L'avvenire!?/Capitolo dodicesimo

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Capitolo dodicesimo

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Edward Bellamy - L'avvenire!? (1888)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1891)
Capitolo dodicesimo
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CAPITOLO DODICESIMO




Le domande che volevo fare, prima di conoscere appena superficialmente tutte le istituzioni del nuovo secolo, erano infinite, e, siccome il dottor Leete sembrava disposto ad ascoltarmi, dopo che le signore ci ebbero lasciati, restammo ancora alcune ore discorrendo.

Ricordai al mio ospite il punto in cui avevamo interrotto il discorso, ed espressi il desiderio di sapere come l’organizzazione dell’armata industriale potesse dare una spinta sufficiente all’applicazione, dal momento che l’operaio non ha la necessità di pensare al proprio mantenimento.

«Dovete sapere» rispose il dottore «che l’incitazione allo zelo è uno degli scopi ai quali aspiriamo nell’organizzazione dell’armata; l’altro, d’uguale importanza, è di assicurarci dei direttori e capi dell’armata e degli alti ufficiali della nazione, tutti uomini di sperimentata capacità, ai quali, la loro stessa carriera impone di spingere i loro successori a raggiungere la perfezione nel lavoro, non trascurando nulla che sia imperfetto.

In considerazione a questi due scopi, tutti i membri dell’armata sono divisi in quattro classi generali: — Prima, gli operai comuni, i quali fanno ogni genere di lavoro, specialmente i più grossolani, e a questa appartengono le reclute nei primi tre anni; seconda, gli apprendisti che sarebbero quelli che durante [p. 67 modifica]il primo anno che segue le prime classi, imparano gli elementi della loro vocazione; terza, i più forti fra gli operai composta degli uomini dai venticinque ai quarantacinque anni; quarta, gli ufficiali che sorvegliano gli operai, dalle minori alle più alte cariche, e queste quattro classi sono tutte sottoposte ad una differente forma di disciplina.

Gli operai non ordinati in classi i quali fanno ogni genere di lavoro, non possono essere classificati severamente come in seguito. Si ammette che siano in una specie di scuola, dove si appropriano delle virtù industriali, e si tien conto su di un libro, di tutti quelli che si distinguono, dimodochè questi ultimi nella futura carriera, possono calcolare sulle promozioni, come ai nostri tempi, s’era promossi di grado. A ciò fa seguito l’anno di noviziato. Nel primo trimestre l’operaio impara le cose fondamentali del suo mestiere, nei nove mesi successivi viene osservato, per poter decidere a quale rango di operai apparterrà, quando sia diventato abile lavoratore. Vi farà specie che l’espressione venga applicata a tutti i mestieri; ma ciò succede in riguardo all’uniformità del sistema, ed ha praticamente lo stesso senso, come se l’espressione cambiasse a seconda della difficoltà del lavoro; poichè per i mestieri che non si finisce d’imparare in un anno, l’apprendista passa nel grado inferiore degli operai abili e lavora progredendo man mano finchè s’è fatto abile anch’esso. Gli operai abili vengono divisi in tre gradi secondo la loro attitudine, e ogni grado in una prima e seconda classe; cosicchè vi sono in tutto sei classi, fra le quali vengono suddivisi gli uomini a seconda della loro capacità.

Per facilitare l’esame onde conoscere l’abilità, ogni lavoro industriale, anche se difficile, viene diviso in parti, e se poi ciò è assolutamente impossibile, si cerca di supplire il meglio possibile alla determinazione della capacità.

Gli uomini vengono ogni anno nuovamente divisi in gradi, dimodochè il merito non rimane a lungo senza ricompensa; da questa divisione annuale risulta che ad ogni uomo viene assegnato il suo rango nell’armata e questo pubblicamente proclamato.

