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La figlia del re (Barrili)/XVI

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XVI

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— Ingrato! sì, ti ripeto ch’è un ingrato; — diceva uno di quei giorni il signor Demetrio a sua figlia, che si studiava di consolarlo della partenza di Virginio Lorini. — E non m’importa proprio niente che in certe cose mi abbia fatto il grande, il generoso, come un personaggio dell’antichità. Queste sono le grandezze dei momenti solenni, quando si recita per la galleria. Nelle piccole cose, nelle piccole, lo avrei voluto più gentile, il signorino, più amoroso verso chi gli ha fatto del bene. Infine, io l'ho ricevuto in casa mia, quando era alto così; l’ho quasi raccattato sulla strada, che non lo voleva nessuno. S’è tirato su fra queste quattro mura, si è fatto uomo per me. Mi ha servito fedelmente, non dico di no, con intelligenza, con probità, con amore; per vent'anni non ho avuto che a lodarmi di lui. Ed ecco, tutto ad un tratto, mi gira nel manico. Non vuol nessuno a comandargli, nessuno a vogargli sul remo, nessuno a metter bocca su ciò ch’egli fa. Un bell’orgoglio, ed anche una bella pretesa! Come fare a cambiar le cose, quando hanno preso un verso nuovo? Non ha avuto pazienza, lui, che aveva saputo sopportar ben altro.... il tuo rifiuto, per esempio. Ma sì, diciamo pure il tuo rifiuto. Non mi hai tu arricciato il naso, quando ti ho proposto il suo nome? [p. 242 modifica]

— E tu.... — disse Fulvia, turbandosi, — e tu gli hai detto?...

— No, non gliel ho detto; ma lo ha capito egualmente. Sfido io, se non doveva capire, dopo che io stesso gli avevo manifestato il mio desiderio di averlo per genero! Ma se non ha rinnegata la pazienza allora, che si trattava della sua felicità, perchè non usarne oggi, che si trattava della mia quiete? Non poteva mandar giù qualche amaro boccone, come ne ho mandati giù io, e più amari dei suoi? S’ha egli da andar fuori dei gangheri, per quelle cose che non c’è dato cambiare? Finalmente, di che si trattava? Di qualche parola poco misurata, di qualche osservazione poco opportuna; sciocchezze, a ben guardare, piccoli guai, che si sarebbero aggiustati per via. Perchè non prendere esempio da me? Ne ho avuta tanta io, di quella virtù necessaria!

— Povero babbo! — esclamò Fulvia, mettendogli una mano sulla spalla. — E son io la colpa di tutto.

— Non di tutto, non di tutto; — riprese il vecchio; — ma d’una parte, ammettiamolo pure. Ed anche, a confessarlo qui, ora, che nessuno ci sente, l’abbiamo fatta grossa, tra te e me, l’abbiamo fatta grossa.

— Non dire, babbo, non dire. Il tuo genero si è molto cambiato, non vedi? Vuol lavorare, e ci si è messo sul serio. Accettiamo questa condizione di cose, del resto, e non istiamo a pentircene; sarebbe un riconoscere che ne abbiamo rimorso. Se abbiamo fatto male in qualche cosa, l’espiazione pur troppo non manca.

— Ah! — gridò il vecchio, voltandosi a guardare la sua figliuola nel bianco degli occhi. — Così la vedi? Tu dunque ammetti....

— Che ho un dovere da compiere, babbo; — interruppe Fulvia, sollecita. — Il conte Spilamberti è il padre dei miei figli. Non sai tu quanto diano di forza i figli? tu che ne hai avuto tanta per amor mio? Ora quel che è fatto è fatto; non ritorniamo più sul passato. Siamo in due, che dobbiamo consolarti, ognuno a modo [p. 243 modifica] suo e nella propria misura, di ciò che hai sofferto. Animo dunque, babbo, e sopportiamo quest’altro dispiacere. Finalmente, vedi, il signor Lorini ha sentito anche lui di non poter rimanere. Io stessa, cogliendo con tanta furia l'occasione di ritornare accanto a te, di rifugiarmi nel nido, non ho pensato bene a tutte le conseguenze del fatto. Le ho vedute poi, ed egli pure le ha sentite, e si è sacrificato da galantuomo. È un cuor nobile, e si può, e si deve riconoscerlo tale. Ha aspettato il momento buono, ha colto il pretesto più ragionevole tra i tanti che s’erano già presentati, ed è andato via, correndo il rischio di sentirsi dire ingrato da te. Non lo credere, babbo; soffrirà più lui d’esser partito di qui, che non soffrirai tu di saperlo lontano. Ed è questo che mi dà un po’ di rimorso; perchè egli era avvezzo a considerare questa casa come sua.

