L'altare del passato/Torino d'altri tempi
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TORINO D’ALTRI TEMPI.
(La bela madamin la völo maridè.)
Sul colle delle Maddalene, dominante Torino, in un cascinale che fu già una villa antica, io sto supplicando, senza speranze, una contadina sorda ad ogni mia lusinga.
Sorda anche perchè ha compiuto l’altro ieri il settantanovesimo anno.
È bellissima.
Contro l’immensa finestra a telaietti quadri, l’argento dei suoi capelli ondosi scintilla come l’argento delle vette alpine che si profilano alle sue spalle e la bella maschera sembra un volto giovane, modellato in una creta rossigna dove la stecca d’uno scultore maestro abbia segnato poche rughe improvvise; gli occhi di pura turchese hanno un bagliore giovanissimo, ironico, vigilante.
La figlia, la nipote, il nipotino, che sfaccendano nella grande cucina, ridono di me che ho preso le mani della granda e seduto ai suoi piedi sopra uno sgabello basso le ripeto per la decima volta la mia profferta supplichevole:
— Aggiungo dieci, lire.... ne aggiungo quindici.
La vecchia non ha capito. La nipote s’avvicina, le sillaba forte all’orecchio: “aggiunge quindici lire„; la vecchia esita. Poi s’alza, si volge alle donne con un sorriso ed un sospiro, accennando al pendolo e a me:
— Ah, che balengo!
Esulto. Ho sentito in quella contumelia il consenso.
La vecchia incarta in una pagina del nipotino il robert minuscolo, una delizia di bronzo e di smalto, dalla panciuta grazia settecentesca, sfuggito non so come alle razzìe degli antiquari. E la mia gioia è tale che quasi non sento che la vecchia canta certo per consolarsi del distacco da quella cara cosa familiare, canta con una voce così giovane ed armoniosa che sembra non appartenerle, sembra giungere da un’altra stanza:
Ma come? Si canta dunque ancora sui nostri colli torinesi La bela madamin, la canzone di Carolina di Savoia? Avevo dovuto occuparmene per certi studi di folklore subalpino, la conoscevo attraverso le versioni del Nigra, ma la credevo un fossile ormai della letteratura popolare e gioisco ascoltandola, sorpreso come il geologo che si veda ad un tratto dinanzi viva e fresca nella luce del sole la bella specie creduta estinta.
Ed eccomi seduto ancora sullo sgabello basso a trascrivere i versi sul dorso del piccolo pendolo già incartato:
La bela madamin la völo maridè,
che ’l Düca di Sassònia i so la volo dè,
— O s’à m’è bin pi car ün pover paisan
che ’l Düca di Sassònia ch’a l’e tant luntan!
— Un pover paisan l’è pa del vostr onur!
’l Düca di Sassònia a l’è ün gran signur.
’l re cön la Regina l’an piàla bin për man,
a San Giuan l’an mnàla, en Piassa San Giuan.
Da già chè a l’è così, da già ch’a l’è destin,
faruma la girada anturn a tüt Türin.
Cara la mia cügnà, perchè che piuri tant?
Mi sun venüa da’n Fransa ch’a l’è d’cò bin luntan.
Vui si venüa da ’n Fransa, vui si venüa a Türin
in Casa di Savoia, ch’a l’è ’n t’in bel giardin.
Cara la mia cùgnà andè pür voluntè,
che drinta a la Sassònia a fa tanto bel stè!
Cara la mia cügnà tuchè-me’n po’ la man:
Tüt lon che v’raccomandö s’a l’è la mia maman,
Tüchè-me’n po’ la man, me cari sitadin,
Per vive che mi viva vëdrö mai pi Türin!
E sapete chi era la bela madamin? La figlia del re; quale re?
Il re di Savoia — e la cognata? e il duca di Sassonia?
La vecchia, le donne non sanno altro. È forse necessario sapere?
Nulla nuoce alla poesia come la cosa certa, nessuna cosa le è favorevole come la perfetta ignoranza.
