La figlia del re (Barrili)/XVII

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XVI XVIII

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XVII.

Il conte Attilio era uscito di casa, nè si poteva credere che volesse ritornar così presto. Rimasta sola nelle sue stanze col babbo, la bella Fulvia sentì venir meno la fierezza del carattere che fino allora l'aveva sostenuta; s’intenerì, pianse, pianse lungamente, a caldissime lagrime. Il signor Demetrio non aveva parole per consolarla; e non poteva ritrovarne, ignorando ancora come, perchè, e fino a qual punto si sentisse offesa la sua cara figliuola. Nè ancora la sventurata donna aveva smesso di piangere, quando si udirono dalla scala le voci dei bambini che ritornavano dalla passeggiata con le loro donne di servizio. Quegli innocenti non dovevano veder lagrime negli occhi della mamma: e la mamma corse a rifugio nella sua camera, donde ritornò poco [p. 258 modifica] dopo, con le palpebre un po’ rosse, ma anche col volto più colorito per una rinfrescata frettolosa ed abbondante, e col sorriso sulle labbra. I due cari piccini ebbero quel giorno più baci che non n’avessero ricevuti mai da quelle labbra materne. Presentivano forse quelle labbra di dover essere quind’innanzi sole a scaldare, ad involgere del loro affetto quelle tenere vite?

Lamberto e Guido presero con grazia tutte le carezze della mamma; poi vollero la giunta dei biscottini. Si sa, l'infanzia non si contenta dei baci. Il signor Demetrio diede i biscottini e condusse anche i due piccoli nipoti a prendere un supplemento di chicche. L’idilio domestico succedeva al dramma, o, per dire più esattamente, vi faceva intermezzo.

Difatti, a mala pena i bambini si furono contentati delle lor piccole voglie, il vecchio ritornò da sua figlia, per appagare la sua grande curiosità. E finalmente, rimasta sola da capo con lui, Fulvia versò nel seno paterno la piena delle sue amarezze. Aveva tanto sofferto! e tanto più sofferto, quanto più si era sforzata di tacere! I suoi dolori erano cominciati ben presto, poco dopo la nascita del suo Lamberto. Che struggimenti di cuore laggiù, a Roma! che triste risveglio dal suo sogno di felicità!

— Eh, lo avevo ben saputo ancor io! — diceva il signor Demetrio, commentando le confidenze della figliuola. — Sai dove ne avevo sentito parlare? In piazza Colonna, mentre passavi in carrozza sul Corso, e poco dietro al tuo equipaggio veniva l'altro, assai più vistoso, a dirittura trionfale, della graziosa puppattola dai ricciolini di stoppa. Il ripesco di tuo marito era la favola di Roma. E tu sapevi tutto, fin d’allora, e non hai detto niente?

— Che cosa avrei potuto dire? E a che mi sarebbe servito il dire? Da principio, egli avrebbe negato, ed io sarei rimasta con la vergogna dei miei vani sospetti, delle mie sciocche gelosie. Poi, quando non ebbi più dubbi, quando ebbi in mano tali prove della sua colpa ch’egli non [p. 259 modifica] avrebbe più potuto negare, mi aveva soverchiata un sentimento di nausea. Riconoscevo tutto l’orrore della mia condizione; mi sentivo sola, senza appoggio, in mezzo ad una società che avevo scelta io e che mi dava in dolori e vergogne tutto ciò che sentivo di aver meritato. L’hai voluto? mi diceva una voce dal fondo della coscienza; l’hai voluto, e ti sta bene; piangi pure, ma bevi le tue lagrime. Le ho bevute, babbo, le ho tutte bevute in silenzio. Lagnarmi con lui? Mi ripugnava. Amai meglio vincermi, adattarmi una maschera al viso e sopportare una compagnia diventata odiosa, che abbassarmi a pregare, a implorare il suo ritorno a me. Del resto, m’ingannerò, forse, ma credo che i cuori una volta sviati non ritornino più all’amore antico. Il suo, poi, ne aveva avuto per me? Non era stata la mia dote e la mia condizione di figlia unica, di unica erede, la meta di tutti i suoi desiderii? Di questo io mi ero persuasa ben presto; ed anche per questa ragione ho incominciato a dissimulare, a mentire.