— Sì, dici bene, proprio sua; — disse il signor Demetrio, con voce alterata. — Ne era l’anima, quel poveraccio! Ed è per questo che soffro.

— Ma a questo non c’è rimedio — replicò Fulvia, parlando il linguaggio della ragione. — Almeno io non ne vedo, se pure tu non vuoi che noi altri....

— Oh questo nemmeno per sogno! — interruppe il signor Demetrio. — Per te, figliuola, ho mandati giù gli amari bocconi. Il mio signor genero vuol rigare dritto stando a Mercurano? Tanto meglio, e ne avrò piacere. Ma per nessuna ragione io vorrei più separarmi da te, dal mio sangue, che diamine!...

— Ed io? ed io? — gridò Fulvia, intenerita. — Nessuno mi strapperà più dal tuo fianco. Troppe ambizioni mi hanno annebbiato il giudizio; ed ora non ne ho più che una, educare i miei figli ai buoni esempi del lavoro che solleva e della virtù che ricrea. Quando si pensa — proseguì la contessa, animandosi — quando si pensa che tanta gioventù inesperta non immagina la felicità se non lontana lontana, di là dai monti natali! e corre, e corre, alla regione dei sogni, dietro al fantasma che fugge via, sempre più [p. 244 modifica] allontanandosi quanto più facciamo strada per raggiungerlo! Qui, qui, dove siam nati, c’è tanto di bene! l’unico bene della vita, accanto alle tombe di quelli che non sono più, ma ancora e sempre nell’aria ch’essi hanno respirato, nelle consuetudini oneste in cui sono vissuti. —

E avrebbe proseguito dell’altro, la bella signora: ma vide la faccia di suo padre, che esprimeva un grande stupore, misto d’un senso di paura, e si fermò d’un tratto a mezza strada.

— Ti sembro un po’ matta, non è vero? — ripigliò poi con accento mutato.

— No, non dico questo; — rispose il signor Demetrio, che veramente non aveva detto nulla. — Ma per solito, figliuola mia, tu non sei così ricca di parole.

— Eh, quando ne vien l’occasione, perchè no? Sono dolente, ma anche contenta, sai, di poterti parlare così, dicendoti tutto quello che mi pesa sul cuore. E poi, se la vita insegna qualche cosa, non dobbiamo noi far vedere il profitto delle sue dolorose lezioni? Ma basta; sento il mio Guido che piange; andrò a vedere che cos’ha quell’altro sventurato prima del tempo. E le pianga almeno da bambino, tutte le sue lagrime, e gli restino pel buono della vita i sorrisi.

— Poetessa! — esclamò il signor Demetrio. — Ed è nata da me! O non me l’hanno barattata le Dame Inglesi di Lodi? —

Per quel giorno, intanto, tra sfoghi e consolazioni, aveva passato un po’ meglio il dolore dell’abbandono di Virginio Lorini. Il signor Demetrio, dopo tutto, non era un animale molto sensibile e capace di ritenere a lungo le impressioni ricevute; era piuttosto una vecchia chitarra, come volentieri diceva egli stesso di sè, rendendosi pienamente giustizia; sentiva il tempo e, come le variazioni del tempo, così sentiva i dolori della vita, ad intervalli. Da principio, trovò il modo di consolarsi in quel medesimo frastornamento quotidiano che gli cagionava il doversi occupare di tante e tante cose tralasciate da un pezzo e quasi dimenticate. La varietà dei generi era tanto [p. 245 modifica] cresciuta, che egli non ci si raccapezzava più. La cassa, poi, era un vero fastidio; tutte le sere doveva metter dentro quattrini.

— Denari! — borbottava, ricevendo i biglietti, le lire d’argento, i soldi e i soldoni di rame. — Denari! sempre denari! Al diavolo! — soggiungeva qualche volta, gittando i rotoli con atto di comica stizza, per modo che si rompeva l’involto, e le monete ne schizzavano fuori. — Quando sarà finita la musica? —

Queste erano chiacchiere, in fondo. I denari si sparpagliavano, ma nel grembo ferrato della cassa forte. E quella cura d’incassare la serbava sempre per sè. Al suo nobilissimo genero lasciava piuttosto quell’altra di tener d’occhio la vendita.

