La dodicesima notte o quel che vorrete/Atto primo
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LA DODICESIMA NOTTE
O QUEL CHE VORRETE
ATTO PRIMO
SCENA I.
Un appartamento nel palazzo del Duca.
Entrano il Duca, Curio signori, musici e seguito.
Duc. Se la musica è l’alimento dell’amore, suonate, e fatemene udire fino a che la mia passione, troppo divampando, soccomba e spiri. Ripetete quel passo. V’era una cadenza sì flebile, ch’esso fece sul mio orecchio e sull’anima mia l’impressione del tepido zeffiro, il di cui soffio, sfiorando un campo di viole, fura loro e diffonde dolci profumi. — Ma basta; questi suoni non son più così dolci come erano dianzi. Oh senso dell’amore, quanto sei vivo, e come avido sei di ogni cosa nuova! Vasto al par del mare e com’esso accogliendo tutto nel tuo seno, quello che vi entra, quale che ne sia il prezzo, degenera e perde ogni splendore in un istante. La passione dell’amore è così feconda in forme mutabili, che null’altro v’ha che adegui le sue fuggitive e bizzarre fantasie.
Cur. Volete andar alla caccia, signore?
Duc. Di che, Curio?
Cur. Della damma.
Duc. È quello che fo, e inseguo la più nobile e la più bella che veduta mi abbia. Ah! la prima volta che i miei occhi si abbatterono in quelli d’Olivia, mi parve che il suo alito rendesse più puro l’etere, e da quel momento fui cambiato in cervo, e i miei desiderii, come una muta feroce e crudele, non hanno cessato di perseguitarmi. — (entra Valentino) Ebbene? Quali novelle di lei?
Val. Così non dispiaccia a Vostra Signoria, ma non potei essere ammesso alla sua presenza, e non vi reco che questa risposta per parte della sua fante: il Cielo stesso, prima che trascorsi non siano sette anni, non godrà liberamente della sua vista: simile ad una religiosa nel chiostro, ella non uscirà che velata, e bagnerà ogni giorno il suolo della sua camera colle sue lagrime amare: e tutto ciò per satisfare al dolore che risentì per la perdita di un fratello, di cui intrattiene vivissima la rimembranza.
Duc. Ah quella che ha un cuore così sensibile per pagare sì fatto tributo di tenerezza ad un fratello, quanto amerà allorchè una volta il dardo dorato dell’amore avrà spento in lei tutte le altre affezioni che vivono nella sua anima, nel suo cervello e nel suo cuore, quei troni delle passioni, e tutte le sue facoltà saran ricche e piene di un sentimento unico e supremo! Andiamo ad adagiarci sopra un dolce letto di fiori, perchè i pensieri dell’amore ridono lieti fra un pergolato di fragranze. (escono)
SCENA II.
Alla sponda del mare.
Entrano Viola e un Capitano, seguìti da alcuni marinai.
Viol. Che paese è questo, amico?
Cap. L’Illiria, signora.
Viol. E che farò io in Illiria? Mio fratello è in Eliso. Nondimeno un caso forse lo potrebbe aver salvato dal naufragio. — Che ne pensate voi, marinai?
Cap. Fu per un caso che vi salvaste voi stessa.
Viol. Oh mio povero fratello! È egli possibile che tu pure sia salvo?
Cap. È possibile, signora, e per accrescere la vostra fiducia, siate certa che nel momento che il nostro vascello si è aperto, e che voi insieme con noi vi siete aggrappata al palischermo, ho veduto vostro fratello pieno di previdenza in mezzo al pericolo attaccarsi ad un albero che nuotava sui flutti, e ve l’ho veduto assiso come Arione sul dorso di un delfino trasportato celeremente dall’impeto delle onde.
Viol. In premio di quello che mi dite, ricevete quest’oro. Il vostro racconto ha fatto rinascere in me la speranza ch’ei pure sia vivo. — Conoscete or bene questa contrada?