— E lui?

— Tranquillissimo, sai, ed accoglieva col miglior garbo del mondo i complimenti che gli si facevano, come al modello dei mariti. Non era egli nelle debite ore con me? Non si mostrava con me alle passeggiate, ai teatri, ai concerti? Veramente, era un marito esemplare; ed anch’io una moglie esemplare, non tirannica, non curiosa, non uggiosa compagna. Ma come soffrivo dentro di me! Come mi veniva a certi momenti la voglia di scattare, di dar fuori! Perchè non lo facessi il giorno della catastrofe, ci volle davvero una gran forza d’animo. Ma allora un altro pensiero era venuto a sostenermi. Bisognava salvarlo dalla vergogna. Chi sa? dicevo tra me; forse è questa una crisi salutare. Abbandonato dal suo orgoglio, vedrà l’abisso in cui è piombato, e la mia generosità nel rialzarlo, senza chiedergli conto di nulla. Allontanato per forza da’ suoi vili amori, ne conoscerà l’abiettezza, e vorrà vivere per la famiglia, per l’onore, per l’avvenire dei suoi [p. 260 modifica] figli. Non potrei più stimarlo; potrei forse amarlo ancora, per effetto di compassione. È il mio dovere; anch’io debbo pensare ai miei figli. Una gran cosa, il dovere, e bene la religione c’insiste. Ma il mondo ha fatto assai facilmente il suo tacito compromesso colla religione e col dovere, lasciando l’una e l’altro in cura alle donne. Credano esse e si mantengano virtuose, compassionevoli, amanti quando possono e perdonanti sempre: il mondo proseguirà la sua vita pazza, aspettando a pentirsi quando non potrà più farne a meno. Nel vortice di quella sua vita, quante cose non si dimenticano, affogandovi? La gente frettolosa vede i piccoli drammi e i piccoli strappi dei cuori; mormora, sorride, compatisce o condanna, ma poi si scorda di tutto. Anche noi, derelitte, ci scordiamo di aver tanto sofferto; dopo aver lungamente sorriso per forza di volontà, seguitiamo a sorridere per forza di abitudine. La passione frattanto si è consumata nei nostri cuori: felici noi se un giorno ci avvediamo, rientrandoci col pensiero, di non averci più che le ceneri.

— Povera figliuola! che cosa mi racconti tu mai? — esclamò il signor Demetrio, strabiliando. — Ecco un mondo nuovo per me. A Mercurano, te lo confesso, non se n’ha neanche l’idea.

— E qui, — riprese Fulvia, — dovevano parermi più gravi i suoi torti. In quest’angolo tranquillo di mondo, in questa casa che è specchio di probità, di onore e di fede, egli ha portato il suo orgoglio non vinto, le sue passioni non frenate da nessun rispetto umano. Qui, dond’egli mi aveva presa innocente, e diciamo un po’ sciocca, all’esca del suo titolo, qui dove gli era necessario rifarsi un altr’uomo, riconoscendo la mia generosità e la tua, qui egli ha fatto anche peggio. Potevo intendere il mal esempio di una grande città; non intendo più i suoi tradimenti qui, dove tutto ciò che si è fatto e sofferto per lui doveva trattenerlo, ammonirlo, insegnargli la virtù del rimorso, del pentimento. Anima e cuore egualmente viziati! E dovevo io chinar la [p. 261 modifica] testa anche qui, dov’ero offesa nell’istessa casa di mio padre, diventata l’ultimo asilo per lui? Dovevo adattarmi alla sua tresca con Maddalena? aver l’aria di spartire tranquillamente gli affetti del suo gran cuore con una volgarissima civettuola di villaggio, tenuta per carità al nostro servizio? Gli ho fatto una osservazione, molto misurata, quantunque tante lagnanze dei tuoi impiegati giustificassero un più aperto linguaggio. Come mi ha egli risposto? come si è difeso? Come si è scusato? insultandomi, offendendomi, gittando su me una manata di fango, che aveva raccolto nel trivio, l’infame! E dovevo io accettare questa ignominia, da lui? Non avrei mostrato, accettandola, di meritare l’offesa di Maddalena?