Era quella un’occupazione pel conte Attilio; il quale ci recò subito tutto il suo sentimento di superiorità, tutti i suoi istinti d’autorità. Voleva saper d’ogni cosa, e più che non sapessero tanti commessi invecchiati nel mestiere; dispensava consigli a destra e a manca, e quando gli si muoveva qualche osservazione rispettosa, non erano più consigli, ma ordini. Ben presto fu là dentro una gran confusione ed un continuo vocìo. Sotto il governo di Virginio Lorini non c’era neanche bisogno d’aprir bocca; ogni cosa andava da sè. Pure, tanta è la cattiveria umana, e così prevale nei cuori la soddisfazione per l’altrui male, che i più non guardavano al proprio danno, pur di rallegrarsi della cacciata di Virginio Lorini. Perchè infatti era stato cacciato; il conte Spilamberti era apparso, e da quel giorno il gran segretario, il taciturno iddio del Bottegone aveva incominciato a tremare sul suo piedistallo; finalmente era stato costretto a cedere il campo, e a tutti i suoi antichi soggetti era parso di respirare per la prima volta con libertà. Il successore gridava un po’ troppo; ma almeno, viva la faccia sua, parlava, faceva sentire il suono della sua voce; a certe ore, poi, sapeva ridere, far la burletta; inoltre, miracolo inaudito, alla fine del mese faceva una verifica di magazzino per semplice apparato, come uno che osservi una [p. 246 modifica] consuetudine senza prenderla sul serio, e mostrando negli atti svogliati, nel batter le labbra, nel ciondolar della testa, di non vedere nessuna utilità in quella cerimoniosa anticaglia.

E molte e molte altre cose parevano dar noia al signor conte, naufragato nell’industria; poco, infatti, si dava pensiero dei lardi e de’ formaggi, niente dell’appalto e della drogheria, dove era sempre offeso il suo delicatissimo olfatto e frequente la voglia di starnutire. Quanto alle pannine, ci si fermava qualche volta, ma per criticare la troppa importanza attribuita ai bordati e ai fustagni. Meglio, per affinità elettiva, si ritrovava tra le orerie; e meglio ancora nella cartoleria, dove gli occhi erano rallegrati da più gentili colori e dove la carta velina tramandava più soavi fragranze alle nobilissime nari. Della qual preferenza certamente doveva essergli grata, la formosa Maddalena. Dopo tutto, e forse perchè non poteva star sempre in cartoleria, il signor conte usciva ogni giorno a fare la sua calessata, un po’ di qua, un po’ di là nei dintorni, per iscoprir paese e sgranchirsi le membra. Pretesto e scusa a parecchie di quelle trottate erano i poderi della Castigliona; e così, sotto il copertoio della cura dei beni, passava la manìa girellona del conte Spilamberti, grande auriga nel cospetto di Dio, ma costretto per sua disgrazia a contentarsi d’un calessino, padronale sì, ma pur sempre di campagna.

Di Virginio, frattanto, nessuna notizia. Ma perchè ne avrebbe mandate, l’assente? Nel congedarsi, lo aveva pur detto al signor Demetrio: «Se vi bisogneranno schiarimenti, un biglietto a Bercignasco, e mi avrete sempre ai vostri ordini». Il signor Demetrio non aveva avuto bisogno di schiarimenti, e non aveva scritto il biglietto; Virginio Lorini, dal canto suo, non dava segno di vita. Perchè avrebbe egli scritto? per mostrar dolore di non ritrovarsi al Bottegone? per raccontare che si trovava bene fuori del Bottegone? L’una cosa e l’altra erano da evitare; la prima come una viltà, la seconda come [p. 247 modifica] una bugia. Ma al signor Demetrio quel silenzio spiaceva; e più gli spiaceva l'assenza del suo segretario. Non lo voleva dire, ma sentiva la mancanza di lui; sentiva il cambiamento intervenuto nelle proprie abitudini, sentiva la noia del doversi occupare di tante cose che non sapeva più fare; e sentendo tutto quel carico di noie, gli avvenne di farci una piccola malattia, durante la quale fu necessario affidare al suo genero le chiavi e la cura della cassa. Il conte Attilio accettò di buon grado l'incarico: la cosa doveva piacergli tanto più, in quanto che egli riusciva a mostrarsi sempre più utile. Per altro, appena il signor Demetrio si fu rimesco della sua indisposizione, egli fu pronto a restituirgli le chiavi. Ma il suocero non le volle più indietro.

