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L'amante di sè medesimo/Atto V

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Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA

Camera.

Il Conte ed il signor Alberto.

Alberto. Amigo, v’ho da dar una nova bellissima.

Conte. Anch’io ne ho qualcheduna.
Alberto.   Ma la mia xe freschissima.
Gh’è la marchesa Ippolita, che proprio la se impizza.
Conte. Arde per me di sdegno?
Alberto.   Oibò; la xe novizza.
Conte. Sposa di chi?
Alberto.   M’impegno, no indivinè in t’un mese.
La sarà quanto prima muggier de sior Marchese.
Conte. Del marchese Fernando?
Alberto.   De lu; negozio fatto.

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Conte. Vi sarà stato in prima fra lor qualche contratto.

Alberto. Cussì digo anca mi, qua no ghe xe risposta.
Conte. E il marchese Fernando sarà venuto apposta,
Col pretesto del feudo e dei ministri suoi.
Ecco, signor Alberto, quel che san far gli eroi.
Egli pur per amore, oppur per interesse,
Mostrò le istesse brame, le debolezze istesse.
Ora più non mi dica, che sconsigliato io fui,
Ch’alfin son di qualch’anno più giovane di lui.
Ancor mi stan sul core quei rimproveri amari;
Seco farò lo stesso; voglio che siam del pari.
Alberto. Ma quel boccon de dota intanto el porta via.
Conte. Eh, la marchesa Ippolita, se volevo, era mia.
Al mondo barba d’uomo non ci sarebbe stato
Che me l’avesse tolta, s’io ci avessi aspirato,
Nè il marchese Fernando, nè cento altri suoi pari;
Ma io? eh, che non vado in traccia di denari.
Non me n’importa, no, non me n’importa un fico;
Son della pace mia, son del mio genio amico.
Ma vo’ al signor Marchese la nuova sia recata,
Ch’ei sposa la Marchesa, perch’io non l’ho curata.
Alberto. Che bisogno ghe xe de far pettegolezzi?
Conte. So che questi signori sono a sprezzare avvezzi;
Credono di esser soli in merto, in grandezza,
E sian lor tributari l’amore e la bellezza.
Però franco vi parlo; se avessi a esser marito,
Val più della Marchesa donna Bianca in un dito.
Alberto. Fin qua gh’avè rason: ricchezza, nobiltà,
Spirito... cosse belle. Ma stimo la bontà.
Dove voleu trovar, caro el mio caro amigo,
Una putta più bona? Sentì quel che ve digo,
E d’un che ve vol ben, da amigo e servitor,
Pesè ben ste parole, e lighevele al cuor.
Vu sè un che se stesso conosse, e se carezza.
Lasse che ve lo diga, ve amè con tenerezza;

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Ma da sto amor medesimo avè da tor conseggio,

Per far, per procurar, quel che per vu xe meggio.
Finchè vivè cussì da maridar, saltando
Come de palo in frasca, in ogni mar pescando.
Per furbo, per accorto che siè, vegnirà el zorno,
Che amor ve cazzerà qualche malanno intorno.
E ghe n’avè l’esempio de quel che mi ve digo:
Quel della commissaria xelo stà un bell’intrigo?
Sè solo, sè in ti anni; chi tardi tol muggier,
Consolazion dai fioi xe difficile aver.
Donca da ste premesse cavae dalla mia testa,
V’avè da maridar, la conseguenza è questa.
Conte. Dite bene; ma quando facessi un passo tale,
Lo farei per accrescere l’amor che in me prevale.
Per aver la mia pace, l’unico ben ch’io chieggio.
Alberto. Tolè, sè fortunà; podeu cercar de meggio?
Donna Bianca è una putta dolce, bella, amorosa.
Sincera, de buon cuor.
Conte.   Ma è un po’ troppo gelosa.
Alberto. El mal xe remediabile, caro amigo e paron.
Voleu che no la dubita? No ghe ne dè occasion.
Conte. Può dubitar per nulla.
Alberto.   Mettè le man al petto.
Gh’aveu dà fin adesso motivi de sospetto?
Conte. Per dire il ver, ho avuto poca attenzione in questo.
Alberto. Bravo: cussì se parla. Sè un cavalier onesto.
La verità par bon in ogni tempo e logo.
Donca xe compatibile de donna Bianca un sfogo.
Conte. Lo sarà, ma m’incomoda.
Alberto.   Oh, questa la xe vaga!
Voler la botta piena, e la serva imbriaga.
Fè da omo una volta; pensè, che sta damina
El ciel per vu l’ha fatta, el ciel ve la destina.
Conte. Ora è sdegnata meco, nè so come acchetarla.
Alberto. Eh, che con do parole fe presto a comodarla.

