La finta ammalata/Nota storica

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Edgardo Maddalena

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Atto III
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NOTA STORICA

Tra le sedici una delle più gaie e più vive. Poteva anzi essere dalla prima battuta all’ultima una farsa esilirantissima, se Rosaura movesse alla mira con più garbo e grazia, e la rigida onestà non impacciasse tanto il suo dottore. Svolgimento eccessivamente ampio è dato alla breve e semplice favola, che in tre lunghi atti e in tanto variar di scene si diluisce troppo. Rosaura — lo vede tosto ognuno — vuol esser curata dall’Onesti per la vita, e all’ultima scena il bravo medico, messi a dormire gli scrupoli, finirà con lo sposare l’avvenente ammalata. Se n’accorgono gli spettatori, «on prévoit le dénoument dès le premier acte», avverte lo stesso Goldoni (Mém. p. II, c. XMemorie di Carlo Goldoni), ma nulla scopre il buon Pantalone, accecato dall’amore per la figliola. Lo stesso dottore, così attento nell’arte sua, si scorda di leggere negli occhi della ragazza. Maggior perspicacia invece, anche fuori della sua professione, qualche po’ di lotta tra la simpatia, resa visibile, e il delicato ufficio suo avrebbero conferito alla figura più rilievo e reso più naturale la chiusa.

Più conciso del Goldoni era stato il Molière, allorchè riprendendo ai comici italiani e al teatro spagnuolo il noto motivo della fanciulla che, per sottrarsi a nozze incresciose e sposare chi ama, si finge malata, o pazza, o spiritata (Toldo, Molière en Italie. Journal of comparative literature. Vol. I, n. 3, luglio-sett. 1903, pp. 254 segg.), compose e fece recitare in cinque giorni il suo Amour médecin «simple crayon.... petit impromptu» (Au lecteur). E, anche per confessione dell’autore, dall’arguta commediola del Molière (non certo dall’Ammalata del Cecchi (Klein, Gesch. d. ital. Dramas, XII, p. 446), stampata appena nel 1855) che parte il Goldoni, facendo subire alla favola i mutamenti avvertiti nella Premessa (L’a. a chi legge). Ma la tela nell’Amour médecin è una cosina quasi evanescente di fronte alla satira dei medici, de’ quali, si sa, Molière non seppe dir male che basti. Certo le ragioni non son tutte ne’ pettegolezzi tra Madame Bejart e una comare sua coinquilina, come, sulla scorta del Grimarest (Vie de M. Paris, 1705, p. 74), ripete il Goldoni. Assai più nella consuetudine lunga ch’ebbe de’ medici il poeta francese, tanto cagionevole di salute. Per il Goldoni, fortunatamente, questa ragione non c’era. Nessuna stizza personale l’anima contro i seguaci d’Ippocrate, e la berlina cui li espone è più frutto di riflessi letterari che studio immediato del vero. Sempre oggettivo però e uso a vedere dappertutto il buono e il cattivo — a’ medici ignoranti e ciarlatani oppone un confratello, esempio di perizia ed onestà. «Eliminati i rappresentanti indegni, la medicina ha diritto pieno a tutto il nostro rispetto», ecco la morale che, chi se ne diletta, riesce a trarre dalla sua commedia. Ma l’omaggio avrebbe ben altro valore, se veniva p. e. dal Molière, sempre malazzato! «Tanto peggio per la medicina — osserva argutamente il Musatti (G. e la medicina. Marzocco, 25 febbr. 1907) — che fra i due, deve rassegnarsi ad avere elogi soltanto dal sano». Sente però qualcuno nella lunga dissertazione dello stesso dottor Onesti (a. II, sc. XI) spirare aure di satira (Baumann, Ueber das Abhängigkeitscerhältnis A. Notas v. Mol. und G. Roman. Forsch. XXV, pag. 516). Per quel po’ di suppellettile medica che il Goldoni sfoggia in questa commedia [p. 490 modifica]e per le varie figure di dottori che presenta, poco gli sarà giovato il ricordo di quando non ancora quindicenne accompagnava a Chioggia il babbo nelle sue visite, precoce e vano noviziato. Men probabile ancora che nel dottor Onesti abbia ritratto il proprio padre (A. Lazzari. Il padre di G. Riv. d’It. febbr. 1907, p. 264; Rastignac [V. Morello], Goldoni. La Tribuna, 25 febbraio 1907). Se per la scienza, povero Onesti! Ma pure scarso di medica dottrina, come Giulio Goldoni doveva essere, avrebbe meritato davvero quel nome significativo se, per ciò che assicura celiando il figliolo (Mem. p. I, c. II.Memorie di Carlo Goldoni), fosse stato in grado di curare soltanto le malattie che conosceva. Affatto inverosimile la tradizione (e da accennarvi solo per compiutezza bibliografica) che il G. abbia trovato il soggetto di questa commedia a Rimini e là la componesse (Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini ecc. 1884, vol. II, p. 228).