Cap. Minutamente, perchè vi nacqui, e son stato allevato a poca distanza da questo luogo stesso.
Viol. Chi regna qui?
Cap. Un duca nobile così per nome come per carattere.
Viol. Come si chiama?
Cap. Orsino.
Viol. Orsino! Udii ripeter spesso questo nome da mio padre ma egli era smogliato allora.
Cap. E lo è anche, o almeno non è molto ancora che lo era: perchè non è neppure un mese dacchè io lasciai queste sponde, e allora correva voce (voi ben sapete che il volgo ciancia sempre sui fatti dei grandi) ch’ei richiedeva l’amore della bella Olivia.
Viol. Chi è questa?
Cap. Una fanciulla virtuosa, la figlia di un conte morto un anno fa: il padre la lasciò sotto la protezione di un suo figliuolo che pure dopo poco lo seguì nella tomba, ed è per l’amore di questo fratello, narrasi, che ella ha rinunciato alla vista e alla società degli uomini.
Viol. Oh, perchè non sono io al servizio di quella signora per viver sconosciuta nel mondo fino a che abbia avuto il tempo di maturare i miei disegni?
Cap. Ciò sarebbe difficile ad ottenere. Ella non vuol udire parole da nessuno, e neppur dal duca.
Viol. Capitano, tu hai un buon aspetto, e sebbene la natura celi spesso la corruzione sotto una splendida forma, nondimeno io son proclive a credere che tu abbia un’anima che al tuo esterno corrisponda. Io ti prego dunque, e te ne ricompenserò generosamente, di nascondere quello ch’io sono, e di aiutarmi onde trovare un travestimento che si addica ai miei concetti. Vuo’ andare ai servigii di questo duca. Tu mi presenterai a lui come un eunuco, ed io sosterrò bene la mia parte, perchè so cantare, e saprò interessarlo con molti tuoni di musica variata che gli renderanno graditi i miei uffici. Le conseguenze di tal esordio le lascio al tempo; tu pensa soltanto a secondare col tuo silenzio il mistero delle opere mie.
Cap. Siate il suo eunuco, io sarò il vostro muto, e se la mia lingua diverrà indiscreta, possano i miei occhi cessare di vedere.
Viol. Ti ringrazio, conducimi al suo palazzo. (escono)
SCENA III.
Una stanza nella casa di Olivia.
Entrano ser Tobia Belch e Maria.
Tob. Come diavolo mai mia nipote si prende tanto a cuore la morte di suo fratèllo? Io son sicuro che il dolore è nemico della vita.
Mar. In fede, ser Tobia, convien che veniate più presto la sera, perchè vostra nipote mormora assai delle vostre indebite ore.
Tob. Meglio che mormori essa, di quello che si mormori di lei.
Mar. È vero, ma bisogna che vi rassegniate ai suoi ordini. Dovete ancora guardarvi dall’aver troppo bevuto quando vi recate qui, perchè ieri la mia signora se ne querelava, come si querelava di quell’imbelle che le conduceste a farle la corte.
Tob. Chi? Ser Andrea Maldigota?
Mar. Appunto.
Tob. È uno dei più forti giovani che siano in Illiria.
Mar. Che val ciò?
Tob. Ed ha tre mila ducati di rendita.
Mar. Ma non li avrà che per un anno, perchè è pazzamente prodigo.
Tob. Via! Non arrossite a dir così? — Egli suona inoltre bene la viola, e parla tre o quattro lingue, parola per parola, senza libri: possiede tutti i buoni doni della natura.
Mar. Oh sì certo; e li possiede quasi al naturale: egli è la sentina di tutte le virtù.
Tob. Per questa mano sono detrattori coloro che di lui dicono ciò. — Chi sono essi?
Mar. Persone che aggiungono anche ch’egli si ubbriaca ogni notte in vostra compagnia.
