La favorita del Mahdi/Parte I/Capitolo XI
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CAPITOLO XI. — La vendetta di Elenka.
Quando giunsero ai primi palmeti, il sole cominciava a nascondersi dietro le immense ombrelle dei colossali baobab. L’oscurità cominciava a farsi sotto le cupe volte di verzura dei tamarindi e delle palme deleb e il silenzio più assoluto si succedeva all’allegro cinguettio dei pivieri e dei pappagalli che si affrettavano a guadagnare i loro nidi e ai clamori bizzarri delle innumerevoli bande di scimmie che eseguivano le più strane giravolte sui rami.
Le due rivali, legati i mahari ai tronco di una acacia gommifera, presero le carabine e si cacciarono risolutamente nel folto della foresta. Prima però di mettersi in cammino, Elenka gettò uno sguardo nella pianura e non potè frenare un gesto di diabolica gioia, vedendo i due dongolesi che si avanzavano strisciando come serpenti, fra le erbe.
— Avanti, comandò ella seccamente.
Percorsero un seicento passi, aprendosi con gran fatica il passo fra i cespugli e gli arrampicanti che s’intrecciavano in tutte le guise immaginabili, e si arrestarono ai piedi di un grande tamarindo, il quale stendeva i suoi giganteschi rami su di una piccola radura.
Le due rivali, di comune accordo, caricarono con grande attenzione le carabine, dopo di aver fatto scoppiare tre o quattro capsule per accertarsi del buono stato della batteria.
— Senti, disse Fathma con voce ferma e così glaciale che faceva fremere. È qui, in questa foresta che una di noi lascierà le ossa a cibo dei leoni e delle formiche termiti. Se tu hai paura vattene, ma vattene a Chartum, nè ardisci comparirmi giammai dinanzi a disputarmi l’amore dell’eroico Abd-el-Kerim. Lo vedi, io sono ancor generosa come il leone.
— Non parlarmi di questo, Fathma, rispose la greca con disprezzo. Voglio vedere il superbo tuo capo deformato dalla palla della mia carabina.
— Sta bene, ma ti giuro che fra pochi minuti te ne pentirai.
— Povera Fathma, disse Elenka ironicamente.
— Lascia la ironia e preparati invece a morire. Spicciati, maledetta greca, poichè fra poco non ci si vedrà più, e gli abitanti della foresta usciranno dai loro covi in cerca di preda. Io prendo questo sentieruzzo che va a dritta, tu prendi quel sentiero che va a sinistra e passati che sieno cinque minuti, mettiamoci ambedue in caccia.
— Addio, almea. Fra dieci minuti voglio averti nelle mie mani.
Fathma alzò le spalle con disdegno e prese il sentiero di destra allontanandosi lentamente e senza produrre il menomo rumore. Elenka la guardò a lungo sogghignando, si gettò sul sentiero di sinistra, poi, quando fu persuasa che l’almea era tanto lontana da non udirla, invece d’imboscarsi come era stato stabilito, si mise a correre come un antilope verso il limite della foresta.
Corse così per quattro minuti poi emise un fischio debole ma penetrante come quello di un serpente. S’udirono i rami muoversi impercettibilmente, i cespugli s’aprirono con somma precauzione e comparvero i due dongolesi.
— Eccoci, rispose uno di essi. Che dobbiamo fare?
— State bene attenti, disse Elenka con un filo di voce. La mia rivale trovasi imboscata a seicento passi di qui, aspettando che io apparisca per spararmi addosso. Bisogna che io l’abbia in mia mano inerme, anzi legata.
— Non sarà tanto difficile.
— Anzi difficilissimo. È armata di una carabina ed è più astuta di un serpente. Se voi non riuscite ad avvicinarvi a lei senza che abbia ad accorgersene, correrete pericolo di ricevere una scarica in pieno petto.
— Lascia pensare a noi, disse il dongolese. Press’a poco dove trovasi imboscata?
— Nel mezzo di un gruppo di acacie a quanto mi parve.
— Tu non puoi seguirci, poichè una donna è impossibile che passi dove passerà un uomo. Quando udrai il nostro fischio accorri e troverai l’almea legata.