— Hai ragione; — disse il signor Demetrio. — Hai fatto bene tutto quello che hai fatto. Non si tollerano certe cosacce, che diamine! Ma ora, vediamo, figliuola mia.... Perchè noi qui non potremo rimediare a nulla, sfogandoci a parlar su quello che è stato.... Che pesci si pigliano, ora?

— Ci separeremo; — rispose Fulvia; — non vedo altra soluzione possibile.

— Separarvi.... è presto detto. E lo scandalo?

— Lo scandalo! Ce n’è già stato tanto! E più ne farà Maddalena. Anche lui, lo sentirai, col suo orgoglio ferito! Ma io parlerò più alto di lui. Voglio la mia pace; la conquisterò ad ogni costo. Riconosca le sue colpe, e se ne vada.

— Via, via! — rispose il signor Demetrio con accento benigno. — Non montiamo ora sul cavallo d’Orlando. Tu sai, figliuola, se io sono amico del tuo grazioso maritino. Lo vedo volentieri come il fumo negli occhi. Mi ha mangiato duecentomila lire, divorandole in un boccone, mi ha indebitato di altre sessantamila col mio segretario; mi ha fatto andar via quel poveraccio, privandomi del mio braccio, anzi, del mio occhio destro; ha cagionato tanti dispiaceri a te, cara figliuola.... Vorrei che andasse al diavolo, vedi, e butterei volentieri altre sessantamila lire per fargli fare un monumento degno di lui, della sua contèa, dei suoi antenati e dei suoi posteri.... che [p. 262 modifica] saranno pur troppo anche i miei. Ma perchè questo fior di furfante non è ancora andato a ricevere il premio dovuto ai suoi meriti, e noi lo abbiamo sempre alle costole, bisognerà bene che troviamo la via di aggiustare alla meno peggio le cose. Non senti più di amarlo? Poco male, ragazza mia. Mi par di capire, da quanto mi ha detto or ora la mia gran poetessa, che senza amore si possa vivere, e campar magari cent’anni. L’essenziale è di digerir sempre bene. Digerisci bene, figliuola, e non ti guastare il sangue con uno stravaso di bile. Quanto a lui, lavori, si penta o non si penta, purchè righi dritto e faccia il suo dovere, ci sarà da stimarcene abbastanza contenti. S’intende che io ripiglio da quest’oggi le chiavi della cassa.... Non voglio pasticci, io; ci son troppe Maddalene in moto, e ai quattrini ci baderò io, d’ora in poi. Se no, poveri a noi, altro che monumento! non ci resterà neanche più da fargli faro un pilastrino. —

Parlava così, il bravo signor Demetrio, per amore del quieto vivere; ma nel fatto non vedeva neppur lui come si potessero aggiustare le cose, lasciando correr l’acqua al suo mulino. Dopo quel po’ po’ di sconcerto domestico, era possibile che vivessero in pace quei due esseri, in una medesima casa?

— Ah vedete che cosa mi tocca, per i miei ultimi giorni! — diceva egli tra sè, discendendo nel suo salottino. — La figlia mal maritata in casa; il genero ch’è un diavolo scatenato; i quattrini che non tornano più; l’inferno in famiglia; questo si chiama avere il male, il malanno e l’uscio addosso. —

Stava forse da mezz’ora là dentro, visitando i suoi libri e non intendendoci nulla, quando rientrò il conte Attilio. Il signor Demetrio brontolò un monosillabo in risposta al mezzo saluto del genero. Vide, guardando senza volere con la coda dell’occhio, che quell’altro era un po’ stravolto; ma non volle farne caso, e seguitò a rovistare i suoi libri.