Non ricordi personali d’una età troppo lontana; forse neppure esatto che Teodora Medebac e que’ suoi vapori, che giungevano e si dileguavano a volontà, dessero al poeta l’idea del lavoro, come gli sembrava, dimenticando interamente l’Amour médecin, più di trentanni dopo (Mem. 1. cit.). La fonte letteraria, per la favola generale e per qualche episodio, resta Molière (Maddalena, Fonti goldoniane. La finta amm. Ateneo ven. nov. dic. 1893; Lüder, C. G. in seinem Verhältnis zu Mol. Berlin, 1883, pp. 38-41). Ma la sua fortuna questa F. a. la deve assai meno al Molière che al rigoglioso genio comico del Nostro. Chi ben più del collegio medico, vano di sapere, d’ignoranza, d’impostura, rende infinitamente allegra questa commedia è Agapito il povero «speziale balordo», che secondo avverte la Premessa, avea dato alla commedia il suo primo titolo. Il Goldoni, spregiudicato in fatto d’unità di luogo, inteso anzi in questo solo alla fedele riproduzione del reale, ci presenta lo speziale nella caratteristica sua bottega, in mezzo ai dottori ivi raccolti, come vuole l’antico uso italico oggi ancor vivo, in cerca di clienti e di novità. Macchietta volgaruccia e convenzionale, piuttosto che vera figura comica, è parso questo speziale a V. Osimo (C G. Discorso ecc. Palermo, 1907, pp. 14, 15). L’ammira invece il Bertoni (Modena a Gold. p. 414). Poichè il G., a nostro avviso, s’era prefisso in questo lavoro di far ridere e nient’altro ( «Ce fut... le comique et la gaieté qui firent le bonheur de la F. M.». Mem. 1. cit.; non curiamo i predicozzi dell’A. a chi legge!), il suo brio comico non poteva davvero creare figura più esilarante. Sorte, non so se deplorevole o fortunata, questa degli speziali destinati, con una sola eccezione forse (Giulietta e Romeo), a far ridere sulla scena. Certo essi ne vanno debitori soltanto ai discepoli d’Esculapio che nel dileggio, onde il teatro classico volle gratificarli, li trascinarono seco, correi necessari. Ognuno rammenta gli speziali del Molière. Aggiungiamovi un Pantalone spetiale o L’apothicaire ignorant (Théâtre italien, vol. I, p. XXXII) e certo Monsieur Aquacotta (in una libera imitazione del Malade imag. composta da Bonvicin Giovanelli [Toldo, artic. cit. p. 2501] che nel suo dialetto veneziano confessa al pubblico il miglior modo di gabbare i clienti e guadagnare all’anno «mille per un». I medici troppo parchi di ricette non gli vanno punto a fagiolo «perchè col scriver poche ricette e lassar far alla natura, i ammalai guarise toppo presto». Anche le arti figurative non dimenticano le caratteristiche botteghe degli speziali. Chi non ha ammirato al[p. 491 modifica]l’Accademia di Venezia Lo speziale del Longhi, uno de’ suoi più deliziosi quadretti? (Rava, P. L. Bergamo, 1909, p. 121; vedi ancora un’incisione di Penzel riprodotta a pag. 755 della Lettura del 1909 in un artic. di A. Finzi: Esculapio e Dulcamara). Il G. stesso fece rivivere la figura nel comicissimo Timoteo del Ventaglio e prima in un dramma per musica (Lo speziale), ancora vegeto in Germania nella musica di Haydn.