— Venti talleri se voi riuscite a farla prigioniera.
Non ci voleva di più per incoraggiare i dongolesi. Essi si cacciarono sotto le macchie, scostando lentamente le foglie e i rami, strisciando come serpenti o inerpicandosi sugli alberi quando riusciva a loro impossibile trovare un passaggio, tirandosi su l’un l’altro e senza fare più rumore d’una formica bianca. D’un tratto il profondo silenzio che regnava sotto la foresta fu rotto dall’urlo dello sciacallo.
I due dongolesi s’arrestarono di botto guardandosi in faccia l’un l’altro.
— Hai udito, Alek? chiese sottovoce il più anziano.
— Perfettamente, Nagarch, rispose l’altro.
— Che ne dici?
— Che questo urlo non fu emesso da uno sciacallo.
— È quello che penso pur io. Scommetterei che lo mandò l’almea per ingannare la greca e tenerla lontana.
— Deve essere così. Procediamo cautamente e stiamo attenti all’urlo.
Ripresero la silenziosa marcia guidati dal lamentevole urlo che di tratto in tratto udivasi. Dopo di aver percorso un cinquecento passi, dall’alto di una palma dum scorsero qualche cosa di bianco in mezzo a un fitto gruppo di bauinie.
— Eccola là l’almea, disse Nagarch.
— La vedo, rispose Alek. Ora dividiamoci e stiamo bene attenti alla sua carabina. Io vado di qui seguendo le bauinie e tu va dietro a quelle acacie. Su spicciamoci.
Nagarch apparve fra le acacie, e Alek strisciò diritto verso la macchia, nel mezzo della quale stava sdraiata l’almea colla carabina puntata dinanzi a sè. Di quando in quando mandava il lugubre urlo dello sciacallo così bene imitato da crederlo naturale.
Già Alek era giunto a soli pochi passi di distanza, quando un ramo si spezzò sotto i suoi piedi. L’almea scattò in piedi colla rapidità del lampo, vide il dongolese, puntò rapidamente l’arma e fece fuoco.
Alek girò su se stesso portando una mano al petto, poi si scagliò innanzi con impeto disperato rigando la via di sangue che sgorgavagli abbondante da un fianco.
— Arrenditi! urlò egli.
Fathma aveva impugnato la carabina per la canna e assestò un colpo sì tremendo al dongolese, che cadde al suolo colle cervella schizzanti dal cranio spaccato. Gettò un urlo, ma uno solo, un urlo straziante, supremo, poi s’aggomitolò su sè stesso e non si mosse più.
— Sono tradita, mormorò l’almea. Ah! maledetta greca.
Ella si gettò fuori della macchia con un pugnale in mano, ma non fece dieci passi che si sentì afferrare per di dietro e gettare violentemente al suolo. Nagarch, poichè era lui, le pose un ginocchio sul petto, le prese ambe le mani serrandole fra le sue come in una morsa, e dopo di averle intorpidite con una violenta torsione le legò per bene.
L’almea quantunque stordita dal colpo e sorpresa dall’improvviso attacco si dibattè furiosamente cercando di risollevarsi ma le fu impossibile. Si mise a ruggire come una leonessa prigioniera.
— Sta ferma, le disse brutalmente il dongolese percuotendola col rovescio del suo scudo. Se continui a muoverti tornerò a torcerti le braccia fino a slogartele.
— Lasciami andare, maledetto da Dio! urlò l’almea digrignando i denti. Lasciami andare, vigliacco!
Il dongolese per tutta risposta si mise a fischiare.
— Lasciami andare, orribile mostro, o io ti sbrano colle mie unghie!
— Sta in guardia, almea, disse Nagarch. Fra poco verrà una donna che ti farà pagar caro l’amore che tu nutri per quell’arabo e ti farà rimpiangere la tua bellezza.
— Chi? chi? chiese con voce strozzata Fathma.
— B’allai! La bella greca, la rivale che volevi ammazzare.
L’almea fece un soprassalto così brusco che per poco il dongolese non fu rovesciato.