— Signor Demetrio, — disse quell’altro, dopo [p. 263 modifica] essere stato parecchi minuti a meditare, passeggiando convulsamente in quel piccolo spazio; — avrei da parlarvi. —

Bisogna dargli udienza, e prima di tutto voltarsi. Il signor Demetrio si voltò, guatando con piglio curioso il suo riveritissimo genero.

— Oh guarda, guarda; — diss’egli sarcastico, — ancor io avrei da parlarti.

— Vedete dunque che siamo d’accordo; — rispose sul medesimo tono quell’altro. — Ma non qui, se permettete.

— È giusto; — replicò il signor Demetrio. — Gli usci son cattivi vicini. Andremo su, se ti pare, e nel mio quartierino, dove nessuno potrà sentirci cantare. —

Il conte assentì del capo, e seguì il suocero al pian di sopra. Nell’anticamera i due uomini s’imbatterono in Fulvia, che passava di là, avviata alle sue stanze. Ella vide ed intese che un colloquio solenne era imminente; ma non si scosse, non diè segno di commuoversi. Rispose con un moto lievissimo del capo al saluto forzato, forse involontario e macchinale, che le faceva il conte suo marito, e ricevette con un mite sorriso la carezza di suo padre, che le aveva allungato una pacchina amorevole colla palma discesa, mentre le passava daccanto. Così il signor Demetrio Bertòla si preparava scherzando alla giostra.

— Eccoti una sedia, — diss’egli al genero, quando furono giunti in una sala attigua alla sua camera da letto. — Puoi parlare liberamente. Che cosa avevi da dirmi?

— Che vostra figlia si è resa intollerabile; — rispose il conte Attilio, entrando risoluto in materia. — Sì, dico, intollerabile con le sue....

— Senza giunte, ti prego, senza giunte; — interruppe il signor Demetrio. — A che servirebbero? Hai detto intollerabile, e mi pare che basti. Il perchè ed il percome non fanno e non ficcano. Intollerabile, dunque? Ma sai che mi rallegri, caro, con la tua sincerità? Ed io sciocco, che volevo metter pace!... Altro ci vuole, pel [p. 264 modifica] signor conte Spilamberti, altro ci vuole. Ebbene, cerchiamo dell’altro. Che cosa proponi tu? Il divorzio? Non c’è ancora; speriamo che venga, e allora credi pure che mi parrà di andare a nozze, rompendo questo matrimonio così male assortito. Una separazione, in attesa di meglio? Mi fai un favore, proponendola.

— Sì, sì, — rispose il conte Attilio, non badando ai sarcasmi del vecchio, — non domando altro. E poichè voi non volete che si parli di ciò ch’è avvenuto tra vostra figlia e me....

— Te l’ho già detto; a che servirebbe?

— A mettere in chiaro che i torti non son tutti i miei, e che vostra figlia ha stranamente abusato della sua condizione rispetto a me, della mia rispetto a voi, per avvilirmi, per calpestarmi, per rendermi ridicolo.

— Oh questa è nuova di zecca! Ridicolo te? Ma senta, signor conte, ritorniamo pure al Lei; un pò di cerimonia non guasterà; terrà luogo, almeno, della confidenza che non può e non deve più essere tra noi. Ridicolo Lei per opera di mia figlia? E niente ridicola mia figlia, per opera del conte Spilamberti, che l’ha ridotta al verde per far la corte alle avventuriere, in Roma, e qui in Mercurano la sacrifica alla prima Maddalena che capita? Non si provi a dirmi di no. So tutto ancor io, e so che scellerati discorsi non ha Vossignoria dubitato di raccogliere da quella bocca infame. Non si vergogna, signor conte, di questo? A casa mia si chiama sfamarsi alla tavola del prossimo suo e poi sputare nel piatto.

