La Secchia rapita/Canto primo

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Canto primo

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La Secchia rapita Canto secondo


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la


SECCHIA RAPITA


CANTO PRIMO.

________


ARGOMENTO.


Del bel Panaro il pian, sotto due scorte,
     A predar vanno i Bolognesi armati;
     E da Gherardo altri condotti a morte,
     4Altri dal Potta son rotti e fugati.
     Gl’ incalza di Bologna entro le porte
     Manfredi, i cui guerrier co’ vinti entrati
     Fanno per una secchia orribil guerra,
     8E tornan trionfanti alla lor terra.

I.1


Vorrei cantar quel memorando sdegno
     Ch’ infiammò già ne’ fieri petti umani
     Un’infelice e vil secchia di legno,
     12Che tolsero ai Petroni2 i Gemignani.
     Febo che mi raggiri entro lo ’ngegno
     L’orribil guerra e gli accidenti strani,
     Tu che sai poetar, servimi d’aio,
     16E tiemmi per le maniche del saio.

II.3


E tu, nipote del rettor del mondo,
     Del generoso Carlo ultimo figlio,
     Ch’ in giovinetta guancia e ’n capel biondo
     20Copri canuto senno, alto consiglio;
     Se dagli studi tuoi di maggior pondo
     Volgi talor per ricrearti il ciglio,
     Vedrai, s’ al cantar mio porgi l’orecchia,
     24Elena trasformarsi in una secchia.

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III.


Già l’aquila romana avea perduto
     L’antico nido, e rotto il fiero artiglio
     Tant’ anni formidabile e temuto
     28Oltre i Britanni, ed oltre il mar vermiglio:
     E liete, in cambio d’arrecarle aiuto,
     L’italiche città del suo periglio,
     Ruzzavano tra lor non altrimenti
     32Che disciolte poledre a calci e denti.

                                   

IV.


Sol la reina del mar d’Adria, volta
     Dell’oriente alle provincie, ai regni;
     Dalle discordie altrui libera e sciolta,
     36Ruminava sedendo alti disegni;
     E gran parte di Grecia avea già tolta
     Di mano agli empi usurpatori indegni:
     L’altre attendean, le feste, a suon di squille
     40A dare il sacco alle vicine ville.

                                 

V.4


Part’ eran ghibelline, e favorite
     Dall’imperio aleman per suo interesse:
     Part’eran guelfe, e con la Chiesa unite,
     44Che le pascea di speme e di promesse.
     Quindi tra quei del Sipa5 antica lite
     E quei del Potta6 ardea; quando successe
     L’alto, stupendo e memorabil caso
     48Che ne gli annali scritto è di Parnaso.

                                 

VI.


Del celeste Monton già il sol uscito,
     Saettava co’ rai le nubi algenti.
     Parean stellati i campi e ’l ciel fiorito,
     52E sul tranquillo mar dormieno i venti:
     Sol Zefiro ondeggiar facea sul lito
     L’erbetta molle e i fior vaghi e ridenti;
     E s’udian gli usignuoli al primo albore,
     56E gli asini cantar versi d’amore.

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VII.


Quando il calor della stagion novella,
     Che movea i grilli a saltellar ne’ prati,
     Mosse improvvisamente una procella
     60Di Bolognesi a’ loro insulti usati.
     Sotto due capi a depredar la bella
     Riviera del Panaro usciro armati:
     Passaro il fiume a guazzo, e la mattina
     64Giunse a Modana il grido e la ruina.
                        

VIII.


Modana siede in una gran pianura
     Che dalla parte d’austro e d’occidente
     Cerchia di balze e di scoscese mura
     68Del selvoso Appennin la schiena algente,
     Apennin ch’ivi tanto all’aria pura
     S’alza a veder nel mare il sol cadente,
     Che sulla fronte sua cinta di gelo
     72Pare ch’incurvi e che riposi il cielo.

                                  

IX.7


Dall’oriente ha le fiorite sponde
     Del bel Panaro e le sue limpid’acque;
     Bologna incontro; e a la sinistra, l’onde
     76Dove il figlio del Sol già morto giacque:
     Secchia ha dall’aquilon, che si confonde
     Ne’ giri che mutar sempre le piacque;
     Divora i liti, e d’infeconde arene
     80Semina i prati e le campagne amene.

                                 

X.


