La colonia italiana in Abissinia/III

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Caccia alle gazzelle ed alle faraone — La prima iena ferita — Avoltoi e cadaveri di camelli — Soldati negri del Cordofan — Un vecchio capitano — La sete ci tormenta — Guerra tra due specie di formiconi.



Niente di particolare accadde nelle prime ore della sera, se si eccettui la caduta che fece Colombo giù dal camello, senza però riportarne alcun danno. Prima che annottasse discesi dalla mia cavalcatura per seguitare una mandra di gazzelle, lusingandomi di ammazzarne qualcheduna; ma lo sperai indarno, giacchè esse mi avrebbero tirato a troppa distanza dalla caravana; ciò che sarebbe stato l’estremo della imprudenza da parte mia. Perlocchè mi decisi a ritornare sui miei passi fino a raggiungere i compagni.

Con essi penetrai entro una cupa e fitta foresta, nella quale cacciammo alle gallinacce. Io ebbi la fortuna di vederne una che se ne stava appiattata fra una macchia. La presi di mira collo schioppo e l’uccisi: era una grossa faraona. Dacchè si cacciava, non eravamo stati mai più sì fortunati. [p. 29 modifica]

D’altra parte Colombo erasi imbattuto in un più grosso animale: il suo fucile aveva sparato contro una iena di straordinaria grandezza. I ruggiti della fiera ci annunziavano ch’era stata ferita; ma non ci fu dato vederla a motivo della precipitosa sua fuga, benchè le urla, che di tratto in tratto riudivansi, ce ne potessero approssimativamente indicare la direzione.

Usciti dalla foresta, sboccammo in una pianura, non tanto amena, nella quale sostammo, accampando finchè fu notte, ed ove scaricammo i camelli, secondo il consueto. Si apprestò un buon fuoco, e Glaudios, che, quant’era cattivo compagno tant’era cuoco eccellente, si diede alle operazioni della cucina, mentre io e Colombo eravamo andati a far legna nella testè abbandonata foresta. Ritornammo con grandi fascine e qualche grosso ramo, disponendo in qua e in là i fuochi di sicurezza per tener lontane le fiere, siccome facevasi in tutte quelle notti in cui si riposava.

Dopo la cena, a fornirci la quale era stata sì gentile la gallinaccia ch’io avevo cacciata, presi alcune sorsate di the, e accesi la mia solita pipa, sdraiandomi sopra la branda, conversando cogli altri ed intuonando di tratto in tratto qualche patrio stornello per rompere la monotonia dei discorsi.

La notte passò tranquilla. Di buon mattino allestimmo le some, festeggiati da quella specie di belato che mandano i camelli allorchè vengono caricati: concerto curiosissimo e d’un effetto più strano che disgustoso. Preso un po’ di cognak, ripigliammo il cammino lungo un tratto di deserto, seminato qua e là di scheletri di camelli, cui visitavano grosse torme di uccelli di rapina. Da una di quelle carogne, alcune aquile e parecchi avoltoi strappavano sproporzionati bocconi. [p. 30 modifica]Quella scena ci metteva ribrezzo. Spianammo i fucili e ne ammazzammo alcuni. Altro di notevole non incontrammo sino al nostro arrivo alla sponda di un fiume asciutto, che serpeggiava in una piccola oasi, ricca d’ombre benigne per grande numero di adansonie, alberi grossissimi ed altissimi, sopra i quali costumano piantare il nido avoltoi ed altri rapaci. Ci sdraiammo per ristorare le forze e per rinfrescarci. Non andò molto però, che un distinto calpestio venne a turbare la nostra quiete.

Era un drappelle di soldati negri, del Cordofan, guidati da un capitano vecchio, e malato, che dirigevasi alla nostra volta.

I servi indigeni che avevamo con noi, rimasero sbigottiti; ciò che non era punto di lieto augurio per noi. Essi ci fecero noto, che avremmo forse dovuto perdere i nostri camelli, imperciocchè coloro scorrazzavano in quelle regioni allo scopo di fornire di tali animali il governo di Khartun, cui abbisognavano pel trasporto di pali telegrafici.

Le povere bestie, soccombevano per le enormi fatiche, e venivano abbandonate lungo la via, ove gli avoltoi le divoravano. Di ciò dava ragione la scena degli scheletri disseminati, che ci si era parata innanzi nell’ultima marcia.

I soldati s’erano avvicinati dirigendoci il saluto alla mussulmana e, sedendo a modo degli arabi, c’interrogarono di dove venivamo, ove andassimo ed a chi appartenessero i camelli.

Il tiro era stato ben diretto; ma il sig. Stella fu sollecito a rispondere che quei camelli erano nostra proprietà assoluta: averli noi acquistati legalmente a Suakin e dover servirci ai nostri usi speciali e personali. [p. 31 modifica]

Di tali risposte non fecero alcun caso, nè più s’intrattennero sull’argomento; rivolsero le loro ricerche, con avida curiosità, sopra altri argomenti relativi ai nostri scopi; ricerche che non ebbero esito, mercè la scaltrezza adoperata dal signor Stella nelle sue risposte in particolar modo evasive.

