La Costa d'Avorio/29. Nella tana del leone

Da Wikisource.
29. Nella tana del leone

../28. Il ritorno di Gamani ../30. Le stragi della festa dei costumi IncludiIntestazione 21 febbraio 2018 75% Da definire

28. Il ritorno di Gamani 30. Le stragi della festa dei costumi


[p. 212 modifica]

Capitolo XXIX

Nella tana del leone


Abomey era la città più popolosa del Dahomey ed anche la più fortificata, essendo la sede dei monarchi e delle principali forze dello stato.

Un grande bastione di terra battuta, capace di far fronte a qualsiasi assalto di soldati negri, ma non di opporre una lunga resistenza ad una batteria di cannoni europei, la circondava. Alcune brecce, aperte sopra dei ponti gettati attraverso il fossato, servivano di porte.

La città nulla però aveva d’attraente. Era un ammasso di tuguri dalle pareti di terra e coi tetti di stoppia, divise in parecchi salam ossia quartieri, con vie strette, sudicie, puzzolenti, dove marcivano carogne d’animali ed anche gran numero di corpi umani dopo le feste delle grandi usanze o dei costumi.

La sola cosa notevole era la grande piazza del Mercato, un quadrilatero immenso in gran parte occupato dalla reggia formata da un palazzo di dimensioni enormi, la cui facciata misurava oltre seicento metri, tutto traforato da un numero immenso di finestre senza imposte e dall’aspetto minaccioso. Due vaste terrazze che servivano pei sacrifici umani, guardate da parecchi pezzi d’artiglieria, lo fiancheggiavano, mentre un alto e solido muro lo proteggeva ai lati e nella parte posteriore.

Due sole porte, difese da enormi battenti in legno ed in ferro e guardate giorno e notte da una compagnia di amazzoni, permettevano l’accesso.

Pure su quell’ampia piazza sorgeva il tempio dedicato ai serpenti e quello dei feticci, contenente questo un gran numero di divinità le une più barocche delle altre, mostri informi di terra [p. 213 modifica]cotta dorata, o di legno malamente scolpito, o di rame.

La sua popolazione, comprese le tremila amazzoni che formavano la guardia reale, ordinariamente non superava le ventimila anime, ma durante le feste delle grandi usanze si triplicava, accorrendo curiosi da tutte le vicine borgate, quantunque un non piccolo numero di quei poveri sudditi del barbaro re più non dovesse tornare alle natìe capanne.

Alfredo ed Antao a cavallo, fiancheggiati dai loro porta-ombrelli e preceduti dal gran moce, dai cabeceri e dalla scorta armata e seguìti dai loro uomini, attraversarono la capitale destando fra la popolazione la più viva curiosità e furono condotti in una grande capanna circolare, colle pareti di mattoni cotti al sole ed il tetto di foglie di palma, situata quasi di fronte al palazzo reale.

Per ordine del re vi erano state portate delle sedie, due brande, un tavolo, dei viveri, della legna, del vasellame e mandati quattro schiavi per servire i due ambasciatori.

Il gran moce osservò se nulla mancava, ordinò agli schiavi di tenersi agli ordini dei due grandi personaggi ospiti del re, minacciando di far loro troncare il capo alla più piccola disobbedienza, poi salutati Alfredo ed Antao, fece cenno di volersi ritirare per recarsi ad informare il suo potente signore.

Alfredo con un gesto lo trattenne, e da Urada gli fece chiedere quando gli ambasciatori del Borgu avrebbero potuto vedere il re.

— S. M. è troppo occupato per ora per trattare cose tanto importanti, — rispose il gran moce, — ma credo che si degnerà ricevere ben presto i saluti dei guerrieri del Borgu. Dopo le grandi feste dei costumi si potrà discutere il trattato d’alleanza.

— Sta bene, — rispose Alfredo. — I rappresentanti del Borgu attenderanno pazientemente le decisioni del potente monarca del Dahomey, intanto manderanno a lui regali dei principi borgani. —

Ciò detto mise nelle mani del gran moce e dei due cabeceri tre cofanetti di metallo lavorato, che aveva fatto estrarre dalle sue casse.

I tre dignitari li ricevettero con una specie di venerazione e si affrettarono a lasciare la capanna, ringraziando i due ambasciatori. [p. 214 modifica]

— Morte di Giove, Marte, Venere, Sat...

— Basta, — disse Alfredo, vedendo che il portoghese stava per continuare. — Mi hai detto che erano proprio morti pel Dahomey.

— È vero, — disse Antao, ridendo, — ma non ne potevo più. Pensa che sono muto dalle cinque di stamane e che la mia lingua minacciava di atrofizzarsi per sempre, se il mio supplizio continuava. Il diavolo si porti gli ambasciatori, il Borgu, i moci, i cabeceri ed anche quell’animalaccio di Geletè!... Tutte queste cerimonie mi fanno venire l’emicrania e ti confesso che sarei ben più felice di trovarmi ancora sulle rive dell’Ouzmè, a cacciare gli ippopotami. Almeno là avrei potuto far crepare tutti i pianeti mille volte al giorno, a mio piacimento.

— Sii paziente per un po’ di giorni ancora, mio povero amico, — rispose Alfredo. — Ormai il più è fatto e in breve rivedremo ancora le rive dell’Ouzmè.

— Spero che quei ciarlatani dalle code di cavallo ci lasceranno in pace qualche giorno.

— Sono troppo occupati nelle loro feste, per badare a noi per ora.

— Ma a quell’antropofago di Geletè, cos’hai mandato?...

— Delle collane d’oro, dei braccialetti, degli anelli ed una corona da re d’argento dorato. Bisogna essere un po’ generosi con Geletè.