Oltre che ignorante, curioso e avido, questo disgraziato Agapito è anche sordo. Balbuzie e sordità son le uniche imperfezioni fisiche che sul teatro destino da secoli ilarità non temperata mai da un’ombra di compassione. Se poi chi è sordo non voglia convenirne, l’effetto comico è di tanto più intenso. Più nuova della sordità è nel nostro speziale la mania delle notizie politiche, della quale è affetto. Nella parte vivissima ch’egli prende alle sorti delle dinastie più esotiche e più lontane, scorge il Masi un po’ di satira di quell’aetas incuriosa di politica che volgeva allora per Venezia (G. e i suoi tempi. Illustr. ital. 3 febbr. 1884), come se il disinteressarsi dagli avvenimenti d’Europa bastasse a tener lontano dalla Repubblica qualsiasi pericolo. Anche senza questo, Agapito ha tanta forza comica in sè da reggere sulle sue spalle tutto il lavoro. Sarà giusto che delle prime accoglienze liete decise, forse, l’arte squisita di Teodora Medebac (Mem. l. cit.), ma chi ebbe a succederle nella parte di Rosaura non trovò più né il suo brio, né la sua grazia, o la sorgente di sano riso e schietto ch’è nel personaggio d’Agapito soverchiò a grado a grado ogni altro elemento comico del lavoro. In tutti i modi la F. a. piacque assai. Se il noto Complimento di Rosaura, tanto citato in queste Note, alla domanda «El Spezier com’ela andada?» risponde «Che commedia sfortunada!» l’s privativa sarà una svista dell’amanuense [corregge senz’altro il Malamani in fortunada] o il poeta, discorrendo a chi sapeva il vero, scherzava. Riprese fortunate della F. a. si possono seguire in giornali e in monografie di storia teatrale fin oltre la metà del secolo scorso. Del 1839 entra nel repertorio della Reale Sarda (Costetti, p. 120) e a Modena si recita ancora il 22 nov. del 1857 (Tardini. La drammatica nel Tea. Comunale di Modena. Mod. 1898, p. 1 04). Più tardi Agapito e la sua bottega stentano sempre più a tenere a galla l’episodio centrale un po’ stantio. Non la trascurano però i filodrammatici (Prinzivalli. Accademia filodrammatica romana. Terni. 1880, p. 215 [rec. del 1880]) né le Scuole di recitazione (quella di Firenze l’esegui come prima prova di studio dell’anno scolastico 1884-85). In giorni a noi più vicini Ermete Novelli (1885?) e Ferruccio Benini (dic. 1903, Trieste) ridestano a breve vita l’antica commedia che per un poco ride ancora, vecchietta arzilla, in mezzo ai cernecchi argentei che fanno corona alle fresche gote.

Questa commedia venne anche imitata, ma con le modificazioni richieste dai tempi mutati, che alla satira dei medici più non consentivano le forme buffonesche, nè alla favola della finta ammalata la veste tradizionale. Seguì assai liberamente le orme goldoniane l’Albergati nelle Convulsioni, la migliore e la più importante delle sue commedie (Masi, La vita, i tempi, gli amici di F. A. Bol. 1888, pp. 368-372), e qualche ricordo della F. a. s’avverte nel teatro di Gian Gherardo De’ Rossi e in quello del Nota. Il dottor Verazio nelle Sorelle rivali del primo e De Fulvidio nell’Ammalato per imaginazione dell’altro (cfr. gli studi cit. del Toldo [p. 261] e del Baumann [p. 518]) sono [p. 492 modifica]congiunti stretti di quel dottor Onesti, che con assai più morale che vis comica tolse ai medici ciarlatani il monopolio del palcoscenico. Nella commedia del Nota al medico coscienzioso fanno non degna corona due avidi e ignoranti. Un fievole spunto goldoniano è nell’insipienza medica che ingarbuglia sempre peggio quella farraginosa commedia ch’è il Vitalizio di Giovanni Paradisi (G. Cavatorti, Una lett. ined. di A. Nota sul «Vitalizio» di G. P. Capri, 1906). La F. a., secondo il Di Giacomo (Cronaca del Tea. S. Carlino, Trani, 1895, p. 540), fu accolta anche nel teatro dialettale napoletano con la riduzione No zio ciuccio e no nepote scemo di E. Scarpetta, recitata il 13 ottobre del 1880, (lo Scarpetta la comprende invece tra le commedie «pensate e scritte da lui» [Da S. Carlino ai Fiorentini, Napoli, 1900, p. 455]) e neppure isdegnò di scendere fra le teste di legno fondendosi con l’Amour médecin (Toldo. Nella baracca dei burattini. Giorn. stor. d. lett. ital. 1908, voi. 51, p. 13) nel repertorio dei Fratelli Lupi di Tonno. Acconciato prima dal G. stesso il suo speziale per l’arte dei suoni, accoppiando alla passione per i foglietti un amore serotino e sfortunato per una sua vispa pupilla, altri libretti, ricavati dalla F. a., furono musicati da più compositori (nel 1783 da P. Anfossi; nel 1793 da V. Trento [Musatti, Drammi mus. di C. G. e d’altri. Bassano, 1900, p. 11 ]; nel 1905 da D. Napoletano su libretto di Menotti Buja [Tirso, 21 ag. 1905]). E a proposito dello Speziale è curioso ricordare una recita della F. a., seguita il 16 marzo del 1778 nello stesso teatrino del Castello di Esterhaz (Ungheria), dove dieci anni prima s’era data la bella opera del Haydn. (Pohl Josef Haydn. Berlin, 1874, vol. I, parte II, p. 368. Al titolo segue in parentesi: Lustspiel von Molière?) Sempre a prova della vitalità della commedia non va trascurato che una sua scena fornì il soggetto a un quadro di Giacomo Favretto, oggi nel Castello Tedeschi, sede del Municipio di Isola Rizza. (L’Adige, Verona, 9 sett. 1900).