Viveano i Modanesi alla Spartana,
     Senza muraglia allor nè parapetto;
     E la fossa in più luoghi era sì piana,
     84Che s’entrava ed usciva a suo diletto.
     Il martellar della maggior campana
     Fe’ più che in fretta ognun saltar dal letto.
     Diedesi all’arma; e chi balzò le scale,
     88Chi corse alla finestra, e chi al pitale;8

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XI.


Chi si mise una scarpa e una pianella,
     E chi una gamba sola avea calzata;
     Chi si vestì a rovescio la gonnella,
     92Chi cambiò la camicia coll’amata:
     Fu chi prese per targa una padella,
     E un secchio in testa in cambio di celata;
     E chi con un roncone e la corazza
     96Corse, bravando e minacciando, in piazza.

                                  

XII.9


Quivi trovar che ’l Potta avea spiegato
     Lo stendardo maggior con le trivelle;
     Ed egli stesso era a cavallo armato
     100Con la braghetta rossa e le pianelle.
     Scriveano i Modanesi abbreviato
     Pottà per potestà sulle tabelle:
     Onde per scherno i Bolognesi allotta
     104L’avean tra lor cognominato il Potta.

                                  

XIII.10


Messer Lorenzo Scotti, uom saggio e forte,
     Era allor Potta, e decideva i piati.11
     Fanti e cavalli intanto ad una sorte
     108Alla piazza correan da tutti i lati.
     Egli, poichè guarnite ebbe le porte,
     Una squadra formò de’ meglio armati,
     E ne diede il comando e lo stendardo
     112Al figlio di Rangon, detto Gherardo.

                                  

XIV.


E gli dicea: Va’, figlio, arditamente;
     Frena l’orgoglio di que’ marabisi:12
     Non t’esporre a battaglia, acciò perdente
     116Non resti, mentre siam così divisi;
     Ma ferma alla Fossalta13 la tua gente,
     E guarda il passo, e aspetta nuovi avvisi;
     Ch’io ti sarò, se il mio pensier non falle,
     120Innanzi sesta armato anch’io alle spalle.

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XV.


Così andava all’impresa il cavaliero,
     Dal fior della milizia accompagnato:
     E spettacolo in un leggiadro e fiero
     124Si vedeva apparir da un altro lato.
     Cento donzelle in abito guerriero,
     Col fianco e ’l petto di corazza armato,
     E l’aste in mano, e le celate in testa,
     128Comparvero in succinta e pura vesta.

                                    

XVI.


Venian guidate da Renoppia14 bella,
     Cacciatrice ed arciera all’armi avvezza.
     Renoppia di Gherardo era sorella,
     132Pari a lui di valor di gentilezza;
     Ma non avea l’Italia altra donzella
     Pari di grazia a lei nè di bellezza:
     E parea co’ virili atti e sembianti
     136Rapir i cori, e spaventar gli amanti.

                                   

XVII.


Bruni gli occhi e i capelli e rilucenti,
     Rose e gigli il bel volto, avorio il petto,
     Le labbra di rubin, di perle i denti,
     140D’angelo avea la voce e l’intelletto.
     Maccabrun dall’Anguille in que’ comenti
     Che fece sopra quel gentil sonetto,
     Questa barbuta e dispettosa vecchia,
     144Scrive ch’ell’era sorda da un’orecchia.

                                    

XVIII.


Or giunta in piazza, ella dicea: Signori,
     Noi siam deboli sì, ma non di sorte,
     Che non possiamo almen per difensori
     148Guardare i passi e custodir le porte.
     Queste compagne mie ben avran cori
     Da gire anch’esse ad incontrar la morte:
     Nè già disdice a vergine bennata,
     152Per difender la patria, uscire armata.

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XIX.


Quel dì che Barbarossa arse Milano,
     Mio nonno guadagnò quest’armi in guerra.
     Gherardo mio fratel le chiudea invano;
     156Che le porte gittate abbiam per terra:
     E s’al cor non vien meno oggi la mano,
     Se ’l nemico s’appressa a questa terra,
     Speriam che col suo sangue e la sua morte
     160Ei proverà se sian di tempra forte.

XX.


Accese i cor di generoso sdegno
     Il magnanimo ardir della donzella;
     Onde con l’armi fuor senza ritegno
     164Correa la gioventù feroce e bella
     Con maestoso modo e di se degno
     Il Potta la raffrena e la rappella:
     Dove andate, canaglia berrettina,
     168Senza ordinanza e senza disciplina?