Esco, scendo verso Torino che traspare in un velario a tre tinte: rosa, viola, verde tagliato dall’argento sinuoso del fiume, dall’argento delicato delle Alpi. Sono felice. Zufolo, canto. Ho sotto il braccio la bella cosa di bronzo. Ho nell’orecchio la bella cosa di parole; e penso che l’una e l’altra risalgono alla stessa epoca circa sono egualmente antiche: ma quella fatta di parole è più viva, è più fresca di quella fatta di metallo....
La bela madamin! la principessa Maria Carolina Antonietta di Savoia, figlia di Vittorio Amedeo III, sposata per procura del fratello Carlo Emanuele al principe Antonio Clemente, duca di Sassonia.... Io so tutto di lei e della sua vita candida e breve: conosco date, nomi, episodi, cifre. Mi guarderò bene dal ricordarli in quest’ora di poesia.
E ancora una volta chiederò al sogno, al sogno soltanto la cosa impossibile a tutti (anche impossibile a Dio), resuscitare il passato.
Ed ecco la Torino d’oggi scompare.
Scendo al piano. Dove sono? Non riconosco il sobborgo oltre Po, non ritrovo il tempio della Gran Madre. Sono perduto in un bosco selvaggio ed arcaico, anche le piante hanno uno stile, anche le nubi; queste nubi, queste querce, questi olmi che confondono la ramaglia in alto formando un corridoio sulla strada mal tenuta e disagevole, non sono alberi dei nostri giorni, imitano troppo bene i gobelins e gli arazzi....
M’orizzonto. Vedo a sinistra sulla verzura selvaggia il Monte dei Cappuccini, a destra la Basilica di Superga — Superga: siamo dunque dopo la metà del 1700. Cammino lungo il fiume: è bene il Po, lo sento: ma senz’argini, primitivo d’altri tempi esso pure.... È Torino? Mi prende il brivido pauroso dei sogni quando si vedono le cose familiari stranamente deformate dall’incubo.
Ecco la città, Torino?
Sulla sponda opposta s’innalza un baluardo di mattoni sanguigni coronato di granito; si svolge ora in volute, ora a spigoli acuti, con feritoie, casamatte, cannoni, e al di là del baluardo emergono i tetti, le cupole, i campanili, le torri. Ma Torino? Sì. La cupola della Metropolitana, il campanile di San Lorenzo, i SS. Martiri.... Ma quale spaventosa malinconia! Sembra una di quelle città minuscole e fosche che le sante protendono nella palma della mano....
Ho paura in questo regno del non essere più; gli spettri delle cose sono più terribili che gli spettri delle persone.
Ma ecco persone, ecco uomini: soldati: un drappello brigata Aosta; sembrano vivi: uose bianche, panciotto rosso, giubba azzurra, tricorno azzurro orlato di giallo civettuolamente rialzato dalla parte della coccarda bianca; e sotto la parrucca candida i sopraccigli, gli occhi, i mustacchi appaiono più neri e più imperiosi. Li seguo sino al ponte, strano ponte metà in legno, metà sospeso su due vecchie arcate diroccate: gracile, malfermo, pittoresco come un motivo fiammingo. Passano contadini nel costume di Gianduia, passa una berlina con due abati dal cappello immenso, alla Don Basilio; passa un saltimbanco con una carrozzella ed una scimmia.
Ecco una porta dalla favolosa architettura barocca: Porta Padana: la Porta di Po! Troverò dunque Piazza Vittorio. Entro, ma Piazza Vittorio non esiste più, non esiste ancora. La città comincia dove termina oggi Via Po. Ecco Via Po finalmente! Ha i suoi portici d’oggi, i suoi palazzi, i suoi balconcini in ferro battuto, ma è deformata da non so che, le manca non so che cosa; forse l’assenza di lastrico, di selciato, di rotaie, e la Doira, quel ruscello che scorre nel mezzo, e la scarsità, la povertà dei negozi le dànno quest’aspetto sinistro di fame e di pestilenza. Eppure è rallegrata con grandi archi trionfali di tela e di legno a figure allegoriche barocche, recanti nel mezzo l’anagramma in corsivo sotto lo stemma sabaudo; e la folla è fittissima e gaia; Gianduia e Giromette; contadini che affluiscono alla città, in questo giorno, senza dubbio, solenne, borghesi, gentiluomini, soldati a piedi e a cavallo, balenìo d’occhi e di denti, corrugare di labbra e di sopracciglie, rozze parrucche plebee, nere o castane, parrucche di patrizi argentee, calamistrate, guizzare di polpacci muscolosi o smilzi nelle calze di cotone o di seta, di Gianduia o del marchese, berline e portantine dove traspare il rosso del belletto, il nero artificioso dei nèi, una bocca che ride, una mano che agita un ventaglio, che accarezza un cagnolino cinese.