Il vecchio capitano ci richiese allora d’un po’ di liquore, per rinvigorire la sua convalescenza, conoscendo bene che gli Europei non ne vanno mai senza nei loro pellegrinaggi. Lo regalammo d’una bottiglia di cognak, della quale si mostrò soddisfattissimo in uno ai propri compagni, tant’è vero che egli credette di corrisponderci con alquante frutta secche e tutt’affatto selvaggie, alcuna delle quali assomigliava moltissimo al tramarindo. Noi le accettammo con garbo, preparando quindi un po’ di the che sorseggiammo in buona compagnia.

Più tardi, avendo il vecchio dichiarato di partire e dovendo prendere una via diversa dalla nostra, ci dimostrava il suo dispiacere per non poter viaggiare insieme a noi; però volle attendere la nostra partenza, e ci tenne compagnia, coi suoi, per un certo tratto di strada, dopodichè, si licenziò dirigendosi per via opposta.

Noi viaggiammo fino a notte oscura, fermandoci entro una foltissima selva, fornita di alberi d’ogni specie e di piante di stupenda bellezza.

Per ogni dove si passava, l’aria pareva imbalsamata; io sentiva rivivere le mie forze, il mio spirito, il mio stesso intelletto. Mai più, prima d’allora m’era potuto illudere a segno di vedermi nelle ridenti zolle della mia terra natale. Tutto, tutto intorno a me era ridente ed armonioso.

Sovra un terreno arenoso ma morbido, ci sdraiammo, alternando il riposo in maniera che uno di noi ve[p. 32 modifica]gliasse sempre a guardia, e per attizzare e mantenere i fuochi che ci garantissero dalle sorprese delle fiere e d’altri animali nocivi di cui abbondava la foresta.

Molti gufi ci tenevano una musica sì ingrata che quasi quasi non potevano dormire. Si aggiungano a tanto le strida di una tribù di grosse scimmie le quali, saltando di ramo in ramo, ci attorniavano assediandoci, e il ruggito lontano di leoni e di iene, si avrà una scarsissima idea di quell’infernale armonia che ci toglieva il sonno, e ci teneva in apprensione pella nostra sicurezza.

Il mattino desiderato apparve finalmente e proseguimmo il cammino in bell’ordine e di buon umore, viaggiando per altri dieci giorni, che scorsero senza alcun fatto degno di menzione.

La nostra meta era Cassala. Il giorno, che precedette il nostro ingresso nella bella città del regno del Barka, fu occupato nel traversare un arido tratto di deserto, ove soffrimmo una grandissima sete, non essendoci stato possibile di mandar giù quello schifoso liquido che tenevamo custodito nelle gherbe. Il tormento era sì forte che non avevamo la forza necessaria per profferire una parola. Taciti ed ingrugniti proseguivamo per quegli infocati sentieri, affrettandoci più che ci era possibile per giungere ad un piccolo torrente, il quale, benchè scarso d’acqua, doveva nullameno averne abbastanza per ristorare la carovana, uomini e bestie, tutto compreso. Ma la scarsezza che vi trovammo fu al di sotto di quanto potevamo immaginare, imperciocchè potemmo a stento dissetarci noi, e ci convenne lasciar le bestie senza ristoro di sorta fino a Cassala.

La speranza di trovar nuova acqua anche prima di giungere a Cassala, siccome ce ne dava lusinga il [p. 33 modifica]sig. Stella, ci rianimò un poco; ma le forze prostrate e poco confortate, ci mancavano mano a mano che sforzavamo le nostre cavalcature, le quali, a lor volta, pareva volessero cadere sotto il nostro peso. Fu d’uopo quindi arrestarci, così travagliati dalla sete e sferzati dal sole che credevamo di soccombere. Nonostante, ripigliata la via, giungemmo al tanto sospirato luogo di riposo e di consolazione.

Acqua ne trovammo più che a sufficienza, e più che a sufficienza ne bevemmo così, che il nostro ventre ebbe in breve a risentirsene.

Un riposo di sei ore, tanto reclamato dai patimenti sofferti, ci pose in grado di continuare il viaggio. Non trattavasi più che di tre ore di cammino; e le tre ore passarono senza molta noia, dimodochè entrammo a Cassala in ottimo stato di salute e di buonissimo umore.

Poco prima di giungere a Cassala, una specie di paese mi era apparso in confuso. Alcuni massi di terra, elevati a guisa di piccole capanne di gusto affatto arabo, mi aveano dato, almeno da lungi, l’idea d’una città qualunque. Giunto a poca distanza, la mia sorpresa fu al colmo, non avendo potuto scorgere alcun foro in quelle abitazioni; non una porta, non una finestra. Chiestone il perchè al signor Stella, questi mi rispose esser quelle apparenti abitazioni non altro che il prodotto dei lavori di una specie di insetti chiamati termiti, formiconi giallastri e di corpo trasparente, i quali sogliono d’intorno agli alberi sollevare il terreno, ad altezza considerevole ed ivi rintanarsi. Quelli insetti hanno un capo che li guida alla battaglia contro gli speciali nemici da cui vengono molestati. E sono altri formiconi neri, che a grosse schiere, danno ad essi la caccia e spiegano [p. 34 modifica]una attività mirabile congiunta ad una intelligenza particolare.

Costoro traggono seco i termiti nelle loro tare, avendo cura dei propri morti e dei feriti che caddero nel combattimento, avvegnacchè le lotte che s’impegnano fra di loro sieno realmente serie ed interessanti; qualche cosa di meraviglioso allo sguardo dello spettatore.