— Riconosco di avere avuto torto in questo particolare; — rispose il conte Attilio. — Ed ella può risparmiare i paragoni, che vorrebbero offendermi. Ero fuori di me; non ho pesate le mie parole. Son nato gentiluomo, e dei falli che ho commessi voglio esser io il primo ad accusarmi. Se ella me ne avesse lasciato il tempo, non avrebbe avuto occasione di dirmi un’insolenza volgare. Non ho avuto, per sua norma, da sfamarmi alla tavola di nessuno, foss’egli principe o.... villano rifatto. Ho offerto il mio nome, ed ho [p. 265 modifica] lasciato che si pesasse, s’indagasse quanto valeva, per accettarlo, o per rifiutarlo. Colpa sua, signor Bertòla, se ha creduto di accettarlo. Non le dirò altro intorno a questo ingrato argomento. Son gentiluomo, Le ripeto, e le male parole mi spiace ancora più dirle che sentirmele dire. Me ne andrò; quanto alla forma della separazione, che Ella vede al pari di me inevitabile, ne tratteranno due avvocati, ai quali diremo le nostre ragioni, senza violenze, parolacce ed ingiurie plebee.

— Plebee! — ripetè il signor Demetrio, che già da un tratto sentiva di non poter più stare le mosse. — Plebee! Che cos’è questa parola? Poc’anzi ho sentito dire villano rifatto. Per caso, conte Spilamberti, vorreste mettermi sotto? o solamente prendermi in giro? Adagio ai mali passi, e ricacciatevi in gola le vostre impertinenze. Si parla egli così, dall’alto al basso, con uno che ha veduto sfumare tra le vostre pulitissime mani il suo denaro, un quarto di milione e qualche cosa di più? Plebeo, io, a petto vostro! Villan rifatto, io? Ma tu non vali le mie scarpe smesse, straccione. E bada, sai, bada a te. Se tu non fossi qui, in casa mia, ti darei questo sul mostaccio, e te ne farei una frittata. Ne dubiti? Mi basterà di mostrarti che a sessanta anni, quanti io ne conto, uno di questi scavezza ancora dove tocca. —

E lasciò andare un gran pugno sulla tavola che era tra lui ed il conte. La povera tavola, quasi avesse un’anima e sapesse di dover fare onore al suo legittimo padrone, cedette all’urto, e gemendo si spezzò nel bel mezzo.

Il conte si era già alzato. Osservò l’atto violento senza scomporsi; chinò gli occhi a guardare lo squarcio, come se avesse guardato gli effetti d’una prova di forza; e senza aprir bocca lentamente, tranquillamente, come se non fosse affar suo, si allontanò dalla camera.

Rientrato nelle sue stanze, fece con calma le sue valigie, chiedendo aiuto alle persone di servizio, e mandò molto pacatamente ad ordinare [p. 266 modifica] una vettura per la partenza del pomeriggio. Aveva tutto calcolato, e non perdeva la corsa. Nessuno aveva da chiedergli il perchè di quella partenza, nè la meta del suo viaggio. Fulvia vedeva tutti quegli apparecchi, e non fiatava, non mostrava neanche di badarci. Quando egli ebbe finito, e gli si annunziò che la vettura era pronta, baciò i suoi bambini colla tranquilla benevolenza del babbo che parte per restar lontano un paio di giorni; poi, rivolgendosi a sua moglie, con pari calma, con pari tranquillità, le parlò brevemente in questa forma:

— Signora, vostro padre è più alterato di voi, che è tutto dire. Parto per Bologna, dove consulterò un avvocato, per venire d’accordo, se potremo, a ciò che voi desiderate e che io non ricuso. State sana, è il mio voto. Mi duole di avervi recato noia, credetelo, e darei mezzo il mio sangue perchè ciò ch’è stato non fosse. La mia buona intenzione non può mutar nulla, pur troppo; gradite almeno le mie condoglianze. —

Finito il suo discorsetto, il conte Attilio Spilamberti di San Cesario salutò cerimoniosamente una volta, poi un’altra quando fu sull’uscio, e via per la scala: due minuti dopo la contessa Fulvia sentì il rumore della carrozza che portava via da Mercurano il suo signore e padrone, «quello dei guanti» come lo chiamava nei suoi soliloquii il povero Virginio Lorini.