Interrogo un soldato: non mi risponde; un contadino: nemmeno si volge; un abate: non mi guarda, non batte ciglio. E allora m’accorgo d’una cosa inaudita e terribile: sono ombre (o l’ombra sono io?) divise da me dal mistero del non essere più, del non essere ancora. Vedo e non sono veduto, sento e non sono sentito.... Intorno si parla francese o un piemontese arcaico molto serrato nella erre infranciosato o l’italiano pesante dei libri stampati; così dinanzi a me un tal conte Dellala di Beinasco e un tal cavaliere Mattè macchinista deplorano “.... la fatal pioggia importuna che ieri sera nocque al fontionamento della macchina dei fuochi artefitiali di gioia, a cascatelle e figure molto vaghe e dilettevoli, onde l’ornatissima madama giovinetta volle trarre nefasto presagio....„
E poco oltre all’angolo di via San Francesco da Paola uno scrivano pubblico legge ad alta voce un affisso del muro ad un gruppo di analfabeti riverenti: “....Prima della partenza il Nuziale Corteggio attraverserà la città di Torino uscendo di Palazzo a Piazza San Giovanni per via Dora Grossa, Piazza Castello, Via Nuova, Porta Nuova, Porta di Po, volendo il Re e la Regina affecondare cofì la pubblica brama di vedere ancora una volta in effa l’Amata Augusta Figliuola.
“29 settembre 1771„
Leggo anch’io la lista delle sontuose Nutiali allegrezze per l’eccelso maritaggio, ecc., ecc. di Madama Carolina con il Duca di Sassonia rappresentato per procura dal fratello della sposa. Ieri al Castello di Moncalieri ebbero luogo le nozze. Oggi la nuova Duchessa di Sassonia partirà per Dresda e farà per Torino un ultimo giro d’addio.
... Da già ch’a l’è cusì, da già ch’a l’è destin
faruma la girada anturn a tüt Türin....
La bela Carulina.... la bela madamin.... si parla intorno a mezza voce di non so che scandalo provocato ieri dalla sposa sedicenne nell’ora solenne del sì.
— Oh, marchese, ieri si sperava di vederla a Moncalieri.
— Non ho ricevuta la carta d’accoglienza.
— Ma non è possibile!
— Proprio così, Monsignore. Ho già fatte le mie rimostranze al Gran Cerimoniere.... Erano in molti?
— Non molti. Forse cento invitati. Il Re, la Regina, la Principessa Carlotta di Carignano, il Cardinale Marcolini, il Principe di Salm Salm, i Vescovi, i Cavalieri dell’Ordine, il Principe di Masserano, i Ministri di Stato, il Capitano delle Guardie del Corpo, il Governatore del Principe, il Mastro di Cerimonia, gl’Introduttori, i Sotto Introduttori degli Ambasciatori.
— E gli sposi?
— Non erano allegri. Già l’idea del distacco per sempre. E poi una bimba di non ancora sedici anni sposata da un fratello per un Principe che non ha veduto mai....
— Ha smaniato?
— No, no. Ha significato come dire la sua rassegnazione. Nel momento del sì ha capito che si decretava l’esilio, l’esilio per sempre in quella Sassonia che deve apparirle come l’estrema Tule.
— Ma non ha smaniato.