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Conte. E poi, quando credessi la fosse al caso mio....

Converrebbe di questo discorrere allo zio.
Alberto. Vedeu? Per st’altra parte togo l’impegno mi;
E son squasi seguro, che el ne dirà de sì.
Conte. Per qual ragion dovrebbe rispondere di no?
Don Mauro sa chi sono. Sa l’entrate ch’io ho.
Sa le mie parentele; e un uom che non è cieco,
Ha da desiderarlo d’imparentarsi meco.
Alberto. Tutto quel che ave dito, xe pura verità;
E so che sti riflessi no i fe per vanità.
Co l’amigo se pol parlar con confidenza.
Ah? che parla a don Mauro, Conte, me deu licenza?
Conte. Pensiamoci un po’ meglio.
Alberto.   Per mi gh’ho ben pensà.
Questo xe el vostro caso... Don Mauro eccolo qua.
Conte. Andiamo.
Alberto.   No, parlemoghe.
Conte.   Ma voi mi tormentate.
Alberto. Parlerò mi per vu.
Conte.   Bene, da voi parlate.
Alberto. Ma vardè ben, compare, no me mettè in intrigo.
Conte. Son cavalier d’onore. (incamminandosi, poi parte)
Alberto.   E mi ve son amigo.

SCENA II.

Il signor Alberto e don Mauro.

Mauro. Oh signor Veneziano...

Alberto.   Patron; v’ho da parlar.
Diseme, vostra nezza la voleu maridar?
Mauro. Nezza? Chi è questa nezza?
Alberto.   Vôi dir vostra nipote.
Parlo col mio linguaggio.
Mauro.   Nezza vuol dir nipote?

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Oh, quanto che me piace il parlar veneziano!

Alberto. Anca mi, co bisogna so favellar toscano.
Ma el stil del mio paese el me par bello e bon;
El piase, el se capisse da tutte le nazion.
E benchè abbia viazà, mai m’ho volesto usar
Della mia cara patria la lengua a bastardar.
Mauro. Perchè poi.... sì signore... può dirsi... allo sproposito.
Alberto. Lassemo andar ste cosse, e tornemo a proposito.
La voleu maridar sta putta?
Mauro.   Perchè no?
Alberto. Cossa ghe deu de dota?
Mauro.   Di dote... Vi dirò...
Averà... sì signore.. Sua madre ha avuto in dote...
Suo padre le ha lasciato... alfine è mia nipote...
Averà... per esempio... in tutto... sì signore...
Quindici... venti... in circa... e forse anche maggiore.
Alberto. Quindese o venti cossa?
Mauro.   Scudi romani.
Alberto.   Sior?
Venti scudi? burlemio, o se femio l’amor?
Mauro. Eh, migliara m’intendo.
Alberto.   Oh, adesso v’ho capio.
Arriveressi ai trenta, se ’l fusse un buon partio?
Mauro. Perchè no?
Alberto.   Quel partio, che ve offerisso mi,
El xe el Conte dell’Isola. Ve piase?
Mauro.   Oh, signor sì.
Ci aveva... sì signore... quasi, quasi pensato.
Alberto. El xe per dir el vero un cavalier garbato.
Nobile, generoso, ricco, pien de virtù.
Seu contento?
Mauro.   Sì, ho detto... Io non ci penso più.
Alberto. Se pol far el contratto?
Mauro.   Oh, sì signor... fra noi.
Alberto. Chi gh’el dirà alla putta?

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Mauro.   Se volete.... anche voi...

Io dirò... se bisogna... parlando... sì signore...
Alberto. Se me de permission...
Mauro.   To to! mi fate onore.
Alberto. Vago a dirglielo al Conte.
Mauro.   Ci ho tutto il genio mio.
Ehi... dopo... sì signore... Eh! mi marito anch’io.
Alberto. Bravo! gran noviziadi gh’avemo in sto paese.
Don Mauro, donna Bianca, el Conte, la Marchese.
Evviva el matrimonio. Staremo allegramente. (parte)

SCENA III.

don Mauro, poi la Marchesa Ippolita.

Mauro. Che san della Marchesa?... io non dissi niente.