XXI.


Credete forse che colà v’aspetti
     Trebbiano in fresco, o torta in sul tagliere?
     Adattatevi in fila, uomini inetti,
     172Nati a mangiar l’altrui fatiche e bere.
     Così frenando i temerari affetti,
     Distingueva in un tratto ordini e schiere.
     Gherardo intanto in opportuno punto
     176Era correndo a la Fossalta giunto:

XXII.


Che Bordocchio Balzan ch’avea condotto
     La prima squadra, allor quivi arrivato,
     S’era con molto ardir già spinto sotto
     180Alla torre onde il passo era guardato.
     Quei della torre aveano il ponte rotto
     Da un canto, e ’l varco stretto indi serrato;
     E ’l difendean da merli e da finestre
     184Con dardi, mazzafrusti, archi e balestre.

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XXIII.


Il capitan della petronia gente,
     Ch’era un omaccio assai polputo e grosso,
     Gridava dalla ripa del torrente,
     188A’ suoi ch’eran fermati, a più non posso:
     Perchè non seguitadi alliegramente?
     Avidi pora di saltar un fosso?
     O volidi restar tutti alla coda?
     192Passadi panirun pieni di broda.

XXIV.


Così dicea; quand’ecco in vista altera
     Vide giugner Gherardo all’altra riva:
     Onde a destra piegar fe’ la bandiera
     196Contra ’l nemico stuol ch’indi veniva:
     E confidato nell’amica schiera,
     I cui tamburi già da lunge udiva,
     Spinse dall’altra sponda i suoi soldati,
     200Dal notturno cammin stanchi e affannati.

XXV.


Allor Gherardo a’ suoi diceva: O forti,
     Ecco Dio che divide e che confonde
     Questi bedani: udite i lor consorti
     204Che sono del Panaro anco alle sponde.
     Prima del giugner lor, questi fien morti,
     Pochi e stanchi, e ridotti entro a quest’onde.
     Seguitatemi voi; che larga strada
     208Io vi farò col petto e colla spada.

XXVI.


Così dicendo, urta ’l cavallo; e dove
     La battaglia gli par più perigliosa,
     Si lancia in mezzo all’onda, e ’n giro move
     212La spada fulminante e sanguinosa.
     Non fe’ il capitan Curzio tante prove
     Sotto Lisbona mai, nè sulla Mosa,
     Quante ne fe’ tra l’una e l’altra ripa
     216Gherardo allor sul popolo dal Sipa.

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XXVII.


Bertolotto ammazzò faceto e grasso,
     Ch’un tempo a Roma fu procuratore:
     All’osteria del Lino era ito a spasso,
     220E ’l diavolo il condusse a quel romore.
     Uccise appresso a lui mastro Galasso,
     Cavadenti perfetto e ciurmatore:
     Vendea ballotte e polvere e braghieri:
     224Meglio per lui non barattar mestieri.

XXVIII.


Senza naso lasciò Cesar Viano,
     Fratel del Podestà di Medicina;
     E d’un dardo cader fe’, di lontano
     228Trafitto, un figlio del dottor Guaina.
     Indi ammazzò il Barbier di Crespellano,
     Che portava la spada alla mancina;
     E mastro Costantin dalle Magliette,
     232Che faceva le grucce alle civette.

XXIX.


Un certo bell’umor de’ Zambeccari
     Gli diede una sassata ne la pancia;
     E a un tempo Gian Petronio Scadinari
     236Gli forò la braghetta colla lancia:
     La buona spada gli mandò del pari,
     Come se fosse stata una bilancia;
     Ch’ all’uno e l’altro tagliò il capo netto,
     240E i tronchi nella rena ebber ricetto.

XXX.


Qual già sul Xanto il furibondo Achille
     Fe’ del sangue troian crescer quell’onda,
     O Ippomedonte alle tebane ville
     244Fe’ dell’Asopo insanguinar la sponda;
     Tal il giovane fier l’onde tranquille
     Fa rosseggiar del sangue ostil che gronda:
     Ma dalla tanta copia infastidita
     248Diede la Musa a pochi nomi vita.

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XXXI.15


L’oste dal Chiù, Zambon dal Moscadello,
     Facea tra gli altri una crudel ruina:
     Una zazzera avea da farinello,
     252Senz’elmo in testa e senza cappellina.
     Si riscontrò con Sabatin Brunello,
     Primo inventor de la salciccia fina;
     Che gli tagliò quella testaccia riccia
     256Con una pestarola da salciccia.

