
55O te, non pur ne’ regni dell’Aurora,
Ma nel nostro Occidente anco beata,
A gran ragione in te già farmi esempio
Dovea di pianto, e non venire al mondo;
Ma poscia che or nel ciel lieta e sicura
60Al fonte bevi di mercede, infiammi
Tuo nobil cor per me qualche pietade:
Spirami tu, come quaggiuso in terra
Viver possa i miei dì, che a te non spiaccia.
Io bene a te verrei; ben della morte
65Mi sarebbe dolcissima la piaga;
Ma se con lunga pena esser qui deve
Lunga mia vita, e s’io, che tanto il bramo,
Devo al bel guardo tuo ritornar tardi,
Non disdegnar, che tuo fedel mi dica
70Nell’alma Italia, e che ne’ patrii alberghi
Sì nobil pregio i miei dolor consoli.
A te mi sacro, or di bellezza indarno
Armala muove assalto altra reina,
Per questo petto con mendaci modi.
75Ben lo sai tu, che dalle stelle eterne
Il profondo del cor nudo mi scorgi.
Così diceva, e d’amorosi pianti
Lavando il petto a sua magion sen riede.
Ed ecco Erminia, che in negletti veli,
80Sangue real, quasi lugubre aucella
Li move incontra, e colle ciglia oscure
Di lagrimosa nube a lui s’inchiua,
E dolente il saluta, indi ragiona:
Mentre al vostro valor facean contrasto
85I Palestini, ed eravate in guerra,
lo non presi a pensar sopra il mio stato,
Mirando voi, che co’ nemici a fronte
Vivevate fra i rischi, e fra gli affanni:
Or cessano gli assalti, or son deposte
90L’armi, e la Siria vostri gioghi accetta;
Già si spalmano legni, a’ proprj alberghi

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Volgonsi i Duci, e tu di gloria altero
La bella Italia a rallegrarne andrai.
Ma pria che tu diparta, ecco ritorno
95A te Tancredi, ed al tuo cor pietoso
Chiedo quella mercè, che in ogni tempo
Altrui comparti, e che già meco usasti.
Tu nell’incendio dell’afflitte mura,
Ove io vissi reina, in mezzo il sangue
100Tepido di seguaci e di parenti,
Di me piangesti, e dall’orror di morte
Mi conducesti alle miglior speranze.
Sì t’increbbe di me, che mi porgesti
La destra invitta, e ti mostrasti vago
105Men di vittoria allor, che di clemenza
In quel momento, a non tenermi ancella
D’aspre venture, e mi credei, che in vano
Di tanto vincitor questa mia vita
Non dovesse esser mai solo felice.
110Ma se lunge da te sola rimango,
Nulla è di me. Tolti mi sono i regni,
Il padre estinto dalle vostre spade,
La genitrice sul Sïon sepolta.
Per tal modo deserta in Oriente
115Alcun luogo non ho dove ripari.
Dunque, o pregio d’Europa, o pregio all’armi,
Intento sempre a sollevar gli oppressi,
Segui tuo stile, e me con te conduci,
Se non vuoi per consorte, almen per serva.
120Non sia peccato appresso i cor gentili,
Onde l’Esperia glorïosa abbonda,
Donna salvar, che al nascer fu reina.
Ma se di feritate alcuno biasmo
Dannerà gli atti di pietate, allora
125Dir gli potrai, come piagato a morte
Giacevi in Siria, e che sull’ore estreme
La sfortunata Erminia ti soccorse;
E che crude ferite ella ti chiuse,
Nè ti fu scarsa delle proprie chiome.
130Così diceva, e da’ begli occhi intanto
Versava onde di lagrime correnti
Salla neve del petto, ed a Tancredi
Novella doglia alle sue doglie aggiunge;
E di quella dolente alto sospira,
135E seco pensa; indi risponde al fine:
Il nobil sangue, e lo tuo stato acerbo,
E la chiara virtude, onde il sostieni,
E seco il pregio della fresca etade
Non lascerebbe il cor, benchè feroce,
140Se non molto piegato a’ tuoi desiri.