Tob. Se ciò accade, è per i gran brindisi che facciamo a mia nipote, alla di cui salute io verserò tazze finchè vi sarà un passaggio nella mia gola, e una vigna in Illiria. Un vile è colui che ber non voglia alla salute di mia nipote fino a che il cervèllo gli giri. — Su, fanciulla, assumi un contegno grazioso e pulito, perchè, ecco ser Andrea Maldigota. (entra ser Andrea Maldigota)
And. Ser Tobia Belch! Come va ser Tobia Belch?
Tob. Dolce ser Andrea.
And. Salute, bella collerica.
Mar. Ed anche a voi, signore.
Tob. Avvicinatevi, ser Andrea, avvicinatevi.
And. Desidero far conoscenza con questa fanciulla.
Mar. Il mio nome è Maria, signore.
And. Bella Maria.....
Tob. Da bravo, amoreggiatela, conquidetela.
And. È quello che farò sull’onor mio.
Mar. Addio, miei gentiluomini.
Tob. Se tu la lasci partir così, ser Andrea, possa tu non più mai sguainare una spada.
And. È quello che vorrò se ci abbandona in tal guisa. Bella fanciulla, credete siano imbelli quelli che vi stan sotto mano?
Mar. No, perchè non vi ho sottomano.
And. In fede mia mi avrai tosto, perchè, eccoti la mia mano.
Mar. Signore, il pensiero è libero, ma gli atti non lo sono. Ponete le vostre mani altrove.
And. Perchè, caro cuore?
Mar. Perchè le vostre mani sono secche, messere.
And. Secche, che vuol ciò dire?
Mar. È un mio secco scherzo, signore.
And. Ne hai tu molti di tal fatta?
Mar. Sì, signore, e li tengo nella punta delle dita: lascio la vostra mano, perchè mi dà noia. (esce)
Tob. Oh cavaliere, tu hai bisogno di un’altra tazza di vino di Canarie. Quando mai fosti in vita tua così avvilito?
And. Non mai se non fu il vino di Canarie che mi abbattesse di più. Mi sembra che vi siano certi giorni in cui non ho spirito, più di quello che se n’abbia un cristiano o un uomo ordinario. Ma io sono un gran mangiatore di bue, e credo che ciò danneggi il mio acume.
Tob. Senza dubbio.
And. Se lo pensassi, me ne asterrei. — Dimani andrò a cavallo, ser Tobia.
Tob. Pourquoi, mio caro cavaliere?
And. Che cosa è questo pourquoi? Vorrei aver impiegato ad apparar le lingue, quel tempo che ho scipato nella scherma, nella danza, e nella caccia del cinghiale. Oh se avessi professate le belle arti!
Tob. Sareste riescito eccellente.
And. Dimani ritorno a casa mia, ser Tobia. Vostra nipote non vuol lasciarsi vedere, o s’ella vede qualcuno vi è cento a porre contro zero che non vorrà veder me. Il conte stesso che è qui vicino le fa la sua corte.
Tob. Ella non cura il conte, nè vuole uno sposo al disopra di lei per fortuna, per età, o per spirito. Io gliene ho udito fare il sacramento.
And. Resterò allora un altro mese. Son l’uomo che ha le idee più pazze di questo mondo: talvolta mi piaccio nelle mascherate, tal’altra nei balli e nei conviti.
Tob. Siete voi valente in sì fatti negozii, cavaliere?
And. Quanto ogni altr’uomo d’Illiria: al disopra anche dei superiori: io posso danzare come ogni paladino di Francia.
Tob. E perchè nascondere siffatti talenti? Perchè lasciar tai doni dietro al tappeto? Essi arruggineranno fra la polvere come un vecchio stemma dimenticato. Il mondo non vuole che simili talenti si nascondano, e contemplando ora la meravigliosa costituzione della vostra gamba, mi rimprovero di non avere da me conosciuto che dovevate essere eccellente in molti esercizii ginnastici.
And. Sì, la mia gamba è ben fatta, ed empie con molta grazia una calza color di fiamma. — Vogliamo andare a qualche diporto?