— Affatto fu un attimo. Il Grande Elemosiniere del Re uscì pontificalmente dalla sacrestia e dopo essersi inginocchiato all’altare ed inchinato al Re e alla Regina fece agli sposi la consueta interrogazione. Il Principe di Piemonte rispose immantinente; ma la Principessa fu vista impallidire, alzarsi, vacillare, volgersi smarrita verso i genitori inginocchiati alle sue spalle; lo sguardo di Sua Maestà la dominò, la piegò, la fece inginocchiare, prorompere non in uno ma in tre sì consecutivi che fecero ridere tutta la Corte.... Sia detto tra noi, Monsignore, io non vorrei essere oggi nei panni del Conte Lamarmora.
— Perchè?
— Perchè s’è presa tutta la responsabilità di fronte al Re di questa gita d’addio per compiacere la Regina e la Principessa. Lei sa che ancora sabato scorso era stabilito che subito dopo le nozze il corteo accompagnato dall’ambasciatore della Corte Elettorale di Dresda proseguisse direttamente da Moncalieri senza soffermarsi a Torino e raggiungesse Augusta dove i Commissari del Re di Savoia avrebbero consegnata la sposa ai Commissari del Duca di Sassonia. Sarebbe stato il partito migliore. Ma la Principessa, povera bimba, cerca ogni pretesto per prolungare di un’ora la sua partenza. Ha supplicato, ha smaniato per passare a Torino un giorno ancora e la Regina ha avuto l’idea di una passeggiata d’addio per la città con relativa esposizione della Santissima Sindone alla Galleria di Piazza Castello. Il Re ha resistito, poi ha concesso, previa responsabilità del Conte Lamarmora intercessore, per evitare ogni guaio. Lei sa quanto Sua Maestà sia alieno da scandali. Non vorrei essere cattivo profeta, ma non mi stupirei che la Principessa Carolina desse in convulsioni nel bel mezzo di Piazza Castello o di Via Dora Grossa. Ieri al ballo di gala aveva gli occhi di un’allucinata....
— Povra masnà!
Siamo in Piazza del Castello, la Piazza Castello settecentesca quasi simile a quella d’oggi e pure tanto diversa. La illumina un sole non vero: il sole che illumina le vecchie stampe e le cose che si raccontano.... Due gallerie di stile barocco si prolungano ai lati di Palazzo Madama dividendo la Piazza per metà; e l’assenza di lastrico e di rotaie, di globi elettrici e d’intrico metallico d’insegne e di grida murali le dànno un aspetto spoglio di cosa morta.... Come noi moderni si vive di questo.
Una folla immensa si riversa dai Portici della Fiera, strana folla disposta, accoppiata dalle incisioni in rame e dalle stoviglie di Savona (non l’arte imita la vita, ma la vita l’arte; le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti) e v’è la berlina dai quattro cavalli recalcitranti raffrenati dal postiglione; v’è la portantina ducale, il servo che conduce il cane al guinzaglio, i due abati che s’incontrano e si stringono la mano, la madre che ammonisce il bambino, i comici nella loro baracca, il cerretano che vende l’elisir di lunga vita, la sibilla che predice le sorti. E la folla è disposta secondo il gusto convenuto che importarono in Piemonte i pittori fiamminghi e sulla folla ondeggia con un ritmo vago, insistente la canzone del giorno.
Ma oltre Palazzo Madama, che preclude la vista dell’altra metà della Piazza, s’alza un mormorìo diverso, una melodia liturgica e solenne e l’aria si vela di nubi candide e odora acutamente d’incenso. M’apro il passo per un varco dei Portici e resto immobile rapito dal quadro più solenne che la fede intatta abbia offerto mai ad occhi mortali. Tutta la Piazza fluttua d’una moltitudine indescrivibile ed è convertita in un tempio che ha per cupola il cielo. In fondo s’eleva la loggia che divide Piazza Castello dalla Piazza del Palazzo Reale ed ogni arcata è occupata da un vescovo officiante. Dall’arcata centrale protetta da un baldacchino vermiglio pende ben tesa la Santissima Sindone, la reliquia esposta alla folla per poche ore, il tesoro unico sulla terra, quel sudario nel quale Giuseppe D’Arimatea avvolgeva il corpo del Redentore deposto dalla Croce. E mille labbra cantano il Te Deum, e mille mille occhi fissano la duplice immagine del Corpo Divino. Dal mattino si officia di continuo all’aria aperta nella luce del sole; tutto il popolo prega ad alta voce per la giovinetta sabauda che partirà tra poche ore per la terra lontana. Tra i colonnati barocchi dell’alta loggia scintillano le mitre vescovili, spiccano i damaschi e le sete, le porpore, gli zibellini: è adunato tutto l’alto Clero della Metropolitana, i Cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, i Cavalieri della SS. Annunziata, i Canonici, i Diaconi, i Mazzieri, i Caudatari, i Sindaci, i Decurioni....