L’averà detto lei... Oh, eccola che viene.
Da questo... sì signore... vedo che mi vuol bene.
Marchesa. (Le mie risoluzioni non so se gli sien note). (da sè)
Mauro. Marchesa, lo sapete? Marito la nipote.
Marchesa, Col Conte?
Mauro.   Sì signora.
Marchesa.   (Un po’ meno imprudente,
Potea pur esser mio, ancor l’ho nella mente), (da sè)
Mauro. E voi... quando volete... risolvere una volta...
Sì signore... di farlo?
Marchesa.   Alfin mi son risolta.
Mauro. Ehi! me l’han detto. Brava... (ridente)
Marchesa.   Siete contento?
Mauro.   Sì.
Pativo... sì signore... a vedervi così.
Marchesa. Ecco dunque abbracciato il vostro buon consiglio.
Mauro. Non passa neanche un anno... che voi avete un figlio.
Ehi! chi è di là?

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SCENA IV.

Frugnolo lacchè, e detti.

Frugnolo.   Comandi.

Mauro.   Al signor commissario
Dirai, che favorisca venir... coll’attuario...
Per far certi contratti...
Frugnolo.   Sappia vossignoria,
Che il signor commissario è già scappato via.
Mauro. Toh! perchè?
Frugnolo.   Disperando d’esser rimesso in grazia.
Si vedea sulle spalle qualche peggior disgrazia.
Prese quel che ha potuto, gli argenti ed i quattrini,
Ed è fuggito via col signor de’ Martini.
Ma essendo il commissario uom puntuale e degno,
Lasciò per i suoi debiti la commissaria in pegno.
Marchesa. Non perirà, meschina, avrà il suo protettore.
Il contino dell’Isola è un uomo di buon cuore.
Mauro. Eh... che venga il notaro... gli detterò l’estesa.
S’han da far... sì signore... ah? non è ver, Marchesa?
Marchesa. Per me ci ho qualche dubbio; ma si vedrà fra poco.
Mauro. Dubbi! dubbi! che dubbi? Oh, oh, guardate un poco.
Che si chiami il notaro; sì signor, venga presto.
(a Frugnolo; e Frugnolo parte)
Oh che dubbi! che dubbi! dubbi, Marchesa? io resto.
Eh, non avrete dubbi... Vado, Marchesa, e torno.
Ho da far cento cose... e tutte in questo giorno.
La la... come si chiama? la... la nipote anch’ella...
Non voglio perder tempo... (Oh, che tu sei pur bella).
(da sè, e parte)

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SCENA V.

La Marchesa sola.

È molto, che s’accomodi così placidamente.

Convien dir che di donne non gl’importi niente.
Credea con questa nuova dargli un disgusto amaro;
Ma quando a lui non preme, in verità l’ho caro.
Ma! mi vo immaginando le nozze assai vicine,
E ancor di questa cosa non è sicuro il fine.
Quando si vide mai, che un simile contratto
Fosse con due parole subito detto e fatto?
Io credo che il Marchese sia venuto per questo;
Peraltro era impossibile concludere sì presto.
Ma come si è introdotto? Che cavalier garbato!
Si può parlar di peggio di quel che mi ha parlato?
Parmi ancora impossibile, col mio temperamento,
Di aver sofferto il filo del suo ragionamento.
Eppur ci sono stata; e a forza d’insultarmi,
Bel bello mi ha condotto dove volea guidarmi.
Alfine è un gran partito. Non vi è eccezione alcuna;
Per me sposarmi a lui non è poca fortuna.
Basta che non m’inganni anch’egli, il malandrino:
Vi è poco da fidarsi del sesso mascolino.
Noi siam le capricciose, parlar chi sente gli uomini;
Specchiatevi nel Conte, signori galant’uomini;
Oh, quanti ce ne sono, in cento e cento bande,
Amanti come lui del lor merito grande!
(con caricatura, e parte)

SCENA VI.

Sala con tavolino e sedie.

Donna Bianca, poi il Conte.

Bianca. Che vuol da me l’ingrato, che mi circonda e tace?

È meglio che mi lasci, e che sen rieda in pace.
S’accosta, e poi tremante al guardo mio s’asconde:

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Segno è che la coscienza lo morde e lo confonde.