La signora era stata in piedi, muta, immobile, impassibile, a sentire il discorso. Al saluto cerimonioso di lui aveva risposto con un cenno del capo. Nè si era più mossa, fino a tanto che non aveva udito il fragor delle ruote sul battuto della piazza. Un sorriso sardonico le contrasse le labbra, ed una frase proferita a mezza voce commentò quel sorriso.

— Ed io ho potuto amare quell’uomo! —

Nè altro disse; e già si muoveva per ritornare alle sue occupazioni, quando entrò nella stanza suo padre:

— Plebeo a me! — gridò egli, che ancora non aveva potuto digerire l’insulto. — Villano rifatto [p. 267 modifica] a me, mi capisci? Ed io, stupidissima bestia, che volevo rimettervi in pace! Ah, per tutti i diavoli, ne sono ben venuto a capo!

— Non ci sarebbe mancato altro; - disse Fulvia, sorridendo ancora, come aveva fatto poc’anzi. — Dovevi pure intenderla, che non era cosa da sperare, nè da desiderare, per la pace di tutti. Abbi pazienza, — soggiunse ella, vedendo che suo padre non era intieramente del suo parere. — Troppo ti è costata la mia follìa; non metterci anche di giunta la salute, ti prego. Suvvia, babbo! Vogliamo noi non pensarci più per quest’oggi? Sarà il miglior modo di non pensarci più domani, nè poi. —

Quello del signor Demetrio era poco male, dopo tutto, ed egli poteva consolarsi di due impertinenze, che sapeva di non meritare. Inoltre, non doveva esser da meno di sua figlia, che mostrava di prender le cose con tanta filosofia.

— Benedetta figliuola! — diss’egli tra sè. — Ha una forza d’animo che molti uomini le potrebbero invidiare. Ma già, si capisce, ha tanto studiato sui libri! E in quello della vita, niente? Poveraccia! poveraccia! Eccola qui, mal maritata, con una separazione in vista, e con uno stato di vedovanza poco piacevole, perchè il marito è vivo. Oh, quello là si può giurare che campa cent’anni. Han le ossa dure, i bricconi. Se si trattasse d’un povero padre di famiglia, non dico di no; in quattro e quattrotto sarebbe spacciato. Ma infine, di che mi lagno io? Plebeo e villan rifatto fin che ti piacerà, conte spiantato e vomitato dall’inferno! Ma ci guadagno di tenermi la mia figliuola con me, e di non lasciarcene più altri, di quei poveri soldi, che aiutano così bene a sopportare le miserie della vita. —

Di non lasciarci più altro! Il signor Demetrio cantava troppo presto vittoria. La mattina seguente, armatosi di coraggio, ripigliava il suo doppio ufficio di computista e di cassiere della azienda sua propria, un doppio ufficio che non avrebbe dovuto mai lasciare ad altri, specie per la seconda e più gelosa sua parte. Ahimè! [p. 268 modifica] visitando la cassa, verificandone lo stato, si avvide di non averci il conto suo.

E cominciò a sudar freddo. Numerò e tornò a numerare; rovistò cassetti e ripostigli, visitò libri e registri, ripassò molte somme, provando e riprovando, come usava con tanto frutto la famosa Accademia del Cimento, ma non ottenendo, pur troppo, i medesimi risultati di questa. Le somme torniavano, sì, qualche volta; stiracchiandole un poco, si poteva anche credere che andassero bene; ma non si ragguagliavano altrimenti alle valute esistenti in cassa. C’era evidentemente di mezzo una sottrazione; altra, e non la più grata, delle operazioni aritmetiche.