— Uccidimi piuttosto che darmi a lei! esclamò la sventurata. Cacciami l’jatagan nel petto, ma non gettarmi fra le braccia di quella maledetta!
— Sei pazza! La bella greca pagherà la tua cattura come una principessa.
— Se tu mi lasci libera ti darò tanti talleri quanto tu pesi, se ti rifiuti Dhafar pascià ti farà morire sotto il corbach (staffile).
— Non ho che una parola e questa parola la diedi alla greca, d’altronde ecco che viene la tua rivale.
Infatti Elenka veniva innanzi correndo come una pantera, stringendo un corbach di pelle d’ippopotamo lungo e flessibile. Un sorriso atroce, un sorriso di gioia sconfinata errava sulle sue labbra e negli occhi balenavagli un lampo feroce, un lampo spietato. Gettò un grido di trionfo alla vista dell’almea che contorcevasi come un serpente sotto i ginocchi del dongolese.
— Ah! sei in mia mano, finalmente! esclamò ella precipitandosi verso la rivale col corbach alzato.
— Miserabile! urlò l’almea ebbra d’ira, tendendo le pugna verso di lei.
— Dov’è il tuo compagno, chiese la greca a Nagarch.
— Questa furia l’ha ammazzato, rispose egli.
— Ah! Tu ammazzi la mia gente, dannata almea?
— Sì, e se potessi farei a brani anche te! gridò Fathma. Vattene di qua, vigliacca, vattene via traditora, maledetta, assassina.
— Nagarch, legala al tronco di quel tamarindo. Il dongolese afferrò fra le sue robuste braccia l’almea che esausta di forze non era più capace di opporre resistenza e la legò al tamarindo con forti corregge di pelle. La greca si mise a sogghignare.
— Che direbbe Abd-el-Kerim se ti vedesse così? diss’ella beffardamente.
— Taci, non nominarmelo almeno. Vuoi uccidermi, giacchè per tradimento sono caduta nelle tue mani, uccidimi ma non tormentarmi.
— Ah! Credi tu che una greca si vendichi d’una rivale uccidendola? No, Fathma non sperarlo da me, che ti esecro e che giurai d’essere senza pietà. Giacchè il parlare di Abd-el-Kerim ti produce l’effetto di una stretta al cuore, parliamo di lui.
— Non ti ascolterò, jena codarda.
— Non me ne importa. Sai dove trovasi il tuo amante così misteriosamente sparito?
— Non te lo chiedo. Hassarn lo troverà e guai a coloro che l’avranno rapito, guai!
— Se tu nol sai, Abd-el-Kerim trovasi in mia mano!...
L’almea provò una scossa come fosse stata tocca da una pila elettrica. Impallidì orribilmente, chiuse gli occhi e li riaprì che roteavano in un cerchio sanguigno.
— No!... tu menti!... tu menti! ripetè ella con disperazione.
— Te lo giuro Fathma. Trovasi in un sotterraneo delle rovine di El-Garch, e lo tormento dì e notte dissanguandolo lentamente.
— Ah! feroce iena!... Ma che vuoi farne?
— Voglio farlo morire, ma farlo morire a oncia a oncia.
— Ma io lo salverò.
— Non ti lascerò il tempo. Domani sarai uno scheletro roso dal dente dei leoni e dei sciacalli.
L’almea rabbrividì e si sentì prendere dallo spavento.
— Mostro! balbettò la disgraziata.
— Orsù, vendichiamoci, disse la greca spietatamente. Tu spregevole almea hai alzato gli occhi fino al fidanzato di una greca di sangue nobile. È un’offesa che non si lava che a colpi di corbach e io strazierò le tue belle carni colla correggia del mio staffile.
L’almea fece uno sforzo supremo per ispezzare i legami e gettarsi su quel mostro in gonnella, ma le corde resistettero alla potente torsione. Ella si dimenò forsennatamente facendo crocchiare le ossa delle braccia.
— Non toccarmi! non toccarmi! rantolò.
Elenka, si avvicinò alla rivale, con un violento strappo le lacerò la ricca farda trapunta in oro e l’habbaras di seta azzurrina che la copriva, e su quelle carni bronzine e vellutate applicò un furioso colpo di corbach che tracciò una riga violacea.