Ma se pentito ei fosse dei tradimenti sui?
Sarei, s’io resistessi, più barbara di lui.
Ah, fui seco altre volte la prima a umiliarmi,
E dalla mia viltade apprese a disprezzarmi.
Non vo’ guardarlo in faccia, pianger vo’ a suo dispetto;
Chi non ha convenienza, non merita rispetto.
Conte. (Chi mai mi avesse detto, che avessi a sentir pene?
Ma! convien molto spendere, per comperare un bene).
(da sè)
Donna Bianca. (Non sente, o non sentir s’infinge.
M’accosterò. Buon segno; di bel rossor si tinge).
Via, donna Bianca amabile, via, serenate il ciglio.
Delle mie colpe andate il pentimento è figlio.
Se recovi un trionfo nel domandar perdono.
Per voi le colpe istesse più orribili non sono.
Finor nel mar d’amore fui un corsaro audace,
Che depredando andava gioie, diletti e pace;
Ma se ogni bene unito in quel bel cuore attendo,
D’altro desio mi spoglio, e da voi sol l’attendo.
Bianca. Conte, voi vi scordaste, nel mendicar piaceri,
Che d’un bel cuor più degni son sempre i più sinceri.
L’arte non ho di fingere per allettar gli amanti,
Ma veritade ho in petto saldissima e costante.
Più di me colte e vaghe cento ne avrete, e cento;
Poche nel seno adorne di quell’ardor ch’io sento:
Puro, discreto ardore, pronto a soffrir per voi
Tutti d’amore i pesi, tutti i tormenti suoi.
Ecco l’unico peso, ch’io sofferir non vanto;
Veder l’amante ingrato, e non sfogare in pianto. (piange)
Conte. Lagrime portentose, che han la virtù possente
D’avvilirmi, di rendermi angustiato, dolente.
Eccomi a voi già reso; ecco per voi la gloria
L’aver1 coll’amor vostro sopra del mio vittoria.
n n

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Ma no, nell’adorarvi amo ancor più me stesso,

S’emmi ogni ben possibile nel vostro amor concesso.
Vi adorerò costante; sarete mia, son vostro;
Ecco negli occhi il pianto; ecco, che il cuor vi mostro.
Bianca. Deh per pietà, signore, deh per pietà, cessate.
Nel favellar sì tenero, ah che morir mi fate. (siede)
Conte. (Ah, non provai nel mondo gioia più grande ancora.
Son pur belle le lagrime d’un ciglio che innamora!)
Consolatemi, o cara, cessi quel dolor rio.
Finchè per me l’amico sposa vi chiede al zio.
Bianca. Come, signor? Mi chiede? (alzandosi un poco)
Conte.   Per me. Bianca vezzosa,
A chi di voi dispone, ora vi chiede in sposa.
Bianca. Oimè! (toma a sedere)
Conte.   Non è più tempo, che trafiggete il seno.
Bianca. Deh, in libertà lasciatemi di respirare almeno.
Conte. Sì, respirate, o cara; meno di voi nel petto
Non sentomi confuso fra il dolore e l’affetto, (si accosta)
Ah, mi pento, mi pento di quegli indegni ardori,
Che ad infestar mi vennero da mille e mille cuori.
Vorrei poter vantarmi d’aver nudrito in cuore
Un solo amore al mondo, ma di tutti il maggiore, (siede)
Quanto mai c’inganniamo!

SCENA VII.

Il signor Alberto e detti.

Alberto.   (Veli qua tutti do.

Xeli in collera, o in pase? Adesso el saverò). (da sè)
Patroni reveriti.
Conte.   Che nuove, amico mio?
Alberto. Le nove xe bonissime. Xe contento el sior zio.
Conte. Oh Alberto adoratissimo! (s’alza per abbracciarlo)
Bianca.   Oh amico senza pari!
(s’alza e s’avvicina ad Alberto)

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Alberto. Oh, la pase xe fatta!

Conte.   Tali amici son rari.
Alberto. Oe, ventimile scudi. (al Conte)
Conte.   Bastami tal consorte.
Alberto. Eh, anca questo, compare, è un articolo forte.
Conte. Vadasi da don Mauro.
Alberto.   L’ha da vegnir qua elo.
El xe tutto contento. El par giusto un puttelo;
E anca della Marchesa el mostra un gusto matto.
Bianca. È poi ver che si sposi?
Alberto.   S’ha da far el contratto.
No manca che el nodaro, daresto gh’è el bisogno.
Bianca. E per me?
Alberto.   Se gh’intende.
Bianca.   Ah, che mi par un sogno!

SCENA VIII.

Don Mauro, la Marchesa Ippolita, il Marchese Ferdinando,
un Notaro ed i suddetti.

Mauro. Sposi, sposi, siam qui. Gli sposi, che ora vengono...