XXXII.


Bordocchio intanto il fiume avea passato,
     Soverchiand’ ogn’incontro, ogni ritegno;
     Quando del Potta che venia fu dato
     260Dalla torre a Gherardo e agli altri il segno.
     Se n’avvide Bordocchio; e rivoltato,
     Di ripassare a’ suoi facea disegno;
     Ma nell’onda il destrier sotto gli cade,
     264E rimase prigion fra cento spade.

XXXIII.


Quei ch’erano con lui dianzi passati,
     Dal figlio di Rangon tutti fur morti:
     E già gli altri fuggian rotti e sbandati,
     268Del mal consiglio lor, ma tardi, accorti;
     Quando in aiuto da’ vicini prati
     Vider venir correndo i lor consorti
     Che del Panaro alla sinistra sponda
     272Passar più lenti, ov’è più cupa l’onda.

XXXIV.


Gian Maria della Grascia, un furbacciotto,
     Ch’era di quella squadra il capitano,
     Come vide fuggir dal campo rotto
     276Quei di Bordocchio insanguinando il piano,
     Rinfacciò lor con dispettoso motto
     La fuga vile e l’ardimento insano;
     E furioso i suoi quindi spingendo,
     280Fe’ de’ nemici un potticidio orrendo.

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XXXV.


Radaldo Ganaceti era sul ponte
     Con molti suoi per impedir il passo;
     E insieme col destrier tutto in un monte
     284Fu dalla sponda ruinato al basso.
     Voltò Gherardo a quel rumor la fronte,
     E in aiuto de’ suoi venía a gran passo;
     Quando comparve il Potta al suon di mille
     288Corni, gridi, tamburi, e trombe e squille.

XXXVI.


Si raccoglie il nemico e si ritira
     Al terror di tant’armi, al suono, ai lampi;
     Ma l’incalza Gherardo, e al vanto aspira
     292D’aver col suo valor rotti due campi.
     Corre a destra a sinistra, urta, raggira
     Il destriero, e di sangue inonda i campi:
     Rotta ha la spada, e porta nello scudo
     296Cento saette, e mezzo ’l capo ha ignudo.

XXXVII.


Ma tratta dall’arcion ferrata mazza,
     Fantin Vizzani, e Prospero Castelli,
     Astor dell’Armi, e Taddeo Bianchi ammazza,
     300E ’l cavalier Martin degli Asinelli.
     A questi, spada, scudo, elmo e corazza
     Fece levar, ch’eran dorati e belli,
     Per onorarsen poi: ma veramente
     304Fu peccato ammazzar sì nobil gente.

XXXVIII.


Spinte il Potta in aiuto intanto avea
     Le prime insegne ai Gemignani stracchi;
     Ed egli verso il ponte, ove parea
     308Che più fossero i suoi deboli e fiacchi,
     Sopra una mula a più poter correa,
     Che mordendo, co’ piè giucava a scacchi:
     Quando ferito fu d’una zagaglia
     312Quel della Grascia, e uscì della battaglia.

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XXXIX.


Poichè mirò de’ capitani suoi
     L’un fatto prigionier, l’altro ferito
     La progenie antichissima de’ Boi,16
     316E si vide ridotta a mal partito;
     Que’ valorosi che facean gli eroi,
     Senza aspettar chi lor facesse invito,
     Chi a cavallo, chi a piè per la campagna
     320Si diedono a menar delle calcagna.

XL.


Ma ratto fu con una ronca in mano
     Il Potta lor, come un demonio, addosso;
     E tanti ne mandò distesi al piano,
     324Che ne fu il ciel della pietà commosso.
     Quel fiume crebbe sì di sangue umano,
     Che più giorni durò tiepido e rosso:
     E dove prima il Fiumicel chiamato,
     328Fu dappoi sempre il Tepido nomato.

XLI.


Tutto quel dì, tutta la notte intiera
     I miseri Petroni ebber la caccia.
     Ne coperse ogni strada, ogni riviera
     332Manfredi Pio,17 che ne seguì la traccia.
     Con trecento cavalli alla leggiera,
     Con tanto ardire il giovane li caccia,
     Che sul primo sparir dell’aria scura
     336Si trovò giunto alle nemiche mura.