Tob. Esordiremo prima con un fiasco. (escono)
SCENA IV.
Una stanza nel palazzo del Duca.
Entrano Valentino e Viola vestita da paggio.
Val. Se il duca continua a tenervi nel suo favore, Cesario, voi andrete molto in alto: sebbene da tre giorni soli vi conosca, egli è già divenuto con voi molto familiare.
Viol. Voi dunque temete o la sua incostanza o la mia negligenza, per porre così in dubbio la durata del suo affetto per me. È egli forse incostante?
Val. No credetemelo. (entrano il Duca, Curio e seguito)
Viol. Ve ne ringrazio. — Ecco il conte che giunge.
Duc. Chi vide Cesario, olà?
Viol. Egli è vicino a voi, signore: eccomi.
Duc. Ritiratevi un istante in disparte (agli altri), Cesario, tu ora sai tutto: io ti ho aperto il mio cuore, e svelati ti ho tutti i miei segreti. Perciò, buon giovine, dirizza i tuoi passi verso di lei, e non lasciarti impedire l’entrata: appostati a’ suoi usci, e di’ a chi volesse opporsi, che il tuo piede vi prenderà radice, fino a che ottenuta non abbia udienza.
Viol. Mio nobile duca, se ella è così in preda al suo dolore, come si racconta, son sicuro che non vorrà vedermi.
Duc. Mena rumore, abbandona ogni riguardo, piuttostochè ritornare senza aver ottenuto nulla.
Viol. Ma se poi sono ammesso, che cosa le dirò?
Duc. Svelale tutta la violenza del mio affetto: falla meravigliare colla esposizione della mia tenerezza. Tu le porrai dinanzi una pittura energica dei miei patimenti, ed essa la riguarderà con maggior interesse, quando tu sia il messaggere, che non farebbe se fossi un altro di men lieto aspetto.
Viol. Questo è quello che non credo, signore.
Duc. Caro fanciullo (perchè sarebbe un mentire il chiamarti uomo), credilo. Le labbra di Diana non son più fresche, nè più vermiglie delle tue. La tua voce somiglia a quella di una giovine vergine, limpida e sonora; e tutto ti fa atto a compiere le parti di femmina. La tua stella ti destina ad essere il fortunato agente in questo negoziato. — agli (altri) Accompagnatelo in quattro o cinque, e anche tutti se volete, perchè per me non sto mai meglio di quando son solo. — (a Viol.) Cerca di riuscire in questo messaggio, e vivrai indipendente e felice, al pari del tuo signore; la sua fortuna diverrà tua.
Viol. Vagheggierò come meglio posso l’amante vostra (a parte) e nondimeno intraprendo una cosa assai ardua! Quale che siasi la parte a cui la fortuna mi costringe, il mio cuore eleggerebbe soltanto quella di sua sposa. (escono)
SCENA V.
Una stanza nella casa di Olivia.
Entrano Maria e il Villico.
Mar. Su, dimmi dove sei stato, o non aprirò le mie labbra neppure della larghezza di un pelo di cinghiale per iscusarti; la mia signora ti farà appiccare per punirti della tua assenza.
Vil. Faccia ciò che desidera: chiunque è ben appiccato in questo mondo, non deve più temere di mutar colore.
Mar. Contaci sopra.
Vil. Nè di voler persone che l’infastidiscano.
Mar. Ma se anche non sarai appiccato per esser rimasto tanto tempo assente, sarai almeno cacciato di qui: non vale tal disgrazia per te, quanto l’appiccatura?
Vil. Per verità, una buona appiccatura previene molti guai, come fra gli altri quello di un cattivo matrimonio. E quanto all’essere cacciato, l’estate mi provvederà.
Mar. Sei risoluto dunque?
Vil. Risoluto sopra due cose.
Mar. Talchè se l’una manca, l’altra ti resta; o se entrambe ti mancano, cadi senza poterti rialzare.