[p. 68 modifica]Un grande stimolo per l’innalzamento di ogni uomo, è quello di vedere i più alti posti occupati da coloro che si sono maggiormente distinti nella loro carriera. Prescindendo da questo stimolo, ve ne sono altri dipendenti da privilegi e libertà, riguardanti la disciplina e conceduti alle classi inferiori, in virtù dei quali ognuno cerca di raggiungere il primo posto superiore al suo. Il notevole si è che non solo i buoni operai, ma anche i cattivi e gl’indifferenti dovrebbero pretendere di esser promossi e siccome questi ultimi sono assai più numerosi, è importante il notare, che il detto sistema mira meno a scoraggiare questi che ad incitar gli altri. A tale scopo i gradi son divisi in classi. Siccome le classi hanno un numero uguale di membri, l’ultima classe non conta più di un ottavo dell’esercito intero: tutti novizi desiderosi di progredire. Allo scopo poi di incoraggiare coloro che non sono molto intelligenti, a fare il meglio possibile, colui che avesse già raggiunto un grado elevato, ma che, per qualsiasi ragione, fosse tornato indietro, non perde il frutto dei suoi sforzi: ma conserva il suo rango primitivo quasi fosse una patente.

Ne consegue che coloro che non ottengono nessun premio e che, per tutto il tempo che dura il servizio, rimangono nelle classi inferiori, costituiscono lo scarto dell’esercito industriale e sono altrettanto incapaci di comprendere la loro posizione, quanto di migliorarla. Non è necessario che l’operaio sia promosso ad un grado più avanzato, perchè egli concepisca la gloria. Mentre la promozione richiede l’eccellenza generale dell’operaio, per i servizi semplici, che non meritano ancora la promozione, vien conferita la lode pubblica od altre distinzioni: lo stesso si fa per i lavori isolati nei vari rami industriali. Si suppone che non vi sia merito che possa fare a meno di un giusto apprezzamento.

Per quanto concerne la negligenza, la cattiva esecuzione del lavoro od altri errori commessi da uomini incapaci di buoni sentimenti, la disciplina è troppo severa perchè ciò possa accadere spesso. Un uomo che, capace di adempiere il proprio dovere, rifiutasse di farlo, sarebbe respinto dalla società.

Il più infimo grado degli ufficiali dell’esercito, quello degli [p. 69 modifica]operai aiutanti o luogotenenti, è formato da uomini che sono stati per due anni nella classe superiore del più alto grado. Se ciò lasciasse un campo troppo vasto per la scelta, sarebbe eleggibile soltanto il primo gruppo di quella classe; a questo modo prima di trent’anni non si giunge al comando. Quando uno è ufficiale non lo si apprezza più a seconda del proprio lavoro; ma a seconda di quello dei suoi subordinati. Gli apparecchiatori sono scelti, con le stesse precauzioni, fra gli operai aiutanti di una piccola classe eleggibile. Per assegnare poi i gradi maggiori, si segue un’altro sistema, la cui spiegazione richiederebbe ora troppo tempo.

L’impiegare un sistema simile, ai vostri tempi, sarebbe stato poco pratico, giacchè nella maggior parte dei vostri negozi gli operai non erano numerosi, sicchè uno solo avrebbe costituito una classe. Sapete che coll’organizzazione nazionale tutte le industrie lavorano in massa, dimodochè cento delle vostre officine ne formano ora una sola. L’ispettore generale da noi potrebbe paragonarsi ad un capitano e persino ad un generale dei vostri eserciti.

Ed ora, signor West, dopo lo schizzo da me tracciatovi, vi lascio giudicare se coloro che fanno meglio che possono, mancano, con noi, di eccitamento».

Risposi che, se mi era permesso di esternare tutto il mio pensiero, mi pareva che quei mezzi di incitamento fossero troppo violenti; che la via indicata ai giovani fosse troppo rapida ed aggiunsi, con modestia, che credevo che tale sarebbe stata la mia idea anche dopo aver vissuto più a lungo nel nuovo secolo, ed esser divenuto pratico di ogni cosa.

Il dottor Leete allora mi fece riflettere che il mantenimento degli operai non dipendeva affatto dal loro rango, e che quindi quel pensiero non valeva a turbarli ed a render più crudo il disinganno; che le ore di lavoro non eran molte, le vacanze regolari e che ogni gara cessava a 45 anni, la media della vita umana.

«Devo accennare ancora due o tre punti» aggiunse «per togliervi ogni cattiva impressione. Prima di tutto questo [p. 70 modifica]sistema dell’essere il miglior operaio preferito al meno buono, non contraddice affatto il principio del nostro sistema sociale, secondo il quale tutti coloro che fanno il loro meglio sono ugualmente degni, il meglio sia esso grande o piccolo. Vi ho già fatto vedere che questo sistema offre, tanto al forte quanto al debole, la speranza di innalzarsi; e la circostanza che i forti son scelti a dirigere, non deve nuocere ai deboli, ma è soltanto a vantaggio dello stato.