XLII.


La porta San Felice aperta in fretta
     Fu a’ cittadini suoi, ch’erano esclusi;
     Ma tanta fu la calca in quella stretta,
     340Che i vincitori e i vinti entrar confusi.
     Quei di Manfredi, un tiro di saetta
     Corser la terra; e vi restavan chiusi,
     S’ei dalla porta, ove fermato s’era,
     344Non li chiamava tosto alla bandiera.

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XLIII.


Spinamonte del Forno, e Rolandino
     Savignani, e Aliprando d’Arrigozzo
     De’ Denti da Balugola, e Albertino
     348Foschiera, e Calatran di Borgomozzo,
     Affannati dal caldo e dal cammino,
     Trovar non lunge dalla porta un pozzo;
     E una Secchia18 calar nuova d’abete,
     352Per rinfrescarsi e discacciar la sete.

XLIV.


La carrucola rotta e saltellante,
     E la fune annodata in quella mena,
     E l’acqua ch’era assai cupa e distante,
     356Feron più tardi uscir la Secchia piena.
     Le si avventaron tutti in un istante,
     E Rolandino avea bevuto appena;
     Quand’ecco a un tempo da diverse strade
     360Fur lor intorno più di cento spade.

XLV.


Scarabocchio figliuol di Pandragone,
     Petronio Orso, e Ruffin dalla Ragazza,
     E Vianese Albergati, e Andrea Griffone
     364Venian gridando innanzi: Ammazza, ammazza.
     Ma i Potteschi già pronti in sull’arcione,
     D’elmo e di scudo armati e di corazza,
     Strinser le spade, e rivoltar le facce
     368All’impeto nemico e alle minacce:

XLVI.


E Spinamonte che la Secchia presa
     Per bere avea, spargendo l’acqua in terra,
     E tagliando la fune ond’era appesa,
     372Se ne servì contro i nemici in guerra.
     Colla sinistra man la tien sospesa
     Per riparo, e coll’altra il brando afferra
     L’aiutano i compagni, e fangli sponda
     376Contra il furor che d’ogni parte inonda.

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XLVII.


Lotto Aldrovandi, e Campanon Ringhiera
     Gridavano ambidue: Canaglia matta,
     Lasciate quella Secchia ove prim’era;
     380O la bestialità vi sarà tratta.
     Fatevi innanzi voi, disse il Foschiera;
     Notate la consegna che v’è fatta.
     E ’n questo dire, un manrovescio lascia,
     384E taglia a Campanone una ganascia.

XLVIII.


Non fu rapita mai con più fatica
     Elena bella al tempo di Sadocco,19
     Nè combattuta Aristoclea pudica,20
     388Al par di quella Secchia da un baiocco.
     Passata a Calatran fu la lorica,
     Sicchè nel ventre penetrò lo stocco,
     D’un fiero colpo di Carlon Cartari,
     392Falciatore sovran de’ macellari.

XLIX.


Rolandino ferì d’un soprammano
     Napulion di Fazio Malvasia;
     Ed egli a lui storpiò la manca mano
     396Con una daga che brandita avia.
     Se di Manfredi un poco più lontano
     Era il soccorso, alcun non ne fuggia.
     Restò ferito quel della Balugola,
     400E del tanto gridar gli cadde l’ugola.

L.


Manfredi in sulla porta i suoi raccoglie,
     E l’inimico stuol frena e reprime;
     E poichè dal periglio si discioglie,
     404Torna, e ripassa il Ren sull’orme prime:
     Nè potendo mostrar più degne spoglie,
     In atto di trofeo leva sublime
     Sopra una lancia l’acquistata Secchia,
     408Che presentarla al Potta s’apparecchia;

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LI.21


Parendo a lui via più nobile e degno,
     Della vittoria, aver sul chiaro giorno
     Corsa Bologna, e trattone quel pegno
     412Che sarebbe a’ nemici eterno scorno.
     Dalla Samoggia un messo a darne segno
     A Modana spedì senza soggiorno:
     E tosto la città si mise in core
     416Di girgli incontro e fargli un bell’onore.

LII.


Era vescovo allor per avventura
     Della città messer Adam Boschetto,22
     Che di quel gregge avea solenne cura,
     420E ’l mantenea d’ogni contagio netto.
     Non dava troppo il guasto alla Scrittura;
     Ond’ era entrato al popolo in concetto,
     Ch’ in cambio di dir vespro e mattutino,
     424Giucasse tutto ’l giorno a sbaraglino.