Vil. Ciarliera insulsa, vattene; se ser Tobia volesse lasciare il vino, tu saresti un volume di carne d’Eva della più ingegnosa che possa trovarsi in Illiria.
Mar. Taci, furfante: non aggiungere una parola intorno a ciò; ecco la mia signora; farai bene pensando al modo di scusarti (esce: entrano Olivia e Malvolio)
Vil. Spirito, s’è il tuo buon piacere, ispirami sagaci follie. Coloro che credono di possederti, non sono spesso che insensati, ed io che sono sicuro di non averti, potrei esser un uomo di senso: perocchè cosa dice Quinapulus? Un pazzo di spirito val meglio di uno spirito pazzo. — Dio vi benedica, signora.
Ol. Fate escire i dementi.
Vil. Non udite, amici? Conducete altrove la signora.
Ol. Vattene, pazzo indiscreto, diventi ogni di più inurbano.
Vil. Due difetti, signora, che il vino ed i buoni consigli ammonderanno. Ma voi mi diceste ch’io era demente...
Ol. E comandai che ti facessero escire.
Vil. Immenso errore, signora: cucullus non facit monachum. Sarebbe come dire che porto la divisa dei pazzi nel cervello. Buona madonna, datemi licenza di provarvi che siete voi la pazza.
Ol. Forsechè lo potreste?
Vil. Con ogni facilità, buona madonna.
Ol. Provate.
Vil. Bisogna prima ch’io vi catechizzi. — Mio buono e piccolo sorcio di virtù, rispondetemi.
Ol. In mancanza d’altro sollazzo lo farò.
Vil. Perchè piangi tu, buona madonna?
Ol. Per la morte di mio fratello, buon pazzo.
Vil. Credo che la sua anima sia all’inferno, madonna.
Ol. Io so ch’ella è in cielo, pazzo.
Vil. Più pazza voi, madonna, a piangere perchè l’anima di vostro fratello è in cielo. — Guidate via il pazzo, gentiluomini.
Ol. Che pensate voi di costui, Malvolio? Non si emenderà egli?
Mal. Egli continuerà così fino alle agonie della morte. L’infermità che fa deperire il savio, può solo guarire i dementi.
Vil. Dio vi mandi, signore, una subita infermità, onde guariate! Ser Tobia giurerà ch’io non sono una volpe, ma egli non oserebbe asserire che voi non siate un cervello vuoto.
Ol. Che rispondete a ciò, Malvolio?
Mal. Stupisco che Vostra Signoria possa trovar diletti in sì insulsi motti: io vidi costui abbattuto l’altro giorno dal buffone più comune, ch’ha tanto acume in testa, quanto se ne racchiude in una pietra. Vedete, egli è di già confuso: se voi non rideste, e non gli forniste materia di diporto, ei non saprebbe che dirsi. Dichiaro ch’io reputo tutti gli uomini sensati che applaudiscono agli sciocchi discorsi di tale specie di gente, come i buffoni medesimi di quelli di cui solleticano la stoltezza.
Ol. Oh voi avete troppo amor proprio, Malvolio, e poco buon gusto. Chiunque è generoso, gioviale e puro di coscienza, prende per freccie senza pungolo quei motti, che voi riguardate come palle da cannone. Non v’è alcuna malignità in un buffone di professione, che celia continuamente; e non v’è fiele negli scherzi d’un uomo conosciuto per savio e discreto, quand’anche ei si piacesse nel censurare.
Vil. Mercurio ti conceda il dono di mentire, poichè dici così bene dei pazzi! (rientra Maria)
Mar. Signora, v’è alla porta un giovine gentiluomo che desidera molto di parlarvi.
Ol. Per parte del Conte Orsino, non è vero?
Mar. Non lo so, signora: è un bel giovine con un gran seguito.
Ol. Chi lo trattiene alla porta?
Mar. Ser Tobia, signora, lo zio vostro.