— No, no, che serve? Continua tu ad occuparti anche della cassa; — gli disse il vecchio. — Tanto per non farci la ruggine, darò un’occhiata in fin di settimana ancor io; ma in verità non me la sento più di avere questo carico quotidiano sulle spalle. Vedo bene che son cose da giovani. —

E anche durò poco a dare l’occhiata settimanale. Non sapeva come ciò avvenisse; ma in quelle ispezioni la sua vista non era appagata. Sicuramente, prima d’allora si vedevano meglio disposte le carte, allineati meglio i rotoli delle monete. Il conte Attilio non aveva il genio dell’ordine; o forse non lo aveva che in testa, dove è certamente più necessario. Nel complesso, le cose andavano. La contabilità, dopo tutto, non è una scienza difficile come il calcolo infinitesimale, e un’oncia d’intelligenza e due di buon senso suppliscono a molti difetti, nella astrusa dottrina del perfetto finanziere.

Il male non era dunque da questa parte. Il male era piuttosto da un’altra, e non indugiò molto ad apparire. Si cominciò ad osservare che il nuovo segretario del Bottegone non era il più equanime, il più imparziale degli uomini. Egli non solamente trascurava qualche bottega e di qualche altra si occupava con soverchio [p. 248 modifica] interesse; ma di qui gridava troppo, trovando ogni cosa fatta male, e di là tutto andava benissimo, più che non sogliano andare comunemente le cose di questo povero mondo. E si paragonò un trattamento coll’altro, si fecero induzioni, giudizii temerarii, mormorazioni, a cui diede appiglio qualche imprudente discorso. C’era chi faceva troppo lusso, in Mercurano; spesucce, veramente, cose di poco conto, ma che pure non andavano bene; perchè lasciavano trasparire una condizione troppo più agiata dell’ordinario. Si era voluto sapere il come, e si era sentito parlare di gratificazioni date per lodevoli servigi. Ma che voleva dir ciò? Dov’erano i servigi più lodevoli, da meritare gratificazioni straordinarie? Non si trattava invece di parzialità bell’e buone? d’ingiustizie, di preferenze al bel sesso, alla gioventù, alla bellezza compiacente?

Sicuro, anche la bellezza compiacente era venuta in ballo. E si commentavano certe fermate più lunghe del signor conte da una parte del Bottegone, che non dall’altra, o nel mezzo; si notava che la bella Pasquati, non solo era molto orgogliosa della propria bellezza, ma ancora prendeva a trattare i suoi compagni di lavoro con una cert’aria di superiorità niente piacevole, e si mostrava inoltre più superbiosa cogli avventori che non fosse conveniente agli interessi del principale. Che sfacciata! e non aveva vergogna di fare quel che faceva? Ma che cosa faceva? Eh, questo lo sapeva lei, e nessuno voleva pigliarsi la briga di saperne più addentro. Certo, se il conte spendeva tanto tempo in cartoleria, non era per numerar risme di carta, mazzi di matite e boccettine d’inchiostro. E tanto tempo, alla fine, non ci avrebbe egli speso, se la signorina Maddalena, la bella delle gratificazioni, non gli avesse fatto buon viso, mostrando di compiacersi di tutta quella parzialità sconveniente per lei.

E tanto si disse, tanto si mormorò, che l’eco ne giunse al signor Demetrio. Ma egli non volle prendere nessun provvedimento. Erano ciarle, pettegolezzi, calunnie; tutta roba di cui egli si [p. 249 modifica] lavava le mani, come Pilato. Non volle imitarlo sua figlia, quando i lagni si rivolsero a lei. Delle mormorazioni, per verità, non voleva tener conto se non per metterci fine; e il modo di metterci fine era quello di vedere che cosa ci fosse di autentico in quella storia della gratificazione per lodevoli servizi, che veramente sarebbe stata una parzialità, una ingiustizia, destinata a seminar la discordia tra i commessi del Bottegone.

— Che c’è di vero? — chiese ella un giorno al marito, dopo avergli esposte le voci che correvano in proposito.