LIII.


Questi, poichè venir dal messaggiero
     Con quella Secchia udì l’amica gente,
     Tolta per forza a un popolo sì fiero
     428Di mezzo una città tanto possente;
     Si mise anch’egli in ordine col clero
     Per girla ad incontrar solennemente,
     E si fe’ porre intorno il pivíale
     432Ch’ usava il dì di Pasqua e di Natale.

LIV.


Un superbo robon di drappo rosso
     Si mise il Potta, e una berretta nera,
     Che mezzo palmo largo, e un dito grosso
     436Avea l’orlo d’intorno alla testiera.
     Gli Anzíani appo lui col lucco indosso
     Seguivano a cavallo in lunga schiera
     Sopra certe lor mule afflitte e grame,
     440Che pareano il ritratto della fame.

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LV.


Gli portava dinanzi un paggio armato
     La spada nuda, e la rotella bianca;23
     E avea dal destro e dal sinistro lato
     444I due primi Anzían teste di banca.
     Lo stendardo del popolo spiegato
     Portava il conte Ettor da Villafranca,24
     Giovinetto che Marte avea nel core,
     448E nella bocca e ne’ begli occhi Amore.

LVI.


Due compagnie di lance e di corrazze,
     Una dinanzi e l’altra iva di dietro.
     I cursori del popol colle mazze
     452Facevan ritirar le genti indietro,
     Che correan tutte a gara come pazze
     Alla vicina porta di San Pietro,
     Per veder quella Secchia alla campagna,
     456Credendosi che fosse una montagna.

LVII.


In ultimo cinquanta contadine
     Con le gonnelle bianche di bucato,
     Nelle canestre lor di vinco fine
     460Portavan pane, vin, torta in buon dato,
     Uova sode, frittate e gelatine,
     Al famoso drappello affaticato
     Che venia colla Secchia: e così andando,
     464Giunsero alla Fossalta ragionando.

LVIII.


Quivi trovar che ’l prete della cura
     Gía confortando ancor gli agonizzanti:
     Gli assolvea da’ peccati, e ponea cura,
     468Fra i paterni ricordi onesti e santi,
     Se ’n dito anella avean per avventura,
     O nelle borse o nel giubbon contanti;
     E per guardargli dagli furti altrui,
     472Gli togliea in serbo, e gli mettea co’ sui.

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LIX.


Manfredi intanto apparve, e conducea
     Distinta a coppia a coppia la sua schiera.
     Portar la Secchia in alto egli facea
     476Da Spinamonte, innanzi a la bandiera;
     E di mirto e di fior cinta l’avea,
     Sicchè spoglia parea pomposa e altera.
     Subito il Potta il corse ad abbracciare,
     480Dicendogli: Ben venga mio compare.

LX.


Indi gli chiese come avea potuto
     Con quella Secchia uscir fuor di Bologna,
     Che non l’avesse ucciso o ritenuto
     484Quel popolo per ira o per vergogna.
     Disse Manfredi: Iddio sa dare aiuto
     A chi si fida in lui, quando bisogna:
     Il nemico a seguirci ebbe due piedi,
     488E noi quattro a fuggir, come tu vedi.

LXI.


Fer poi le Cataline25 il loro invito
     Sull’erba fresca d’un fiorito prato:
     E perchè ognun moriva d’appetito,
     492In un’avemmaria fu sparecchiato.
     Finita la merenda, e risalito
     A cavallo ciascuno al loco usato,
     Ripresero il cammino inver la porta,
     496Raccontando fra lor la gente morta.

LXII.


Sotto la porta stava Monsignore
     Coll’asperges in man dall’acqua santa,
     E intonando un mottetto in quel tenore26
     500Che fa il cappon quando talvolta canta.
     Manfredi dismontò per fargli onore,
     E l’inchinò con l’una e l’altra pianta;
     E baciato che gli ebbe il piviale,
     504Se n’andaro alla chiesa cattedrale.

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LXIII.


Quivi Manfredi in sull’altar maggiore
     Pose la Secchia con divozíone:
     E poich’ egli ed il clero e Monsignore
     508Fecero al Santo lunga orazíone,
     Fu levata la notte alle tre ore,
     E dentro una cassetta di cotone
     Nella torre maggior fu riserrata,
     512Dove si trova ancor vecchia e tarlata.