Ol. Fatelo partire, Ve ne prego, ei non compie che opere insensate: vergogna a lui. (esce Maria) Va tu pure, Malvolio, e se è un messaggiero del conte, di’ che sono inferma, o che non sono in casa; adopera ogni mezzo, purchè lo licenzi. (Mal. esce) Ora voi vedete, messere, (al Vil.) come i vostri scherzi divengono scipiti; e spiacciono a tutti.
Vil. Tu parlasti per noi, madonna, come se il tuo primogenito fosse un insensato: Giove voglia empire il suo cranio di polpa, perocchè qui viene uno dei tuoi parenti ch’ha una ben debole pia mater.
Ol. Sull’onor mio, credo che sia mezzo ubbriaco. — (entra ser Tobia Belch) Chi è alla porta, zio?
Tob. Un gentiluomo.
Ol. Un gentiluomo? Qual gentiluomo?
Tob. È un gentiluomo... maledizione sulle aringhe!... Come va, Buffone?
Vil. Ser Tobia, ottimo.
Ol. Zio, zio, come caduto sì per tempo in tale letargo?
Tob. Al largo? Vi dico che non è al largo, ch’è alla porta.
Ol. Ma chi è?
Tob. Fosse anche il diavolo, non lo curo. Potete credere a quello che dico: è tutt’uno, è tutt’uno. (esce)
Ol. A che cosa rassomiglia un uomo ubbriaco, pazzo?
Vil. A un uomo annegato, passato per gli stadii della demenza e della frenesia: un bicchiere di più quand’è riscaldato dal vino, lo rende matto, un altro frenetico, un terzo lo annega.
Ol. Va a cercare qualcuno che vegli sopra mio zio, perchè egli versa nel terzo stadio da te descritto: annegato è già: tiengli dietro.
Vil. Ei non è fin qui che frenetico, madonna, e il pazzo avrà cura d’esso. (esce; rientra Malvolio)
Mal. Signora, quel giovine giura che parlerà con voi. Gli dissi ch’eravate inferma, e rispose che voleva saperlo dalla vostra bocca; gli dissi che dormivate, e rispose ch’avrebbe aspettata che vi destaste. Che altro gli si potrebbe aggiungere? Egli è armato contro ogni obbiezione.
Ol. Ditegli ch’io non voglio parlar seco.
Mal. Gliel’abbiam detto, ed ha risposto che si sarebbe messo a sbarra della vostra porta, nè se ne sarebbe partito, senza prima avervi veduta.
Ol. Che razza d’uomo è costui?
Mal. Appartiene all’umana.
Ol. Che modi ha?
Mal. Pessimi: vuoi parlare con voi, vogliate o non vogliate.
Ol. Qual’è il suo aspetto, quale la sua età?
Mal. Non ha ancora tanti anni da poter essere chiamato uomo, nè è abbastanza giovine, perchè lo si possa dire un fanciullo: è come un frutto verde, che comincia ad arrossare in qualche parte; ha poi un bel viso e parla con alterigia: si direbbe che il latte di sua madre non fosse ancora escito del tutto dalle sue vene.
Ol. Fatelo venire, e chiamate la mia donzella.
Mal. Maria, la signora vi vuole. (esce; rientra Maria)
Ol. Datemi il mio velo: gettatelo sopra il mio volto: acconsentiamo ad udire una volta ancora l’ambasciata d’Orsino. (ent. Viola)
Viol. Dov’è l’onorata signora di questa casa?
Ol. Parlate a me, io ti risponderò per lei: che volete?
Viol. Raggiante, divina e impareggiabile bellezza... (a Mar.) Ma vi prego di dirmi se è la signora della casa, perchè io non l’ho mai veduta, e mi dorrebbe di recitare inutilmente la mia arringa che, oltrechè è assai ben scritta, m’è costata molta fatica per apprenderla a mente. Generose bellezze, non mi fate villanie, perchè io sono assai sensibile alle offese.