Il conte Attilio si era inalberato, credendo di uscirne coll’audacia. Ma ella aveva insistito, ed egli doveva accettar battaglia.

— Sono infamie; — gridò. — Non c’è niente di vero. Per caso, sareste gelosa? —

Non era quello il miglior modo di vincer sua moglie. La contessa si sentì più offesa di quella domanda grossolana, che non fosse stata per tutte le ciarle a lei riportate intorno agli atti e gesti del suo signore e padrone.

— Attilio, — rispose ella, mettendosi sul grave, — io non v’intendo. Per vostra norma, non soffro di questo male. Neanche a Roma ne ho sofferto, vi ricordate? —

L’accenno rendeva mal suono, e il conte Attilio si stizzì grandemente: ruotò gli occhi, digrignò i denti, sbuffò, come un forsennato.

— A Roma! — gridò egli. — Che Roma? Che sciocchezze son queste? Di Roma, come di qui, non sapete niente, perchè non c’è niente.

— Di qui vedremo; — rispose Fulvia, inflessibile. — Di Roma so tutto. Vi maraviglia che io abbia taciuto, non è vero? Anch’io me ne maravigliai sulle prime. Ma forse il non aver parlato allora fu effetto naturale del grande stupore che mi aveva preso, e che ebbi tempo a mutare, ragionandoci sopra, in un prudente riserbo; prudente per voi, per la quiete della casa, povera casa a mala pena edificata e già presso a crollare; prudente per il timore dello scandalo, di ciò che avrebbe pensato mio padre, di ciò che [p. 250 modifica] avrebbe detto questo umile borgo, donde mi aveva tratta fuori la mia graziosa e veramente ben collocata ambizione. Comunque sia, ho taciuto; ma le lettere in cui mi si narravano le alte gesta del conte Spilamberti mi erano pure venute; ed io le conservo ancora, prezioso ricordo di una bella luna di miele!

— Lettere! — esclamò il conte, facendo un atto disdegnoso. — Lettere anonime! E voi avete bevuto a quella torbida fontana?

— Non subito, ve lo confesso; ma ho poi dovuto arrendermi all’evidenza, tanti erano i particolari narrati, e così facili a riscontrare. La persona che scriveva era certamente infame; ma dava ragguagli che non potevo lasciar passare con un sorriso d’incredulità. Finalmente, si trattava della sostanza vostra e mia, dell’avvenire dei nostri figliuoli; e ben dovevo assicurarmi della via che prendeva il denaro. Speravo allora che ne restasse ancora la miglior parte; ignoravo in che condizione si trovasse garantita la mia dote a Modena; temevo che potesse accadere, per le vostre amorose follìe, ciò che pur troppo era già accaduto da un pezzo. E allora, signor conte, ho dato un passo audace....

— Audace!... — ripetè il conte Attilio, spaventato da quella sospensione che aveva fatta nel racconto sua moglie, e pur volendo averne l’intiero.

— Sì, audace, ed anche antipatico. Ho parlato alla signorina Erikow. La chiamano signorina, non è vero? — domandò Fulvia, pungendo con ironico accento il suo interlocutore, rimasto come tramortito dal colpo che aveva pur dianzi ricevuto. — Le ho parlato, signor conte, e l’ho costretta a confessare.... molte cose. S’intende che mi ha detto anche delle bugie; questa, tra l’altre, che non vi sapeva ammogliato. Altrimenti, si capiva, una donna per bene come lei.... Ho finto di credere; ma avevo messo i puntini sugli i, l’avevo posta colle spalle al muro; non poteva più in nessun modo continuare su quel tono con voi; e allora, proprio allora si cavò [p. 251 modifica] dall'impiccio, lasciando Roma per Firenze; un viaggio del quale voi non intendeste le ragioni, ma che vi lasciò di pessimo umore per due settimane. Volete che su questo capitolo io scenda a particolari più minuti, per finire di convincervi, di persuadervi? No? e sia pure, tronchiamo; ma voi riconoscerete lealmente che io so tutto di Roma.

— E anch’io so tutto di qui; — ribattè il conte Attilio, che oramai non poteva più reggere al sarcasmo.

— Di qui? — rispose Fulvia, non intendendo alla bella prima che cosa volesse dire il suo signore e padrone. — Mi farete cosa grata ad informarmene voi, tanto che io non abbia da fare altre indagini.