Or che debbo far io, che se risguardo
il chiaro Sole, e se quest’aure godo,
Tutto, Erminia, mi vien per la tua mano?
Risco non ha, non ha temuta impresa
145Nell’Universo, che per farti lieta,
Vincerla e superarla io non presuma.
Ma degli amori miei, che altrui son specchio
D’altrui miseria vo’ parlarti alquanto.
Poiche nell’empio assalto, ove esser vinto
150Era mio bene, io vincitor rimasi,
Ne per quinci fuggir, mi era concesso
Romper la vita abbominato, io diedi
Pegno di fede a’ cavalier, che in terra
Non saria donna, ond’io vivessi amante;
155Non più servir per amorosa legge
Stato è mio vôto: e se rivolgi in mente
L’arte crudele, onde io pur dianzi amai,
Di teco soggiornar non sarei degno.
Ma perchè per mio onor lieta ritorni,
160Ed abbi i regni già perduti, e quale
Io pur mi sono, o lungo il grande Arasse,
O sovra il Nilo, o pur vicino al Gange,
Non paventar, ti troverai regina.
Certo non lascerò tua nobil fronte
165Senza corona. Così disse alzando
La destra verso il cielo; e feo sicura
La bella donna di sue gran promesse.
Ed ella mesta, e di morir già vaga,
China l’umide ciglia: indi sospira,
170E poi soggiunge: Se venir non deggio
Teco in Italia, prenderò consiglio
Meco medesma; e fermerò là, dove,
E non mai che soletta, io mi dimori.
Più non diss’ella, e ratto il piè rivolse,
175E rivolgendo in sè l’antico stato,
Onde è caduta, e la miseria estrema,
Che pur le avanza, e la speranza spenta,
E la via chiusa a’ desïosi amori,
Fa di più lunga vita empio rifiuto.
180Dunque non alle tende, anzi si affretta
Ver le foreste solitaria, e schiva
I campi impressi da vestigio umano.
Cola ricerca, e colle ciglia intente
Va per aspre pendici, e va per monti
185Nociv’erbe cogliendo, ond’ella preme
Licor temuto di mortal veneno;
E poichè presti a sua mortal vaghezza
Ave gli atri aconiti, ella s’adagia
Sull’erma terra, e di una quercia al tronco
190Appoggia i fianchi travagliati, e seco
Di se stessa dolente a parlar prende:
Già non credea tra’ miei furor nemici
Raccoglier tal pietà del buon Tancredi;
E che eletta dal cielo a darli vita
195Con queste mani, io poi dovessi indarno
Chiederli refrigerio a’ miei dolori.
Lieta Clorinda, ed a ragion felice,
Che partita dal mondo ancora ti ama.
Misera Erminia, a cui, perchè non viva,
200Il giusto invito dell’amor ti niega.
Or se per me nel mondo altro che affanno
Non è rimaso, e se di doglia in doglia
Devo i giorni menar sopra la terra,
Ricerchisi qui dentro alcun conforto.
205Cosi disse ella, e le purpuree labbra
Del tosco asperse, e quell’orrido suco
Mandò nel petto a sazïarne il core.
Indi la bella testa alquanto inchina,
E sulla bianca man posa le tempie,
210E nel sereno cielo il guardo affisa:
Come nocchier, che per la notte oscura,
Chiuso da foschi nembi il legno adduce
A scogli, mentre egli sperava il porto;
Ben alto ei geme, e sospirando accusa
215L’aspro voler, pur nell’angoscia attende
Forte a soffrir l’inevitabil morte:
Così l’inclita vergine attendea
Con saldo cor della sua vita il fine:
E quando ella vien men, quando s’accorge,
220Che l’alma trema per volarsen fuore,
Scioglie dall’aureo crin candido velo,
E la pallida faccia indi ricopre;
Poi rammentando i posseduti regni

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Già sull’Oronte alla stagion felice,
225Gelata, e sparsa di sudor la fronte,
Chiuse tremando e palpitando i lumi.