Non crediate nemmeno che, perchè la gara è data come incitamento, noi la consideriamo come un motivo al quale debba rimettersi un buon operaio. Esso trova i motivi in sè e non fuori di sè e misura il proprio dovere a seconda delle proprie capacità e non a seconda di quelle degli altri. Fin tanto che le sue forze gli consentono di lavorare, egli considererebbe cosa assurda l’aspettarsi lode o biasimo perchè, per caso, quel lavoro è maggiore o minore. A quelle nature la gara appare, filosoficamente, pazzia e moralmente, cosa spregevole.

Non tutti gli uomini però, anche nel secolo XX la pensano così altamente, e per questi son necessari i mezzi d’incitamento. Per essi la gara è sprone costante: quelli che han bisogno di questo motivo lo sentono, e quelli che sono superiori alla sua influenza non ne hanno bisogno.

Devo aggiungere, » proseguì il dottore, «che abbiamo gradini speciali per coloro che mancano di forza mentale o fisica. Essi formano una specie di corpo d’invalidi, i membri del quale hanno un compito più facile, adeguato alle loro forze. Tutti i nostri ammalati, sordo-muti, rattratti, ciechi e zoppi, appartengono a questo corpo e ne portano i contrassegni. I più deboli no: ma nessuno di coloro che possono fare qualche cosa rinuncierebbe al lavoro».

«Questa del corpo degli invalidi è una buona idea,» dissi, «ed anche un barbaro del secolo XIX può riconoscerlo. È una bella maniera di mascherare la compassione e deve procurarvi molta riconoscenza».

«Compassione!» esclamò il dottor Leete. «Credete voi che noi consideriamo gl’inabili come degni di compassione?»

[p. 71 modifica]«Ma, naturalmente» soggiunsi «poichè essi sono incapaci di mantenersi». Qui il dottore m’interruppe:

«Chi mai è capace di mantenersi?» chiese. «In una società civilizzata non v’è mantenimento proprio. In una società barbara in cui non esiste l’associazione, è probabile che ogni individuo possa mantenersi da sè, ma anche allora non potrà farlo per sempre; non appena gli uomini si riuniscono in società, una dipendenza reciproca diviene la regola generale. Ogni uomo, per quanto isolato, diviene membro di un’immensa confederazione che è grande quanto una nazione, quanto l’umanità intiera. La necessità di una dipendenza reciproca, dovrebbe comprendere il dovere e la sicurezza di un’esistenza reciproca. Ciò non accadeva ai tempi vostri, e ne derivava la crudeltà e l’insensatezza del vostro sistema».

«Può esser vero,» soggiunsi «ma ciò non concerne coloro che sono incapaci di concorrere alla produzione dell’industria».

«Certamente; credevo di avervi detto questa mattina» replicò il dottor Leete «che il diritto che ha un uomo, di sedere alla tavola della nazione, dipende dall’essere egli un uomo e non dal suo grado di forza, fintanto che egli fa quanto può».

«Mi avete detto tutto ciò,» risposi, «ma credevo che una tal regola non fosse applicabile che agli operai. Si riferisce essa anche a quelli che non possono lavorare?»

«Non sono essi anche uomini?»

«Allora i rattratti, i ciechi, gli ammalati, e gl’inabili percepiscono la stessa rendita che gli altri?»

«Naturalmente» fu la risposta.

«Circa una beneficenza sotto tali rapporti» dissi «i nostri filantropi esaltati avrebbero spalancato occhi e bocca».

«Se voi aveste un fratello malato in casa» soggiunse il dottor Leete «incapace al lavoro, gli dareste cibi meno buoni, alloggio e abiti meno belli dei vostri? Probabilmente gli dareste ciò che è migliore, senza parlare di beneficenza. L’usare questa parola in un caso simile, non desterebbe la vostra indignazione?»

«Certamente,» risposi «ma i casi non sono gli stessi. In un [p. 72 modifica]certo senso tutti gli uomini sono fratelli, ma questa fratellanza non è da paragonarsi coi sentimenti della fratellanza di sangue».