— Oh, non girate il discorso, signora; so tutto di qui.... e di voi; — ripigliò il conte Attilio.

— Di me? di me? Ragione di più perchè non mi facciate aspettare le vostre notizie; — rispose Fulvia, con piglio di grande alterezza. — Finora ci siamo contristati; ora rideremo. Dite, dite tutto ciò che sapete.

— Dico, sì.... — ripigliò egli furente, — dico che ho fatto qui e faccio ancora una figura ridicola. E vi dia pure occasione di ridere, come desiderate; ma questa figura ridicola a me non conviene, ve ne avverto, non conviene. Voi avete dato importanza a cose da nulla, a vere sciocchezze. Perchè, quanto al denaro, sapete bene che non lo ha divorato nessuna Erikow. Quella donna era una cara, troppo cara conoscenza del principe Andolfi, che credo l’abbia poi seguitata a Firenze. Ho usato qualche cortesia, più per lui che per lei.... Del resto, in certe cose, non bisogna dimenticare che l’uomo è uomo e che la donna è donna.

— Siete profondo; — disse Fulvia. — Ed io ammetto volentieri la vostra tesi. È un’infamia; ma io l’accetto come una massima oramai giustificata dall’uso. È tanto antica, difatti! Ad Ulisse è permesso amoreggiare con Circe e con Calipso, ed anche di frascheggiare con Nausicaa; ma guai a Penelope se si lascia smuovere dal suo telaio, [p. 252 modifica] per dar la mano a baciare al meno grossolano dei Proci. Accetto, vi ho detto, la regola, e non bado se faccia torto alla morale dei giudici di Ulisse; mi basta che onori Penelope. E voi continuate. —

Quel tono di giudichessa dispiaceva maledettamente al conte Attilio, che ci s’inviperiva sempre più.

— Non riuscirete a farmi perdere la calma; — diss’egli, con una asseveranza che era in così evidente contrasto colla sua agitazione. — Son giudice anch’io, e di parecchie cose ho a chiedervi conto. Rammentate, signora, la durezza di vostro padre, quando alle esortazioni del conte Sferralancia ci ricusò un aiuto di denaro, troppo necessario dopo la catastrofe bancaria di Roma, non preveduta da me, nè da più forti di me? Rammentate ancora che per una vostra lettera, e non scritta a vostro padre, il denaro venne prontamente, con celerità telegrafica, e per una somma superiore alla richiesta?

— Rammento benissimo; — rispose pacatamente la contessa. — Ma rammento ancora di aver scritto questa lettera per vostro consiglio, per vostra sollecitazione, per vostra preghiera. E non volevo scriverla io.

— Non volevate.... è giusto, non volevate. E vorreste voi dirmi ora il perchè?

— Non mi pesa di dirvelo; perchè mi pareva un mancar di rispetto a mio padre, mostrando di credere che per renderlo benevolo a sua figlia, e diciamo anzi ai suoi figli, fosse necessario il consiglio, la sollecitazione, la preghiera di un terzo.

— Già, di Zufoletto; — chiosò con accento di amarezza il conte Attilio; — del vostro Zufoletto, il quale fu tanto felice di mandare a volo le cinquanta, anzi lo sessantamila lire del suo.

— Come lo sapete?

— In un modo semplicissimo. Eccovi i due pezzi della ricevuta che vostro padre gli aveva fatta, prima di metterlo alla porta.... via, diciamo più esattamente, prima di lasciarlo partire, [p. 253 modifica] dichiarandosi debitore a lui della somma.... di quella inezia, com’ebbe la bontà di dire il signor Zufoletto degnissimo, mentre stracciava il foglio, non sapendo che farsene. E lo stracciava sotto i miei occhi, capite? sotto i miei occhi; ed io ho dovuto tollerare l’offesa.

— Che cosa ci vedete voi? Doveva vedercela mio padre, se mai. E del resto, l’aver mio padre voluto scrivere questa ricognizione di debito, vi prova che mio padre era al fatto di ogni cosa.

— E voi niente? non sapevate niente, voi?

— L’ho sospettato; — rispose Fulvia. - L’ho sospettato alla prontezza dell’invio, alla lettera venuta dopo, senza particolari che mi dessero lume intorno al cambiamento che doveva essere avvenuto nelle intenzioni di mio padre. E perchè l’ho sospettato, non ho parlato di nulla, venendo qua; non ho neanche ringraziato il signor Lorini della sua cortese premura.