Note

  1. [p. 264 modifica]Il Sig. Dott. Giovannandrea Barotti Ferrarese è d’avviso che il Tassoni preso abbia l’azione del suo poema da due diversissime guerre ch’ebbero insieme in due vari tempi le città di Modena e di Bologna. „ Cominciò la più antica dall’anno 1248 dopo la rotta di Federigo II. sotto le mura di Parma, e venutosi nel seguente a battaglia in un luogo di Modena detto Fossalta, vi restarono i Modenesi disfatti, ed Enzio re di Sardegna prigione. La più moderna avvenne nel 1325, in cui seguita la battaglia a Zappolino con perdita e fuga de’ Bolognesi, vennero questi inseguiti da’ vincitori con tal precipizio, che, allo scrivere di alcuni Cronisti, entrarono gli uni e gli altri in Bologna, e fu allora che in segno di loro vittoria rapirono i Modenesi la catena della porta della città (come dal Morani Rer. Ital. Script. tom. XI., e dal Ghirardacci Istor. di Bol. l. 20 fu detto) e nell’esser respinti fuori recarono seco una secchia di legno, che tolsero a un pozzo, come sulla fede di croniche antiche fu scritto dal Vedriani Istor. di Mod. l. 15. Quest’ultimo conflitto narrato a suo modo dal Poeta nel Canto I., ma principalmente il rapimento della secchia, lo finse il Tassoni, come occasione del grande armamento, e della fiera battaglia del 1249, a fine che la primaria azione del suo poema non fosse priva di quel carattere che si prefisse e mantenne per tutta l’opera, di mescolare con graziosi capricci il grave e ’l burlesco. „ E certamente debb’essere questo anacronismo di leggieri perdonato ad un Poeta, il di cui scopo fu non di eccitare il maraviglioso, siccome nell’Epica avvenir suole, ma di muovere bensì il riso con acconci motteggi, con un bizzarro ed ameno contrasto del sublime coll’umile, e con una giocosa satira, e ben condita.
  2. [p. 264 modifica]I Bolognesi sono chiamati Petronii, e i Modenesi Gemignani dai nome de’ SS. Protettori delle loro città.
  3. [p. 264 modifica]Questi è D. Antonio Barberini, che fu poi Legato due volte di Bologna, cioè nel 1629 e 1642, secondo ed ultimo figlio di Carlo Barberini, fratello maggiore di Papa Urbano VIII., e perciò viene dall’autore chiamato Nipote del Rettor del mondo.
  4. [p. 265 modifica]Guelfi e Ghibellini erano i nomi di due partiti assai famosi in Germania fino dai tempi di Corrado Salico. In Italia però a’ tempi in cui finge il Poeta avvenuta la guerra della Secchia, dicevansi Ghibellini i partigiani dell’Impero, e Guelfi i sostenitori del Papa.
  5. [p. 265 modifica]Sipa per sia usano di dire i Bolognesi, onde quei del Sipa vengono detti dal nostro Autore.
  6. [p. 265 modifica]Scriveano i Modenesi Potta per Potestà.
  7. [p. 265 modifica]Frase assai nota per esprimere il Po, levata dalla favola di Fetonte, che rese illustre quel fiume, secondo Plinio I. 3. c. 16. La Secchia, che dagli antichi dicevasi Gabello, viene da Plinio noverata tra i nove più celebri fiumi dell’Appennino. Ora non è che un fiumicello qual viene appunto descritto dal Poeta.
  8. [p. 265 modifica]Pitale, voce Romana, che significa quel vaso, in cui si scaricano le fecce del corpo.
  9. [p. 265 modifica]L’impresa del comune di Modena è veramente una Croce, e fuori dello scudo due Trivelle incrocicchiate, che con i due manichi escono fuori dalla parte superiore dell’arma, e colle punte al disotto; e porta per motto Avia Pervia, parole che assomigliano a quel detto d’Ovidio, Metam. I. 14.

    Invia Virtuti nulla est via.

       Il Ramazzini nel trattato de Fontium Mutinensium admiranda scaturigine, descrivendo a minuto la maniera con cui si formano in Modena i pozzi, e come vi si trovi l’acqua col mezzo della Trivella Gallica: Ad quod, dice, forsan allusisse voluit, qui ad hujus urbis insigne binas Terebras apposuit cum epigraphe: Avia Pervia. . . . Barotti.

