La casa del poeta/La fortuna

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La fortuna

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La nostra orfanella La ghirlanda dell’anno

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LA FORTUNA


Tutti i giorni, quando, dopo l’ebbrezza del lavoro, viene la stanchezza fisica e la disperata visione del poco o nulla che si è fatto, e che nel crearlo, invece, ci sembrava l’opera stessa di una divinità, per salvarmi da questa sofferenza, che è ancora orgoglio, e ritrovare nell’umiltà quotidiana l’equilibrio umano, il ritorno alle sfere dove la legge del dovere è per tutti eguale, me ne vado a camminare lungo le strade solcate dal passo dei veri lavoratori; le strade dove si aprono i cancelli di rami dei campi e delle vigne dei contadini. Qui la vita mostra il suo viso rude: non più gli sciami di libellule delle donne dagli occhi vuoti, ma il carro pesante ed i giovenchi con gli occhi giovani e dolci eppure circondati di rughe come quelli dei filosofi poveri; qui non la distesa celeste della marina, ma il lavatoio livido, intorno al quale le lavandaie paludose, mentre battono i panni come per punirli di essere sporchi, e li purificano, o di albero in albero stendono le corde lunghe e bianche come [p. 280 modifica]raggi di luna, in pari tempo macchiano inesorabilmente le riputazioni altrui.

Ma io vado oltre, su, su, fin dove la strada è tutta rugginosa di foglie secche, e un gruppo di casolari, vecchi e cadenti ancora prima di essere antichi, si annoda, con le sue siepi nere ed i fienili più alti delle case, in un patto di miseria, di rassegnazione, ma anche di indipendenza. È tutto un mondo a sè, lontano dal mondo, pur così vicino, della gente per la quale la terra non conta se non per metterci i piedi.

Qui la terra è tutta una cosa con l’uomo: dietro le siepi si sente l’ansito del contadino confuso a quello dei bovi e allo strido dell’aratro ancora primitivo: anche i bambini sono piegati fra le zolle, e lo stesso pantalone che la donna seduta sulla soglia rattoppa, pare scavato dal solco smosso, tanto è terroso e umidiccio di linfa.

Il silenzio intorno, nelle aie battute dal tramonto, è grave di odore di concime, rotto dal grugnire dei maiali e dal fruscìo degli alberi che vorrebbe dissipare ed invece accresce la melanconia del luogo.

Ma questa melanconia, lo so bene, è dentro di me: e per romperla vorrei accostarmi alla donna lunga e spolpata che lavora seduta sulla soglia, e domandarle se è felice, se desidera, se sogna qualche cosa: chiederle insomma la spiegazione del mistero della sua vita: ma ella mi [p. 281 modifica]guarderebbe come si guardano i matti, o con lo sguardo indifferente del cane sdraiato in mezzo alla strada e che oramai mi conosce e mi lascia passare senza scomodarsi. Che ne sa, lei, la contadina, del mistero della sua vita? Ella pensa al raccolto scarso, ai guai dei suoi vicini, alla lotta contro il calmiere sul prezzo del latte e delle uova; pensa che la vita è dura e ci logora tutti come quei pantaloni marciti, più che dal tempo, dal sudore dell’uomo in lotta con la terra. Il suo sogno, naturalmente, è quello di un po’ più di fortuna per l’anno venturo.

*

Chi è che non sogna la fortuna per l’anno venturo?

Sì, essa verrà, non c’è più dubbio, adesso: la fronte si rischiara, il viso si solleva come per bere, ma quello che si beve è più dolce dell’acqua quando si ha sete e più ardente del tramonto che sfolgora nell’arco in fondo alla strada.

L’avvenimento solito dei giorni precedenti si rinnova: un gobbo viene giù sgambettando da quella porta d’oro dove il sole rientra: viene giù come scendendo allegramente la scala di un suo palazzo fino a questo momento animato da una festa. Da lontano è tutto nero, con la sola macchia bianca del viso infantile dove gli occhi ricordano [p. 282 modifica]le finestre dei campanili al tramonto; un nero che però, a misura che egli si avvicina, si tinge di grigio, di verde, di marrone: è il colore indefinibile dei suoi vestiti; ed egli pare davvero un ragazzino che per ridere si è camuffato da gobbo.

Il viso adesso è invece quello di un vecchietto, ma anch’esso un vecchietto per burla: solo gli occhi non mutano, e la loro luce si riversa nei miei con piena ricchezza e pieno ricambio di gioia e di amore.

— Buona sera.

— Buona sera.

Egli non si ferma: continua nella sua scesa quasi vertiginosa, come il ragazzo che scivola a volo attaccato alla ringhiera della scala: e pare vada ad un appuntamento, verso un impegno imprescindibile, dove la fortuna lo attende.

Ma l’incontro è avvenuto; e l’anima mia ha pur essa ripreso il volo, con un rinforzo possente di ali, con la sicurezza del possesso della vita.

Il gobbo porta fortuna: e questo deve esserne così certo che il gaudio della sua virtù è come il profumo della rosa: si offre anche a chi non vuole sentirlo. Ecco perchè i suoi occhi splendono, ecco perchè il suo incontro ridesta la speranza nel cuore ambizioso.

È così? No, che non è così. Il piccolo gobbo sa di essere infelice, e che non porta la fortuna richiesta dagli occhi tristi di avidità sordida che al suo passaggio la contadina solleva dal duro [p. 283 modifica]lavoro: ma da lontano egli ha incontrato gli occhi di chi aspetta la vera fortuna, ed ha sentito di darla, questa fortuna, e ne ha preso la sua parte anche lui.

*

Perchè io ti amo, piccolo gobbo della mia strada, e tu senti questa potenza superiore alla tua, e, pur senza renderti conto del perchè, ardi tutto di luce e d’immensità come le finestre dei campanili al tramonto.

Alla superficie, tu credi, come alla superficie credo anch’io, che noi due ci si possa scambiare una fortuna materiale: l’anno venturo io sarò ricca, e tu speri di partecipare a questa ricchezza: verrai nell’atrio della mia villa sul mare, e invece di dieci soldi per la goccia di stagno nel buco dell’inspiratrice caffettiera, avrai buoni cibi e vestiti, e limpide sonanti monete d’argento.

È questo che tu pensi; lo so; sì, ma alla superficie. In fondo, bene in fondo, entrambi pensiamo alla casa del sole, donde tu vieni, alla casa del mare, donde tu vai: sembrano tanto lontane, eppure ci siamo già dentro, piccolo gobbo, e la nostra mano ha già afferrato la vera fortuna: quella dell’uomo che ama il suo simile.