Ma la bela madamin della canzone?
Il baldacchino reale è deserto. La Corte s’è ritirata da poco per le ultime cerimonie di Palazzo e le udienze di congedo.
La bela madamin!... Voglio vederla....
Entro nella Reggia. Ohimè, non è facile nemmeno per un puro spirito invisibile e imponderabile, non è facile trovare una principessa nella sua vasta dimora. Seguo il grande atrio a sinistra, salgo, scendo, mi smarrisco, riesco nella Cappella del SS. Sudario, salgo lungo la grande scala di marmo nero alla sala degli Svizzeri, attraverso la sala degli Staffieri, la sala dei Paggi, la sala del Trono, la sala delle Udienze, la sala del Gran Consiglio. Dame e cavalieri — i più bei nomi della nobiltà Subalpina — quelli che oggi sopravvivono soltanto nelle tele delle pareti vengono, vanno, ridono, parlano, con le loro labbra di carne....
Ma la bela madamin?... dov’è? dov’è il delicato fantasma delle mie allucinazioni? attraverso la lunga Galleria Dal Danieli passo sotto i cieli favolosi del pittore secentesco, fra lo scintillìo cristallino degli immensi lampadari avanzo, apro una porta socchiusa. Odo una voce. La bela madamin. No. Non è lei. Allibisco.
In mezzo alla sala appoggiato al tavolo di lavoro con le braccia conserte sta S. M. il Re Vittorio Amedeo III, già vestito di gala, terribilmente rassomigliante al ritratto del Dogliotti, all’incisioni del Rinaudi, il profilo diritto non raddolcito dalla parrucca bianca, il collare dell’Annunziata, i nastri, le croci, le medaglie disposte in bell’ordine sulla corazza troppo corruscante di pacifico guerriero settecentesco, la porpora crociata di bianco del mantello Cesareo avvolta con una linea romana illanguidita un poco dalle grazie di Watteau. Sua Maestà rilegge una lettera; la carta pergamenata gli garrisce tra i pollici nervosi scossi dal tremito. E non ascolta il Conte Lamarmora che gli legge le modalità del viaggio ben previste in protocollo ufficiale da deporsi nel R. Archivio di Stato secondo che l’uso di Corte comanda; “.... da Vercelli a Milano, da Milano a Roveredo a Innspruk dove conteremo di giungere il sabato prossimo. Saranno nel corteggio della Duchessa Carolina il Marchese di Bianzè, suo primo Scudiere e Cavaliere d’onore, l’Uditore Borsetti, Segretario di Stato, la Marchesa di Cinzano, Dama d’onore, la Contessa di Salmour e la Marchesa di Verolengo, Dame di Palazzo.
— E souma inteis, e souma inteis, — interrompe il Sovrano con un gesto che ammutolisce e licenzia il Conte Lamarmora.
— Ca fasa chiel; ma dsôura a tut gnune masnôiade, gnun tapage an facia la pôpolassiûn....
Oh il mio dolce dialetto così vivo fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell’italiano (adoratissimo!), l’italiano estraneo alla mia intima sostanza di Subalpino appreso tardi con grande amore e con grande fatica come una lingua non mia, il mio dolce parlare torinese, l’unico nel quale penso e l’unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso ed il pianto, il mio dolce torinese sulle labbra d’un re di Savoia, quando il Piemonte era ancora una leggiadra provincia della Francia e l’Italia non era: quale, quale commozione che non so dire!
— E souma inteis, — conclude Sua Maestà senza alzare gli occhi dalla lettera.
