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La colonia italiana in Abissinia/II

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I III
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II.


Il miraggio — Burrasca di sabbia — Testardaggine d’un asina — Altro alterco fra compagni — I ladri del deserto — Il leone all’agguato — Caccia ai pappagalli e alle gazzelle — Passeggiata per Cassala.



Terminata la lite tra Glaudios e l’Etiope, ci riposammo, e più tardi, dopo un discreto pranzo, ricaricammo i camelli, e rimontati i nostri boríki, proseguimmo il viaggio, sotto un calore eccessivo, attraverso un immenso tratto di sabbia.

Lungo quel tragitto ebbi anch’io l’opportunità di vedere il tanto decantato miraggio del deserto. Questo fenomeno mi abbagliava, senza comprenderne a prima giunta l’arcano, e con immenso desiderio mi sarei gettato verso il sito dell’apparizione, per tuffarmi in quell’acqua appariscente e berne a sazietà, scambiandola assai volentieri con quella delle nostre gherbe così calda e imputridita da non poter accostarsela alle labbra senza ribrezzo.

Nonostante ch’io sapessi di che si trattava, mi avvicinava quasi senza volerlo, nella direzione del mi[p. 23 modifica]raggio; quand’ecco il fenomeno scomparire d’un tratto e riapparirmi più lontano, cosicchè, imprecando all’effetto dei raggi luminosi che mi avevano esposto al supplizio di Tantalo, ritornai ai miei compagni. Con essi dopo tre ore di traversata, mi ridussi entro un’oasi, ove, scaricate le nostre robe e legati gli animali presso la sponda d’un torrente, mi soffermai a ristorarmi.

Il torrente di cui feci cenno è sempre asciutto, eccettuati alcuni pozzi scavati ad arte dai pastori del Barka allo scopo di conservarvi un po’ d’acqua per dissetare le loro mandre.

Era trascorsa appena un ora dacchè eravamo colà, allorquando un fitto nugolo di sabbia, sollevandosi quanto una grossa ondata e rotolandosi in se stesso, precipitavasi contro di noi. Balzammo in piedi ed aggrappandoci strettamente con braccia e gambe a degli alberi, stemmo ad aspettare, di assai mal animo, la nostra sorte. Un grido di terrore emesso dagl’indigeni ch’erano con noi, accrebbe il nostro sgomento, il quale degenerò in disperazione allorchè l’uragano di sabbia ci ebbe investiti.

In un baleno fummo tutti coperti di sabbia. Io ritenni il fiato più che mi fa possibile e chiusi gli occhi, tenendomi per perduto; ma per buona sorte il nembo passò oltre e si perdette a nostra vista. Ed io che avea creduto di rimanerne asfissiato, girai intorno lo sguardo e vidi le nostre robe precipitate e disseminate pel suolo, i miei compagni sbalorditi, ma sorridenti, che cercavano di riaversi dalla paura, ricomponendosi le vesti e raccogliendo gli effetti. sparsi per l’oasi. Femmo tosto provvista d’acqua, che attingemmo alle cisterne del torrente, dopo di che proseguimmo la nostra via.

Montai il mio boriko, cacciando innanzi quello di Colombo a me affidato; ma a mio dispetto la bestia [p. 24 modifica]malcreata, deviando continuamente dal sentiero, mi faceva passare per fitti cespugli in cui abbondavano rami secchi e pungenti. Spesse volte corsi rischio di rimanere appeso a qualche ramo od infitto a qualche spina che penetrava nella mia cuffia — arnese ch’io, teneva sopra una specie di camauro con falda di pelo, da me acquistato a Gedda nell’Arabia deserta. Ad un tratto perdetti la pazienza e, spingendomi innanzi, diedi alla mia guida animalesca una forte morsicatura all’orecchio, tale da farvi penetrare il dente; ma la mala femmina internavasi sempre più nelle macchie, e s’io mi fossi lasciato condurre ciecamente da lei, avrei finito col cadere tra le ugne di qualche fiera. Perciò, dato di piglio al mio ataghano le vibrai un lieve colpo, che ottenne un effetto sorprendente e potei raggiungere in breve la comitiva.

Sostammo, verso l’imbrunire, accampandoci in mezzo ai cespugli, e fu qui che Colombo scoperse le traccie del morso e della ferita ch’io aveva fatto al suo animale; per il che si diede ad inveire contro noi tutti, e, non sapendo quale ne fosse stato l’autore, accentuava maggiormente le sue invettive contro lo Spagnuolo, siccome alla persona su cui potevano cadere maggiormente i sospetti dei maltrattamenti in discorso. Io stavo già per accusarmi da per me stesso, ma lo Spagnuolo, ardito ed arrogante come sempre, non curando giustificarsi, nè qualificarsi innocente, come lo era in fatto, prese e scagliare insulti e villanie all’indirizzo di Colombo, dicendo di non aver certamente paura d’alcuno di noi, e nemmeno di Dio stesso: questione che poteva avere dispiacevoli conseguenze se, come al solito non si fosse intromesso il padre Stella, il quale, figgendo in viso allo Spagnuolo uno sguardo pieno di fuoco e di [p. 25 modifica]autorità, lo ammoni severamente e lo eccitò ad aver maggiore prudenza e circospezione.