L’almea cacciò fuori un urlo strozzato, furibondo, un urlo d’angoscia, di vergogna, d’ira e si piegò come fosse stata spezzata in due, cogli occhi fuor dall’orbite e con una bava sanguigna sugli angoli delle labbra contorte per lo spasimo.
— Basta, disse il dongolese. È troppo lacerarle quel seno da urì.
La greca alzò una seconda volta lo staffile, ma lo riabbassò e lo gettò lungi da sè. L’almea era svenuta e rimaneva sospesa per le corde.
— Ecco come si vendica una greca, disse Elenka con un sorriso feroce.
— Che facciamo ora di lei? chiese Nagarch. Devo staccarla.
— Mai più, la lasceremo qui sola e legata.
— Ma le tenebre cominciano a calare e fra pochi minuti sarà notte.
— E che importa a me se fa notte.
— Voglio dire che i leoni, le pantere, le jene e gli sciacalli usciranno dai loro covi e che si getteranno sull’almea.
— È quello che desidero, disse la greca.
— Oh! fe’ il dongolese. E voi lascerete divorare quella bella donna? Ricordatevi che vostro fratello vi ordinò di condurgliela.
— Mio fratello non rivedrà più quest’almea. Se questa donna scampa potrebbe ancora attraversarmi la via e diventare mia rivale. Spenta che ella sia, Abd-El-Kerim perderà ogni speranza, ritornerà per forza da me e mi amerà ancora.
— Ma che dirà vostro fratello?
La greca trasse dalla cintola una borsa rigonfia e la pose nelle mani del dongolese.
— Nagarch, gli disse. Qui vi sono cento talleri e altrettanti ne avrai se tu non lascerai uscire dalle tue labbra una sola parola di quanto hai fatto e veduto. Noi diremo a Notis che ci fu impossibile fare prigioniera Fathma perchè trovasi sotto la protezione di Dhafar pascià e attendata proprio nel mezzo del campo egiziano.
— Sarò muto come un morto. Ah! voi siete ben terribile. Non ho mai incontrato in vita mia una donna simile.
— Almeno non dirai più così. Andiamo che le tenebre calano.
Il dongolese le accennò il cadavere di Alek. Si avvicinò al compagno, scavò coll’jatagan una fossa e ve lo seppellì colla faccia rivolta alla Mecca come prescrive il Corano. Quando tornò, Elenka era ferma dinanzi all’almea, colle braccia incrociate.
— Andiamo, diss’egli ponendosi in cammino.
— Povera Fathma! esclamò Elenka con ironia. È atroce perdere il fidanzato e la vita in un sol colpo!
Soffocò uno scroscio di risa, raggiunse il dongolese e pochi minuti dopo scomparivano in mezzo alle palme, lasciandosi dietro la vittima.
Era trascorsa una mezz’ora: quando la povera Fathma tornò in sè. Riaprì gli occhi strambasciati e roteanti in un cerchio di sangue, si raddrizzò con impeto felino addossandosi contro il ruvido tronco del tamarindo e si guardò attorno con un misto di spavento, di ansietà e di profonda sorpresa.
Non vide nulla. Provava sulle carni un bruciore infernale, sentiva come un peso enorme che la accasciava, che le mozzava il respiro e la testa che le girava come una fionda. In sulle prime credette di essere in preda ad un terribile incubo.
Tornò a guardarsi attorno. Le parve impossibile di trovarsi sola, le parve impossibile di non vedersi dinanzi la sinistra figura della vendicativa Elenka col corbach in mano in atto di straziarle le nude carni. Credette che la rivale si tenesse celata dietro a qualche tronco d’albero, ma dovette ben presto convincersi che era affatto sola in mezzo alla foresta. Indovinò subito a quale orribile supplizio l’aveva destinata e tremò tutta d’angoscia e di spavento.