  10. [p. 265 modifica]Usò di questo nome il Poeta per onorare il Conte Lorenzo Scotti suo amico, che morì alla corte dell’Imperatore Mattias.
  11. [p. 265 modifica]Piato è lo stesso che lite, o controversia. Nasce dal verbo piatire, la di cui etimologia si crede che venga da Placitum.
  12. [p. 265 modifica]Marrabisi è voce Lombarda, e significa uomini di mal affare: è propria de’ Bolognesi.
  13. [p. 265 modifica]In distanza di due miglia da Modena, e di un sol miglio dal fiume Panaro, traversa la strada Emilia un torrentello chiamato il Tepido, ed ivi è la Fossalta, villaggio così nominato dalle ripe colà assai alte di quel torrente. Fu questo il luogo preciso, dove i Bolognesi passato il Panaro s’opposero ad Enzio, e vennero al fatto d’armi. Sigon. de R. I. l. 18. . . . Barotti.
  14. [p. 265 modifica]Renoppia è nome finto.
  15. [p. 265 modifica]Questa è un’osteria fuori di porta san Felice a Bologna, dove sempre suol esser buonissimo moscadello.
  16. [p. 266 modifica]Alcuni vogliono che Bologna fosse anticamente detta Boiana dai Galli Boi che quivi abitarono.
  17. [p. 266 modifica]Manfredi Pio non fu molto distante da quei tempi: fu capo della fazione ghibellina, e vicario imperiale in quelle parti.
  18. [p. 266 modifica]La Secchia, che tuttavia si conserva in Modena, è veramente d’abete, e mostra che fosse nuova, con tre cerchi e ’l manico di ferro. E’ anticaglia degna d’esser veduta, come quella che tiene il terzo luogo dopo la nave d’Argo e l’arca di Noè. Salviani.
  19. [p. 266 modifica]La guerra di Troia pel rapimento d’Elena successe circa 200 anni prima del tempo in cui visse Sadoc, che fu della linea d’Eleazaro, e fu Pontefice e Principe assistente del Re Davide; onde il nostro Autore dice al tempo di Sadocco, per ispiegar solamente un tempo a noi lontano.
  20. [p. 266 modifica]Aristoclea fu una bellissima giovine della Beozia, cui volendo Stratone Ocomenio rapire a Calistene d’Aliarte suo sposo, e tirandola uno da una parte, e l’altro dall’altra, restò miseramente dilacerata e morta.
  21. [p. 266 modifica]Quest’ è un’osteria sulla strada Claudia, situata dieci miglia lungi da Modena, e altrettanto lungi da Bologna.
  22. [p. 266 modifica]Bonadamo Boschetti era veramente Vescovo di Modena in quei tempi, e come uomo di fazione guelfa era stato cacciato dai Ghibellini. Questa ottava si leggeva prima così:

    Era Vescovo allor per avventura
         Della città messer Adam Boschetti,
         Che celebrava con solenne cura,
         Quando i suoi preti gli facean banchetti;
         Non dava troppo il guasto alla Scrittura,
         Le starne gli piacevano e i capretti;
         E in cambio di dir vespro e mattutino,
         Giucava i beneficj a sbaraglino.



    Ma perchè al Poeta parve d’aver ecceduto nel motteggiare un soggetto rispettabile per la nobiltà e pel grado, la corresse come si vede.

  23. [p. 266 modifica]Rotella, specie di arma da difesa di figura rotonda. Il Tassoni la finge di color bianco, fors per far allusione al partito ghibellino professato dai Modenesi.
  24. [p. 266 modifica]Sedici miglia lungi da Modena si trova Villafranca, in cui nel secolo del Tassoni avea la famiglia de’ conti Forni, ed ha tuttavia molte tenute: d’essa pertanto convien dedurre che fosse il giovanetto qui menzionato.
  25. [p. 267 modifica]Cataline sono chiamate le contadine del Modenese, perchè dicono Catalina in cambio di Caterina. Si può credere, che dalla lingua latina derivata sia questa maniera di dire, leggendosi nello Statuto MS. di Modena: Ad annum 1272. Frater Simon de sancta Catalina massarius generalis communis Mutinae, etc.
  26. [p. 267 modifica]Varia lezione Dimenando il cotal dell’acqua Santa,
            E intonando il Teddeo con quel tenore.