Lo pregò eziandio a trattenersi ora e per l’avvenire dal promuovere simili, scandali in faccia agl’indigeni, sia per la dignità propria, sia per non compromettere le sorti della impresa.

Io mi tacqui allora, e la faccenda dei maltrattamenti del boriko femmina venne così accomodata. Si fece fuoco e si apprestò una discreta minestra, dopo la quale ci servimmo di un buon the, dandoci da ultimo al riposo.

Alcune ore appresso, da un alto poggio, comparvero alcuni indigeni armati, che, giunti appresso a noi, si diedero a parlare coi servi della nostra carovana; ed io feci osservazione che mentre parlavano ci davano avide occhiate e misteriose. Alcuni di costoro si avvicinarono a noi sbirciando qua e là e fermando lo sguardo sopra i nostri effetti. Io, ponendomi in guardia, intimai loro di non avanzarsi, anzi di prendere il largo. Il sig. Stella osservò ch’era quella una delle molte bande che scorrono i deserti in cerca di bottino, per cui, appena si furono ritirati, piantammo una specie di difesa, vegliando a lungo, finchè si allontanarono insieme ai loro compagni senza averci più molestato.

A mezza notte un forte ruggito ci fece avvertiti dalla comparsa d’un leone il quale, pian piano, s’era avvicinato a non più di trenta metri da noi, cosicchè potevamo distinguere il color fulvo del suo pelo, per mezzo di vari fuochi, accesi allo scopo di deludere ogni suo sforzo per assalirci. Infatti dopo un ora, all’incirca, la fiera, non sapendo venirne a capo, si ritrasse e non la vedemmo più comparire per tutta la notte.

All’alba ripigliammo la nostra via, e dacchè scor[p. 26 modifica]sero le prime ore del mattino, ci trovammo alla base d’una poco estesa cava di marmo trasparente, percorrendo un tratto della quale osservammo che componevasi di scaglie di mica. Interrogai il sig. Stella se da una simile cava si avesse potuto trarre alcun vantaggio; ma egli mi rispose negativamente a motivo della grande distanza dai paesi abitati e per la difficoltà dei trasporti; sopratutto poi per non esser sì vasta da poter servire alla fortuna di alcun imprenditore.

Incontrammo poscia una carovana d’oltre cento camelli, proveniente da Cassala (Barka).

Per l’eccessivo calore mi si arrostivano le carni in guisa che il volto cominciava a spelarsi, e il bruciore che me ne derivava mi spingeva continuamente a graffiarmi, con qual risultato, ognuno può bene immaginarselo.

Alcune ore dopo sostammo, accampandoci sotto due alberi foltissimi, i cui rami intrecciandosi in modo meraviglioso, ci fornivano una fitta ombra, alla cui protezione attendemmo il colmo del sole e il suo declivio per poter all’imbrunire rimetterci in cammino. Lo spazio ombreggiato somigliava a quello d’una grande capanna rotonda; e quivi, spazzati alcuni cespugli forniti di grosse spine, stendemmo le nostre coperte e vi ci sdraiammo sopra. Io trassi la mia pipa, già fida compagna delle mie marcie nel Trentino, durante la campagna con Garibaldi, e che conservavo religiosamente come una cara memoria. Il mio pensiero ritornava ai dì che furono, senza affatto deplorare l’avvenuto loro trapasso, ma rallegrandomi meco stesso dell’attuale mia posizione d’avventuriero, e compiacendomi di trovarmi in quei deserti, libero come un uccello, sollevato dall’incubo delle convenienze aristocratiche, lungi dal frastuono delle [p. 27 modifica]città, ristretto soltanto nella piccolissima cerchia d’affetti e di corrispondenza in cui trovavami coi miei compagni di ventura. Ivi il significato della parola libertà mi si appalesava nella pienezza del suo valore.

Mentre stava così fantasticando e la mia pipa aveva arso la sua misura di tabacco, fui distratto dall’apparire di due pappagalli che svolazzavano intorno a noi quasi volessero farci festa. All’improvviso uno di quei poveri animali cadde fulminato a terra, per opera dello Spagnuolo che l’avea colpito con un tiro di fucile. Il pappagallo superstite, spaventato e confuso, balzava di frasca in frasca, schiammazzando in tuono di dolore, quasi volesse deplorare il triste fato del compagno e il proprio conseguente isolamento. Ciò diede pena grandissima a me ed agli altri, escluso, ben inteso, lo Spagnuolo, che sorrideva beffardamente e gloriavasi dalla fatta preda.

Una caccia più proficua, e quasi necessaria, reclamavasi da noi e per motivi di sostentamento; per cui ci internammo entro la selva cacciando alle tortorelle. Ne facemmo infatti discreto bottino, il quale servì ad ammannirci la cena.

Calmato il calore, bevemmo un bicchierino di cognak e caricati i camelli proseguimmo la strada verso Cassala. Gl’indigeni prima di movere il passo, invocarono, siccome di consueto, il protettore delle carovane in nome di Maometto, allo scopo d’essere preservati dagli infortuni.