Ol. Per parte di chi venite, signore?
Viol. Non posso dir che quello che ho appreso, e tal domanda mi distoglie dal mio ufficio. Amabile signora, ditemi se siete voi qui la padrona, ond’io possa procedere nel mio discorso.
Ol. Siete qualche commediante?
Viol. No, sinceramente parlandovi, quantunque però (e lo giuro per gli artigli della malvagità) non sia quello che rappresento. Ma siete voi la padrona?
Ol. Se me a me stessa non rubo, lo sono.
Viol. Certo, se lo siete, rubate a voi medesima: perocchè quello ch’è in voi per farne dono, non è in voi per esser tenuto in serbo. Ma ciò esce dal mio messaggio. Io debbo prima tesservi le vostre lodi, e poi dichiararvi l’oggetto per cui venni.
Ol. Entrate addirittura in quest’ultima cosa. La prima è inutile.
Viol. Ho fatto gran fatica ad imparar questo messaggio, ed è molto poetico.
Ol. Sarà dunque una finzione, e vi prego di riserbarvela. Mi fu detto che facevate molto rumore alla mia porta, e v’ho permessa l’entrata più per vedervi, che per intendervi. Se non siete insensato, ritiratevi; se possedete la vostra ragione, siate breve: non mi sento in voglia di conferire a lungo con voi.
Mar. Volete spiegar le vele, amico? Ecco la via.
Viol. No, mio bel mozzo, intendo restar qui in rada un altro po’ di tempo ancora.
Ol. Dichiarateci le vostre intenzioni.
Viol. Mi fu commesso un messaggio.
Ol. Avrete certo qualche cosa di ben fatale da dirmi, poichè cominciate con tanta timidezza. Spiegate l’oggetto di questo vostro messaggio.
Viol. Esso non dev’essere,inteso che da voi; io non vi reco nè dichiarazione di guerra, nè imposizione di taglie; vengo coll’olivo alla mano, e le mie parole, come l’oggetto della mia ambascerìa, son tutte di pace.
Ol. Cominciaste nondimeno in modo assai aspro. Chi siete? Che volete?
Viol. Se mi son mostrato inurbano, era costretto di farlo. Quel ch’io sono e ch’io voglio, sono cose segrete come l’onore d’una vergine; materie sacre, che voi sola potete intendere, e che sarebbero profane per ogni altro.
Ol. Lasciateci soli. — Udiremo questi sacri segreti (Mar. esce) Ora, signore, qual è il vostro testo?
Viol. Dolcissima madonna...
Ol. Testo consolante, e sul quale si possono dire molte cose. Dove sta la vostra dottrina?
Viol. Nel seno d’Orsino.
Ol. Nel suo seno? In qual capitolo d’esso?
Viol. Per rispondervi con metodo, nel primo del suo cuore.
Ol. Ah! l’ho letto, ed è tutta una bugia. Avete null’altro da aggiungere?
Viol. Cara signora, lasciatemi vedere il vostro viso.
Ol. Avete qualche ambasciata del vostro signore da dirigere al mio viso? Eccovi ora fuor dei cardini, e noi squarcieremo la tenda, per mostrarvi il nostro ritratto. Guardate, signore: così direte quello ch’era, allorchè m’avete veduta: non è esso ben fatto? (svelandosi)
Viol. Mirabilmente, signora.
Ol. È incolorato saldamente per resistere al vento e alla pioggia?
Viol. È la bellezza stessa, vaga mescolanza di rose e gigli: e la mano delicata ed esperta della natura, n’ha ella stessa impastate le tinte. Signora, voi siete la più crudele fra le beltà che respirano, se recate tante attrattive nel sepolcro, senza lasciarne alcuna copia nel mondo.
Ol. Oh! non avrò il cuore così duro, e farò molte copie della mia beltà. Ella sarà soggetta ad inventario, ed ogni sua parte verrà nominata nel mio testamento: per esempio, item, due labbra abbastanza vermiglie; item, due occhi grigi colle loro palpebre; item, un collo, un mento, e così del resto. Foste qui mandato per far la mia stima?