Le balenò in mente la fuga prima che la notte calasse e che le jene e i leoni venissero a divorarla. Radunò tutte le sue forze triplicate dalla disperazione e si dimenò come una pazza furiosa al punto di fare quasi scoppiare la pelle sotto la tensione dei muscoli; i polsi, contorti s’insanguinarono ma le corregge resistettero. Si mise a chiamare aiuto, e a urlare destando tutti gli echi delle foreste ma nessuno rispose alle disperate invocazioni. Uno spavento inesprimibile s’impadronì di lei; si vide perduta ed emise uno straziante gemito.
La notte calava rapida, rapida.
Il sole declinò all’occidente dopo di aver illuminato le più alte cime della foresta e succedette il crepuscolo, vago, rossastro, brevissimo, che andò subito oscurandosi lasciando il posto alle tenebre che s’addensavano già sotto la vôlta di verzura.
Gli uccelli, dopo di aver lanciato le ultime note, si tacquero; le scimmie zittirono, gl’insetti ronzanti s’addormentarono e in capo ad una mezz’ora la gran foresta divenne silenziosa e si seppellì fra l’oscurità.
Fathma, man mano che gli ultimi bagliori del crepuscolo sparivano, sentiva accrescere lo spavento. Fra poco quel silenzio sarebbe stato rotto dagli scrosci di risa delle iene, dalle urla dei sciacalli, dal possente ruggito dei leoni e dai sibili dei serpenti e lo spaventevole supplizio sarebbe cominciato. Oh! quanto avrebbe dato per arrestare quelle tenebre che s’addensavano sempre più.
Fece appello a tutto il suo coraggio e frenando i tumultuosi battiti del cuore s’irrigidì contro il tronco dell’albero, rattenendo persino il respiro onde non attirar l’attenzione delle fiere, cogli occhi fissi sotto gli alberi e gli orecchi tesi per raccogliere il menomo rumore.
Passarono dieci minuti di angosciosa aspettativa. D’improvviso, a tre o quattrocento passi di distanza ecco scoppiare una gran risata che si avrebbe potuto credere emessa da una gola umana, da un negro in delirio, Fathma rabbrividì fino alla punta dei capelli nel riconoscere il riso sgangherato della jena.
Succedette un po’ di silenzio, rotto solo dal susurrìo delle grandi foglie delle palme che si accarezzavano vicendevolmente sotto i soffi del venticello notturno, poi echeggiò un altro scoppio di risa più vicino, un terzo a destra, un quarto a sinistra, poi un quinto, un sesto e in breve succedette un concerto capace di far morire di paura una donna meno coraggiosa dell’almea. Era ora un ridere spaventevole e ora un brontolìo rauco; ora erano i gemiti strazianti come di persone agonizzanti e ora un urlìo lugubre, diabolico. Fathma non ardiva fiatare e rimaneva immobile, confusa al tronco del tamarindo.
Il concerto non cessò un sol istante. Più volte un sciacallo si avvicinò all’almea e le urlò contro, ma senza ardire di assalirla; un fischio di lei bastava per fugare quegli animali eccessivamente vigliacchi.
D’un tratto udì il riso d’una jena avvicinarsi sensibilmente al tamarindo e poco dopo comparve un grosso animale dal mantello color cenere oscuro su cui risaltava una doppia fila di peli grossi ed irti che dall’occipite scendevano in linea retta sul dorso. Procedette col muso verso terra, con passo sciancato quasi da credere che fosso ferito e fissò due grandi occhi verdastri sull’almea che tremava in tutte le membra.
Era una jena mostruosa, la quale s’arrestò a pochi passi di distanza mandando atroci scrosci di risa. Fathma fe’ atto di slanciarsi, ma l’animale, al contrario dei suoi congeneri, s’avanzò e si mise a girare e rigirare attorno al tamarindo, come cercasse d’assalire a tradimento l’impotente vittima.
Lo spaventevole supplizio durò un quarto d’ora, durante il quale Fathma non ardì mai muoversi annichilita dallo spavento e dall’angoscia, poi la jena arrestò i suoi cerchi. Fissò la povera prigioniera, le mosse incontro, si rizzò sulle zampe posteriori e appoggiò le anteriori sullo spalle di lei accostando l’orribile bocca irta di denti, al suo volto.
Fathma gettò un urlo straziante, terribile e s’abbandonò fra lo zampe della belva che la circondarono lacerandole il feredgé.