— Purchè non paghi la tua generosità tagliando il collo a noi?... Quel furfante sarebbe capace, ma... che questi schiavi comprendano ciò che diciamo?...

— Non aver questo timore, Antao. Puoi parlare a tuo bell’agio, poichè non comprendono il portoghese e tanto meno l’italiano.

— Sarei più contento che tornassero da Geletè.

— Se li rimandassimo, il re sarebbe capace di farli decapitare.

— Padrone, — disse in quel momento Urada, avvicinandosi ad Alfredo. — Ho veduto mio padre passeggiare dinanzi al palazzo reale.

— Fallo venire, — disse Antao.

— No, — rispose Alfredo. — Il vecchio è prudente e aspetterà che tutti questi curiosi che ci spiano si siano allontanati, per venire qui.

— Cacciamoli via, Alfredo. Giacchè Geletè ha messo a nostra disposizione i suoi schiavi, facciamoli un po’ lavorare. [p. 215 modifica]

— L’idea non è cattiva, Antao. —

Urada avvertì gli schiavi del desiderio dei loro nuovi padroni. Non aveva ancora terminato di parlare che i quattro negri, armatisi rapidamente di canne lunghe e flessibili, si scagliarono contro la folla urlando a squarciagola e bastonando senza misericordia.

Bastarono pochi istanti perchè quei curiosi si dileguassero in tutte le direzioni come un branco di cervi spaventati, anzi Antao ed Alfredo dovettero intervenire per moderare l’eccessivo zelo dei quattro schiavi, i quali minacciavano di accoppare due o tre disgraziati che erano stati travolti dai fuggiaschi.

— Calma, bollenti diavoli, — disse Antao. — Sta bene che percuotiate in nome del re, ma non vogliamo che storpiate nessuno. Morte di Marte!... Che gragnuola e che fuga!...

— Ma è stata una gragnuola provvidenziale, — disse Alfredo. — Ecco il padre di Urada che si avvicina alla nostra dimora.

— Facciamo rientrare i negri o lo accopperanno, Alfredo. —

Il vecchio dahomeno fingendo di guardare ora il palazzo reale, ora la vasta piazza ed ora le capanne, come un tranquillo curioso, s’avvicinava lentamente alla dimora degli ambasciatori.

Dopo d’aver girato e rigirato per dieci minuti, sempre più avvicinandosi, passò dietro la grande capanna e guizzò celermente entro la porta, senza quasi essere stato veduto dai curiosi che si tenevano sugli angoli delle vie.

— Finalmente! — esclamò Alfredo, prendendolo per una mano e conducendolo entro la dimora.

Il vecchio negro salutò i due bianchi con un amabile sorriso, abbracciò Urada, poi accomodatosi su di una cassa, accennò a voler parlare. L’amazzone gli si sedette accanto per tradurre le sue parole.

— Come già avrete saputo, non ho perduto il mio tempo, — diss’egli, guardando Gamani. — Quel vostro negro vi avrà già detto che io ho visitato il tempio dei serpenti, dove si trova prigioniero il fanciullo che cercate.

— Sì, lo sappiamo, — rispose Alfredo. — L’hai riveduto mio fratello?

— Sì, stamane. Volevo bene imprimermi nel cervello la topografia del tempio, per poter agire con sicurezza quando noi tenteremo il colpo.

— Sta bene il fanciullo?... [p. 216 modifica]

— Gode ottima salute e vi aspetta.

— Ah!... Mio povero Bruno!... — esclamò Alfredo, con un sospiro. — Come gli sembreranno lunghe le ultime ore della sua prigionia. Credete possibile la sua liberazione?...

— Sì...

— E troverò colà anche Kalani?...

— So che qualche volta dorme nel recinto sacro, ma non sempre però.

— Si trova in città ora?

— È tornato quest’oggi, dopo d’aver raccolti gli schiavi destinati alla festa di domani.

— Di domani hai detto?

— Sì, Geletè ha paura ad indugiare. Anche ieri notte la terra ha tremato e ciò indica che i suoi avi sono malcontenti di lui e che reclamano nuove offerte di vittime umane. Questa sera si prepareranno le grandi piattaforme pel getto delle ceste.

— Canaglie, — brontolò Antao.

— Ma dove potrò assalire Kalani?... — chiese Alfredo.

— Ti consiglierei di sorprenderlo a casa sua. Domani sera tutti saranno ubriachi, anche le sue guardie e potremo introdurci nella sua abitazione con maggior facilità e ucciderlo.

— È lontana la casa di Kalani?...

— È situata nel salam vicino.

— Allora è necessario che tu non ci abbandoni più per poterci guidare.

— Rimarrò qui e vi attenderò.

— Padrone, — disse in quel momento Gamani, che vegliava presso la porta della capanna. — Un gran moce, scortato da un drappello d’amazzoni, si dirige a questa volta.

— Cosa vorrà il re da noi?... — chiese Alfredo, aggrottando la fronte.

— Vi manderà l’invito per le feste di domani, — disse il vecchio negro.

Il gran moce, giunto dinanzi alla capanna, ordinò alle amazzoni di salutare militarmente i due ambasciatori che si erano affrettati ad uscire, poi disse:

— In nome di S. M. Geletè e del principe Behanzin-Aidjeri, invito gli ambasciatori della potente nazione del Borgu alla festa dei grandi costumi che avrà luogo domani, dopo i sacrifici notturni. I principi del Borgu avranno un posto d’onore. [p. 217 modifica]

— Grazie, — rispose asciuttamente Alfredo, mentre Antao, dopo udita la traduzione, aggiungeva:

— Che il diavolo impicchi quell’antropofago di Geletè e tutti i suoi abbominevoli satelliti, per tutti i pianeti del cielo! Se qualcuno vi piombasse sul cranio, sarebbe un gran bravo pianeta!... —