E la lettera è del genero lontano, Antonio Clemente Duca di Sassonia, è dello sconosciuto signore che attende in terra barbarica la giovinetta soave. Dice: “.... il en coutera sans doute à la sensibilité de Madame la Princesse de s’éloigner de ses illustres parents et d’une famille qui doit lui être chère mais je mettrai tant d’attention à faire, diversion à ses soucis et a m’attirer sa confiance et son estime que je me flatte de lui adoucir l’amertume de cette separation....„
Ma la bela madamin?
Passo nel Gabinetto Cinese attraverso le sale di raso cilestre, cremisi, salice, fragola, canarino dell’appartamento della Regina, sosto nei corridoio persiano ad ascoltare i commenti di due Dame! “Un amore! un amore!„ Si parla di lei; è dunque vicina. Eccomi nel Gabinetto delle Miniature nella Galleria Pompeiana: un profumo acutissimo m’annuncia il penetrale del fiore riposto. E sulla soglia sosto abbagliato dinanzi alla più delicata interpretazione vivente che mai sia stata fatta de la toilette de la Mariée.
Maria Carolina Antonietta di Savoia Duchessa di Sassonia è in piedi tra le sue cameriere chine o ginocchioni intente all’opera delicata. La cognata che presiede da parigina esperta le ha tolto lo specchio di mano:
— Ti vedrai dopo, mignonne, quand la rêve sera achevée.
Maria Carolina è una visione abbagliante di neve e d’argento.
Bianco il ciuffo di penne che le adorna l’alta acconciatura incipriata, bianco il viso passato alla cerussa bianca, la veste di raso splendente dal guardinfante mostruoso, bianche le scarpette, le ghirlande, il cagnolino, il ventaglio. In tanto candore spicca il rosso delle labbra e delle gote, il nero degli occhi e dei sopraccigli. La cognata stessa Adelaide di Francia, nipote di Luigi XV, ha dipinto il volto della bimba diciottenne secondo che l’ultimo dettame di Parigi consiglia; le ha cancellato col cosmetico i delicati sopraccigli biondi e due altri ne ha disegnato a mezzo della fronte nerissimi, arcuati, imperiosi. Molto s’è discusso sull’acconciatura; il parrucchiere di Corte De Regault voleva riprodurre con gl’immensi capelli biondi il Palazzo Madama o la galera capitana degli Stati Sardi; ma la Regina, la Principessa, si sono opposte e l’artista ha costrutto con la chioma densa un edificio a tre piani coronato da un nido dove una colomba cova teneramente assistita dalla compagna.
— Ravissante! Ravissante! — mormora la cognata che le sta alle spalle puntandole di sua mano un fiore o una piega del guardinfante.
Ma ad un tratto vede le gracili spalle adolescenti scosse da un sussulto, si china, guarda: il volto dipinto con tanta cura è inondato di pianto.
— Ah mon Dieu, tu va te ravager! ma per carità! Vieni, vieni a vederti e non piangerai più.
Prende la sposa per mano, la conduce dinanzi al grande specchio ovale della parete. Le lacrime s’arrestano d’improvviso. La bimba che ieri ancora giocava alle dame in visita, sbigottisce d’essere oggi una dama davvero e non pensava di vedersi così bella. Sorride tra gli ultimi singhiozzi, sorride a sè stessa, alla cognata, alle cameriere, cancella col batuffolo della polvere l’ultima traccia di lagrime.
— Sua Maestà la Regina! — annunzia un servo.
Camerieri, parrucchieri, servi balzano in piedi, rigidi, addossati alle pareti.
La madre sosta sulla soglia, sorride, tende le braccia alla figlia, l’abbraccia, la bacia, ma con delicatezza trepidante, come si odora un fiore troppo fragile.
— Un rêve, vraiment un rêve!