Salutan, sì signore... quei che qui si trattengono.
Ah, sono anch’io brillante! Amor fa... sì signore.
Animo, due contratti stenda il signor... dottore.
Conte. Don Mauro, che col nome di zio chiamar m’è dato,
All’amor che mi muove, sempre il mio cuor fia grato.
Con giubbilo in isposa accetto la nipote.
Mauro. E ventimila scudi... sì signor, per la dote.
Bianca. Foste sempre, signore, padre per me amoroso,
E vi amerò qual figlia congiunta ad uno sposo:
Sposo che riconosco dal vostro amabil cuore.
Mauro. E ventimila scudi di dote... sì signore.
In faccia del notaro... in faccia ai testimoni
Si faccian... sì signore... i nostri matrimoni.
Via, scrivete.
(al notaro, il quale si mette a scrivere ad un tavolino indietro)

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Marchese.   Don Mauro, forse sarà creduto,

Che ad arte in casa vostra sia per amor venuto.
Ma non è ver, signore, lo giuro e lo protesto.
Nè dee, nè può mentire un cavaliere onesto.
Venni sol per punire due tristi scellerati;
Fuggir, ma saran presi, condotti e castigati.
Trovai qui la Marchesa, che in patria ho conosciuta.
Mesta, di duol ripiena, senza parlar seduta.
Pietà destommi in seno l’afflitta vedovella.
In età fresca ancora, nobile, ricca e bella.
Formo un discorso a caso, il dialogo s’avanza,
S’inoltran le parole, mi tenta una speranza.
Alfln, che più volete? S’accorda in sul momento,
Ella di ciò mi onora. Io son di ciò contento.
Mauro. E poi dicon ch’io parlo confuso... Sì signore.
Se ho inteso che dir voglia, mi venga il mal di core.
Presto, signor notaro, signor dottore, presto.
Notaro. Ho steso l’occorrente, in casa farò il resto.
Dian pur, quando comandano, la mano in mia presenza.
Mauro. Marchesa... sì signore... a voi la preferenza.
Marchesa. Per compimento accetto la grazia generosa:
Questi è lo sposo mio. (dà la mano al Marchese)
Marchese.   E questa è la mia sposa.
(dà la mano alla Marchesa)
Mauro. Toh... toh... che cosa è questa?... Scherzate, sì signore?
Non siete... voi... mia sposa? (alla Marchesa)
Marchesa.   Vostra? siete in errore.
Finora si è parlato di me con il Marchese.
Mauro. E il signor veneziano... che disse?... di che intese?
Alberto. Anca mi ho sempre inteso de quei che s’ha sposà.
Mauro. E voi? (al Conte)
Conte.   Anch’io di loro.
Mauro.   Oh bella in verità!
Marchese. Signor, resto sorpreso.
Mauro.   Anch’io son stupefatto.

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Marchesa. Ma voi vedete bene, che quel ch’è fatto, è fatto.

Mauro. Dieci anni ci ho pensato... credea giunta quell’ora.
Pazienza, si signore, non sarà tempo ancora.
Bianca. Signor, porgo la mano? (a don Mauro)
Mauro.   Oh, io non son più io.
Conte. È questa la mia sposa. (con risoluzione)
Bianca. Questi è lo sposo mio.
Conte. A voi tocca, signore, di stendere il contratto.
Notaro. So quel che far conviene.
Mauro.   Eh, quel ch’è fatto... è fatto.

SCENA ULTIMA.

Madama Graziosa e detti.

Madama. Ecco, signor Marchese, a domandar pietà

Una povera sposa, che sposo più non ha.
Mauro. Madama, siete vedova? (con un poco d’allegria)
Madama.   Ah no, ma si è sottratto
Colla fuga il marito.
Mauro.   Ah! quel ch’è fatto, è fatto.
Marchese. Avrò pietà di voi. (a Madama)
Madama.   So che avete un bel cuore.
(al Marchese)
Marchesa. Eh, che non vi è bisogno. Il Conte è il protettore.
Conte. Marchesa, il vostro labbro tende a rimproverarmi;
Non tocca a voi, signora, ma vo’ giustificarmi.
Sappia Madama, e sappialo chiunque mi vede e sente,
Che oggi cambiar intendo il cuor perfettamente.
E chi a calcar mi guida la via men perigliosa,
È un amico fedele, è un’amabile sposa.
Fui di me stesso amante, esserlo posso ancora.
Basta cambiare i mezzi, che seguitai finora.
Prevalga in me l’onore, sia l’onestà il mio nume;

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M’accenda e m’innamori d’un docile costume.

Odio m’ispiri in seno ogni vulgare eccesso;
Posso amar la virtude anche in amar me stesso.
Basta per accertarmi, che quel ch’io dico è vero,
Di chi mi ascolta il plauso vendico e sincero.

Fine della Commedia.

Note

  1. Così il testo. Probabilmente d’aver.