«Qui parla in voi il secolo XIX» esclamò il dottor Leete. «Oh signor West, non c’è più alcun dubbio sul lungo tempo che avete dormito. Se dovessi con una parola darvi la chiave dei segreti della nostra civilizzazione, paragonata a quella dei vostri tempi, vi direi che la solidarietà del genere umano e della umana fratellanza, che allora erano soltanto belle frasi, sono, secondo il nostro sentire, legami veri e forti quanto quelli del sangue.

Non posso comprendere la vostra sorpresa nel sapere che coloro che non possono lavorare hanno il diritto di vivere del guadagno di chi lavora. Anche a’ vostri tempi il servizio militare al quale corrisponde il nostro servizio industriale, era obbligatorio per chi lo poteva fare, non toglieva però agli inabili i diritti di cittadini. Questi rimanevano a casa ed erano protetti da chi si batteva e nessuno li teneva in minor conto degli altri. Così adesso, a chi non può lavorare, nessuno toglie i diritti del cittadino. L’operaio non è un cittadino perchè lavora; ma lavora perchè è un cittadino; e come voi riconoscevate dovere del forte il combattere per il debole, così noi che non facciamo più guerra, riconosciamo il dovere di lavorare per lui.

Uno scioglimento che non è completo, non è uno scioglimento e quello del problema della società umana non sarebbe stato completo, se avessimo trascurato gli storpi, i malati ed i ciechi; meglio lasciare senza cura i forti ed i sani, che quegli infelici, pei quali ogni cuore deve sentir pietà e pei cui bisogni fisici e morali è necessario pensare prima di tutto. Da ciò risulta, come vi dicevo stamane, che il diritto di ogni uomo, di ogni donna, di ogni fanciullo ai mezzi di sussistenza è basato sull’unione di tutti i membri dell’umano consorzio, formanti una sola famiglia umana. L’unica moneta corrente è l’immagine di Dio, e questa serve per tutto ciò che abbiamo.

Secondo le considerazioni moderne nessun tratto della vostra civilizzazione è tanto ripugnante, credo, quanto quello dell’abbandono delle classi dipendenti: anche non avendone compassione. [p. 73 modifica]com’era possibile di vedere che non provvedendo per esse, le privavate dei loro sacri diritti?»

«In ciò, non sono del vostro avviso», diss’io «Riconosco la pretesa di quegl’infelici alla nostra pietà; ma non il diritto di partecipare al nostro guadagno, dal momento che non facevano nulla».

«Ma come va dunque», disse il dottor Leete, «che i vostri operai facevano più di quanto avrebbero fatto magari dei selvaggi?

Non dipendeva ciò esclusivamente dal retaggio della antecedente scienza e delle opere del genere umano, dal meccanismo della società, allo sviluppo del quale, da noi trovato compiuto, erano occorsi migliaia d’anni?

Come giungeste a possedere questa scienza, questo meccanismo, all’acquisto del quale avevate concorso in proporzione dell’uno al nove? Voi lo avevate ereditato, non è vero? E non erano forse quegli altri, i fratelli infelici e difformi da voi respinti, i vostri coeredi? Che cosa avete fatto della loro parte? Non li derubaste voi, gettando loro le briciole del vostro pane, mentre avevano il diritto di sedere a tavola con gli eredi? e non aggiungevate l’offesa al furto, dando ad un tal procedere il nome di beneficenza?

«Oh sig. West» continuò il dottor Leete, vedendo ch’io non rispondeva, «tolta l’idea della giustizia e dei sentimenti a riguardo degli storpi e degli ammalati, non capisco come gli operai del tempo vostro avessero cuore a fare il proprio lavoro, sapendo che i loro figli ed i loro nipoti, qualora fossero stati colpiti da una disgrazia, sarebbero stati privati di ogni piacere della vita e perfino del necessario. Non giungo a comprendere come i padri di famiglia potessero favorire un sistema, il quale dava loro maggior compenso che non ai deboli di corpo e di mente; poichè la stessa differenza che offriva al padre un vantaggio, poteva spingere il figlio, per il quale egli avrebbe dato la propria vita, nella penuria e nella miseria, qualora fosse stato più debole degli altri. Non giungo a spiegarmi come gli uomini non tremassero all’idea di lasciar figli dopo di loro».