— Potete ringraziarlo ora che sapete tutto di lui; dovete scrivergli anzi una bella letterina, a quel povero e caro Zufoletto!

— Che cos’è questo nome che voi gli date? — domandò la signora con accento severo. — Il suo nome è Virginio Lorini.

— E a me piace tanto di chiamarlo Zufoletto, come so che si usava una volta al Bottegone; — replicò sarcasticamente quell’altro. — È un bel nome pastorale, che gli si conviene appuntino. Siamo infatti in Arcadia. Oh cari, cari tanto, questi personaggi impastati di latte e miele, che hanno dei sentimenti così delicati, e non una goccia di sangue nelle vene! Quel buono ed amato Zufoletto, come mi ha chiesto scusa delle impertinenze che io avevo dette a lui! E badate, non c’era bisogno di consigliarlo neanche, ve l’assicuro io, non c’era bisogno. Pure, avete voluto abbondare. Povero Zufoletto di canna! Se, Dio guardi, ve lo avessi fatto in due pezzi, com’egli l'obbligazione di nostro padre, che disgrazia, o stelle, che irreparabile disgrazia! —

Voleva dire dell’altro, messo in vena com’era dal suo maltalento. Ma la contessa aveva rizzata [p. 254 modifica] la testa e piantati i suoi occhi infiammati di collera in viso al marito.

— Voi dite che io l’ho consigliato? — gridò, mozzandogli le parole. — Sì, è vero, perchè voi eravato stato ingiusto con lui, e villano. Lo avete confessato or ora voi stesso; egli vi ha chiesto scusa, infatti, delle impertinenze che gli avevate dette voi. E mi avvedo ancora, dalle vostre parole, che gli usci avevano orecchi, quel giorno. Benissimo, signor conte; è qui la prova più chiara di ciò che io sapevo, e che non mi occorre più di farvi confessare. A noi, ora; non contento di tradire, insultate ancora la donna che ha commesso un error solo in tutta la sua vita, quello di accettare il vostro nome e di stimarsene orgogliosa. Povero orgoglio, come è presto caduto! Ed ora non più; andate ed aspettate. —

Un gesto imperioso seguiva, dando fine al discorso e commiato al conte Spilamberti. Ma egli non si mosse. Quelle parole di minaccia lo inasprivano anche più, pungendolo con tutti gli stimoli della curiosità insoddisfatta.

— Che cosa intendereste di fare? — diss’egli.

— Quello che è nel mio diritto; andate.

— No, voglio sapere. Perdio! — soggiunse il conte, afferrandole un braccio. — Sono vostro marito, e vi giuro....

— Badate! — gridò ella, divincolandosi. — Voi mi spezzerete come una canna, ma non mi piegherete; e finirete per giunta in corte d’assise. Volete dunque che io chiami al soccorso? Lo farò, se non mi lasciate subito, se non vi togliete di qui. —

E raccoglieva le forze, per gittare uno strido. Egli, o fosse paura o vergogna di sè, lasciò il braccio di sua moglie e se ne andò fremebondo. Fulvia diede a lui un’occhiata sdegnosa, poi guardò il suo braccio su cui rosseggiava l’impronta della stretta brutale, si scosse, andò verso la scala e discese rapidamente nel salottino.

Il signor Demetrio era presso il canapè, donde allora allora si era levato, con gli occhi tuttavia insonnoliti. [p. 255 modifica] — Che è statò? — diss’egli. — Ho sentito gridare....

— Nulla, nulla; — rispose Fulvia. — Seguimi.

— Ma tu hai la cera molto alterata; — ripigliò il signor Demetrio, turbato.

— Non badare; or ora saprai. Seguimi, te ne prego; vorrei dire due parole alla signorina Pasquati. —

L’accento era risoluto: il signor Demetrio non trovò nulla da replicare, e seguì la figliuola, che uscita tosto dal salottino entrò nella bottega delle orerie, donde passò nella cartoleria dov’era Maddalena seduta dietro il banco, con un libro tra mani. La bionda formosa tralasciò subito di leggere, e si alzò rispettosamente alla inattesa apparizione. Era un po’ maravigliata, essendo la prima volta che la signora contessa, dopo il suo ritorno a Mercurano, poneva piede là dentro; nondimeno si provò di sorriderle, e già stava per aprir la bocca ad una frase di complimento. Ma la frase le fu trattenuta e il sorriso gelato sulle labbra, dall’aspetto severo della contessa e dall’apparire del signor Demetrio dietro di lei, con un’aria di cancelliere di tribunale, che non prometteva niente di buono.