Viol. Veggo che siete molto superba, ma si annidasse in voi anche Lucifero, il mio signore v’ama. Oh! un tal amore merita d’essere ricompensato, se pur foste incoronata e acclamata l’incomparabile meraviglia del mondo.
Ol. Come mi ama egli?
Viol. Con adorazioni, flutti di lagrime, gemiti che intronano l’amore, e sospiri di fuoco.
Ol. Il vostro signore conosce le mie disposizioni, e sa che non posso corrispondergli. Nondimeno lo credo virtuoso, e m’è noto che egli appartiene ad una schiatta illustre. Egli possiede la giovinezza nel suo pieno fiore: gode i suffragi di tutti; è liberale, dotto, prode, aggraziato della persona: ma in onta di tante doti, io non posso affezionarmegli, ed è già molto tempo ch’ei dovrebbe saperselo.
Viol. S’io vi amassi con tutta la passione del signor mio, e menassi come lui una vita dolorosa, non troverei alcuna ragione, alcun senso nel vostro rifiuto, e nol concepirei.
Ol. E che fareste?
Viol. Innalzerei una capanna di salici vicino alla vostra porta, e invocherei l’anima della mia vita in quella dimora; ivi comporrei poemi sull’amor disprezzato, e canterei con tutta la lena, nel profondo della notte, facendo risuonare il vostro nome per le valli e pei colli, e costringendo l’eco loquace a dir perpetuamente Olivia! Voi non potreste trovar riposo nè per aria, nè per terra, se non aveste avuto pietà di me!
Ol. Tanto fareste? A qual famiglia appartenete?
Viol. Ad una che è al disopra della mia fortuna, quantunque la mia fortuna sia lieta. Sono gentiluomo.
Ol. Tornate dal vostro signore; io non posso amarlo. Fate che cessi dall’infestarmi, o mi mandi voi soltanto per istruirmi del partito a cui s’è appigliato. Addio, vi ringrazio delle vostre fatiche, e vi prego di godere in contemplazion mia questo piccolo dono.
Viol. Non sono un mercenario, signora; tenetevi la vostra borsa: è il mio padrone e non io che ha bisogno di ricompensa. Possa l’amore mutare in pietra il cuore che voi apprezzerete, e l’ardor vostro come la passione del mio padrone, non trovi a sua volta che disprezzo! Addio, beltà crudele. (esce)
Ol. A qual famiglia appartenete? Ad una che è al disopra della mia fortuna, sebbene la mia fortuna sia lieta. Son gentiluomo. — Sì, lo giurerei che lo sei. Il tuo linguaggio, il tuo aspetto, i tuoi atti, i tuoi sentimenti lasciano travedere stemmi gentilizii. — Non corriamo però troppo, se pure il messaggere non divenisse il padrone! In qual guisa si può così subitamente prendere il contagio? Mi pare di sentire tutte le perfezioni della tua giovinezza insinuarsi entro i miei occhi, amabile cavaliere. Ebbene, sia. — Olà, Malvolio!.... (rientra Malvolio)
Mal. Che mi comandate, signora?
Ol. Corri dietro a quel messaggere del conte, che mi lasciò qui un anello in onta mia: digli che non lo voglio. Raccomandagli bene di non lusingare il suo padrone, e di non alimentare la sua speranza: per lui non sono. Se quel giovine vuol ritornare, dimani mattina gli spiegherò le ragioni del mio rifiuto. Va, presto, Malvolio...
Mal. Corro, signora. (esce)
Ol. Non so quel ch’io faccia, e temo che i miei occhi adulatori m’offuschino l’intelletto. Destino, mostrami il tuo potere: noi a noi non comandiamo. Quel che è decretato dalla sorte deve necessariamente accadere, ed agli avvenimenti io m’abbandono. (esce)