Oh, l’interminabile fila di berline, le berline di Casa Reale simili ad altissimi triangoli capovolti, sculpite, dorate, sovraccariche di tutta la mitologia e di tutto il simbolismo pazzesco del barocco; così goffe ed aggraziate, così snelle e tozze ad un tempo! Berline a quattro, a sei, a dieci cavalli gualdrappati, frangiati, impennacchiati, con non altro di libero che le zampe e la coda prolissa, cocchieri e staffieri a codino rigidi come automi tolti da un armadio centenario!... Il corteo fantastico si svolge interminabile come in una fiaba dei Perrault, ma non reca il marchese di Carabattole, non il gatto dagli stivali, non Cenerentola fatta regina, ma tutte le belle dame della nobiltà subalpina, la Marchesa di San Damiano, la Marchesa d’Ormea, la Contessa Morozza, la Contessa Della Rocca, la Marchesa di San Germano, la Marchesa di Cinzano, la Contessa di Salmour, la Marchesa di Verolengo.... E fra tutte, bellissima, come la Principessa della favola, come la Figlia del Re, leggendaria, è la sposa tutta bianca, tutta d’argento....
— La bela Carolin!
La folla che stipa Piazza Castello, i portici, i colonnati, che brulica sugli alberi, sulle ringhiere, sui tetti, acclama la sposa con un fremito che parte dal cuore. Il popolo ama quell’ultimagenita del Re, l’ama come una delicata bimbetta sua, la bela Carolin è popolare ovunque, dai parchi della Veneria ai parchi del Valentino, dai bastioni della Cittadella ai bastioni della Dora, dove non sdegna di interrompere i suoi giochi per rivolgere la parola a un giardiniere che pota, a una lavandaia che piange.
— Madama Carolin! la bela Carolin!
Mai il popolo ha sentito così forte la sua tenerezza commossa come in quest’ora dell’ultimo addio. Il bel fiore sabaudo sta per essere côlto da altre mani per un giardino d’oltr’Alpe.
Il lungo corteo d’equipaggi passa da via Dora Grossa a Porta Segusina, da Porta Segusina ai bastioni della Cittadella, sono quivi schierate tutte le truppe; spiccano i Granatieri e i Guastatori dalla veste di scarlatto guarnita d’argento, con cappello frangiato e banda intarsiata pure d’argento e d’azzurro, spicca la Compagnia Colonnella con le Corporazioni dei Mercanti e dei Droghieri a divise vivacissime. Lungo Via Santa Teresa e Piazza San Carlo, lungo Via Nuova, sono tutti gli altri Corpi della città: gli studenti della Regia Università col loro Sindaco, i Cavalieri dell’Ordine della SS. Annunziata e degli Ordini SS. Maurizio e Lazzaro. Tutti formano tra la folla varia un disegno, ordinato a colori vivacissimi dove il corteo passa come tra una doppia siepe di divise smaglianti. La sposa diciassettenne non ha mai visto tanto fasto nella sua vita breve e raccolta e pensa che tutta quella gioia di colori e di suoni è per lei e s’alza e batte le mani come ad un bel gioco. Dai bastioni della Cittadella ai bastioni di Po rombano i cannoni di salve, strepitano i mortai e i mortaretti, accompagna senza tregua con un rombo guerresco il clangore esultante di tutte le campane di tutte le chiese: la Metropolitana, Santa Teresa, la Consolata, i SS. Martiri Tebei, tutti i provincialeschi tempi torinesi.
Il corteo regale s’avanza. Dame, cavalieri gettano di continuo a piene mani le dragees nuziali, i grossi confetti settecenteschi detti giuraje. E la folla s’accalca, fluttua, acclama. La sposa protende le mani e mille mani si protendono affettuose in una stretta d’ultimo addio.
— La bela Carolin!
La Piazza San Carlo è convertita in una sala immensa, “sta una tavola ivi disposta la quale fa vedere un corpo di bacili di confetti canditi e di molte sorti di paste zuccherate e frutti molto lontani dalla stagione. I bacili suddetti, guarniti a piramidi nella sommità, dei quali vagamente pompeggiano stendardi con armi e cifre, il tutto regalato di fiori con una piramide sostenuta da quattro tori argentati carichi di confetture. Per finimento godono le Altezze Reali dell’apparato più con gli occhi che con la bocca e prendono gran piacere in vedere a dare il sacco di detta tavola e dare la scalata alla piramide fruttata e inzuccherata„.