— Signorina, — incominciò la contessa, — vi ricordate di quattro mesi fa, quando il signor Virginio Lorini, allora segretario di mio padre, ebbe occasione di far delle scuse al conte Spilamberti?

— Signora, — balbettò Maddalena, confusa, — non so.... non capisco.... Perchè dovrei ricordarmi io di queste cose, che non mi riguardavano affatto?

— Il perchè importa poco; — ripigliò la contessa. — Del fatto, io vi domando, del fatto. E dovreste ricordarvene, perchè avete udito il dialogo, origliando da quell’uscio. Che abbiate origliato lo dimostra lo aver voi riferito al conte Spilamberti un altro colloquio, avvenuto pochi minuti prima tra me e il signor Virginio Lorini. Questo, poi, non lo potete negare; è provato. Ora la vostra azione ignobile, e i commenti ancora [p. 256 modifica] più ignobili che avete fatti sul mio colloquio col signor Lorini, non sono tali da meritar compassione.

— Commenti!... — mormorò Maddalena. — Commenti, io? Me ne guardi il cielo. Signora contessa, per carità, non creda alle male lingue. Io non ho commentato niente. Posso aver riferito innocentemente un discorso....

— Ascoltato dalla toppa di un uscio; — interruppe la contessa; — ed è ignobile, torno a dirvelo, ignobile.

— Non è vero; — gridò Maddalena, che su quel punto, non essendoci testimoni, poteva spergiurare a sua posta. — Non è vero; ho sentito senza volere. Quell’uscio era aperto, e si poteva sentire di qui tutto quello che si diceva nel salottino. Ma di commenti, poi, non ne ho fatti; non è il mio costume; sono una ragazza onorata, non ne ho fatti; mi caschi la lingua, se ne ho fatti.

— Senti? — disse Fulvia a suo padre. — Ammette di aver riferito, e basta. Perchè aveva da riferire un mio colloquio col signor Lorini? Che cosa ci ha da entrar lei, in ciò che io posso dire o fare? perchè ne ha da parlare con mio marito, la bella signorina Pasquati? Quanto ai suoi commenti, glieli condono; speri d’esserne assolta ugualmente dal suo confessore. Dell’essersi occupata dei fatti miei, dell’aver riferiti i miei discorsi, mi lagno; — proseguì la contessa, rivolgendosi a Maddalena, che stava tutta mortificata in un angolo. — E vi prego perciò di ritornarvene a casa vostra, e di non rimetter più piede qua dentro. Ad aggiustare i vostri conti, e a farvi magari il ponte d’oro, penserà mio padre, che non ha mai guardato al denaro. Quanto a me, non vi voglio più veder qui. Andate, ed in fretta.

— Oh, è dura! — borbottò Maddalena.

— Dura! — ripetè la contessa. — Siete ingiusta, ed anche incontentabile. Vi avverto, per vostra norma, che se vi ostinerete a crederla tale, mi obbligherete a far peggio. Ho buono in mano, [p. 257 modifica] signorina, — e la contessa Fulvia premeva molto sul vocabolo cerimonioso, — ho buono in mano per far peggio. E rigraziate Iddio misericordioso che io mi contenti di questa lezione. —

Maddalena non osò più rifiatare. Mordendosi le labbra, abbassando gli occhi gonfi di lagrime, spiccò il suo scialletto dalla gruccia alla parete, e se lo gittò sulle spalle; si girò la veletta di trina nera intorno alla crocchia voluminosa dei suoi capelli biondi, e senza neanche voltarsi dietro a salutare, infilò l’uscio della bottega.

— Ed ora mi dirai.... — incominciò il signor Demetrio.

— Sì, ti dirò tutto; — rispose Fulvia. — Ma non ora; son troppo agitata.

— Eh, vedo bene, vedo bene, figliuola. Già, capisco che deve aver fatta un’azionaccia. Ma se lo dicevo io, a quello sciocco di Virginio, quando mi voleva persuadere a riprenderla! Cavolo riscaldato e servizio ripreso non fu mai buono.