La sposa giovinetta ride a quel gioco, ride fino alle lagrime della folla che corre, sale, rotola, schiamazza. La sposa ha tutto dimenticato e pensa che la vita prosegua così in un corteo dorato e infiorato tra una moltitudine gaia e plaudente. L’allegrezza dell’ora è per lei come quell’orlo di miele che si mette sul calice della medicina troppo amara....
Fuori di Porta Nuova la folla si estende fino al parco del Valentino e dinanzi al Castello, “passatempo delle Dame„, il corteo si ferma ancora una volta per un altro rinfresco e per ricevere il complimento del poeta Pancrazio Da Bra, arcade di bella fama nell’Accademia degli Incolti. S’avanza costui in sembianza del fiume Po, seminudo, con manto di drappo d’oro e capelli a guisa d’alga ed è seguìto dalla Dora fanciulla vestita a guisa di ninfa con le chiome sparse e incominciano un dialogo in versi dove il Po dimostra alla Dora sconsolata per la dipartita della Principessa la necessità che lo splendore della Casa Sabauda s’estenda oltre ogni confine....
La bela Carolin s’annoia mortalmente alle interminabili ottave accademiche, sbadiglia, s’abbuia, guarda altrove, s’alza impaziente invano trattenuta dalla madre e dalla cognata. E l’amarezza del distacco, la realtà dell’ora triste la riprendono ancora e le stringono al cuore distratto per poco.... Il suo volto si vela d’angoscia quando il corteo riesce alla Porta di Po. Là sotto le arcate imbandierate e infiorate attendono le quattro berline di viaggio sulle quali bisogna salire fra pochi secondi: non più graziose berline dorate ma grandi carrozze fosche e disadorne.
Il corteo s’arresta presso la porta. Bisogna scendere con la Marchesa di Cinzano, con la Contessa di Salmour, con il Marchese di Bianzè, bisogna passare con i compagni di viaggio nei tristi veicoli non più di gala. Un tappeto infiorato segna il breve percorso....
Ma la bela Carolin che tormenta da mezz’ora la mano della Regina, s’è ora afferrata al braccio di lei e quando il Conte Lamarmora apre lo sportello e l’invita a scendere, la piccola si getta al collo della madre, disperata, folle. Il fratello è costretto a sciogliere le braccia di lei a forza come si spezza una catena; a forza la fanno scendere, le fanno attraversare il breve spazio giuncato di fiori, reggendola alle spalle, costringendola al passo, portandola quasi di peso nella carrozza da viaggio. E là dentro la bimba si vede perduta.
— Maman! maman! — grida protendendosi dagli sportelli mentre le quattro carrozze s’aprono il varco tra la folla. — Maman! maman!
Ohimè, la madre, gli amici restano indietro, ritornano nelle berline dorate verso la Reggia, ch’ella ha dovuto lasciare per sempre. Allora la piccola è presa dal panico folle come chi è trascinato alla morte. Ha di fronte la severa Marchesa di Salmour, l’arcigno Ambasciatore di Sassonia. Si vede sola, perduta, si protende forsennata verso la folla invocando soccorso.
— Maman! maman!
E nella folla l’hanno udita le madri: molte donne s’accalcano tra le ruote, impediscono quasi alle carrozze di procedere, stringono le piccole bianche mani convulse.
— Povra masnà!
— Che Dio at giuta!
— Fate corâge!
— Arvedse ancoura!
— Arvedse prest!
Ma i cocchieri sferzano i cavalli; il convoglio s’affretta, fende la folla, procede di corsa, è sul ponte, è oltre il fiume, dispare....
Il Duca di Sassonia fu ottimo sposo per la bela Carolin.
Il 17 marzo scriveva alla Regina ringraziandola del dato consenso e della conseguita felicità. “Aussi tous mes désirs ne tendront-ils qu’a me rendre digne de bontés d’une princesse qui réunit aux charmes la plus aimable figure toutes les vertus de ses auguste parents.„
Il 28 dicembre 1782 la bela Carolin moriva in Dresda, un anno dopo le nozze e a diciannove anni non ancora compiuti.