Fuori d’Italia la F.a. venne tradotta (o ridotta) ben nove volte, in sei lingue (spagnola, portoghese, greca, ungherese, croata e tedesca [3 volte]). Affinità di titoli volle che all’estero il lavoro del G. venisse confuso di frequente col Malade imaginaire. (Merz, C. G. in seiner Stellung z. franz. Lustsp. Leipzig, 1903, p. 24; Archiv. f. Litteraturgesch. XV. [1887], p. 84; Goethe Jahrbuch, 1890, p. 185). Così in Croazia appena studi recenti assodarono che la commedia Misli-bolesnik non è che la F. a., giunta nella Slavia al solito per un canale tedesco (Gudel. Stare kajkavske drame. Zagreb, 1900, p. 32; Archiv. f. slav. Phil. XXVI, pp. 286, 635).

Straordinario oltre ogni credere, e tale da fermare la nostra attenzione più del consueto, è il favore incontrato da questa commedia in Germania, dove durante il periodo del 700 che vide — usiamo una locuzione cara al Gozzi — l’andazzo goldoniano, fu tra le più recitate ed ebbe forse colà maggior voga che tra noi. Ancora nel 1831, dopo un lungo riposo, il Burgtheater di Vienna pensava a una ripresa in un rifacimento di F. L. Schmidt, ma la commedia non passò la censura (Costenoble. Aus dem Burgtheater 1818-1837. Wien, vol. Il, p. 42). Il primo, anzi l’unico autore di tanta fortuna fu là, ancor più che in Italia, lo speziale Agapito, figura divenuta così celebre nei teatri tedeschi che del 1800 (?) un lavoro teatrale d’occasione, rassegna delle commedie allora più fortunate presso quelle platee (Theatralische Schatten. Ein [p. 493 modifica]Schattenspiel im Reiche der Schatlen, ne parla il noto preziosissimo Theater-Kalender di H. A. O. Reichard. 1800, p. 9), non la dimentica. Gareggiarono nell’interpretazione di questa parte il famoso Hanswurst Gottfried Prehauser (1699-1769) e i grandi attori Konrad Eckhof (1720-1778). F. L. Schröder (1744-1816) e A. W. Iffland (1759-1814). Prehauser recitava la F. a. in un rifacimento di I. G. Laudes (Die verstellte Kranfe, oder der rechtschaffene Arzt. Wien, 1765; ristampato nel 1770), il quale per averci aggiunto parecchio di suo si credette autorizzato a sopprimere sul frontespizio il nome del Goldoni. Nella premessa ingenuamente si scusa di non aver osservato l’unità di luogo, che l’avrebbe obbligato a mettere la spezieria in camera di Sofia (Rosaura) o viceversa. La poltrona della finta ammalata in farmacia?

In occasione d’una recita della F. a. a Lubecca il 3 ottobre del 1770, Eckhof, nella parte di Agapito, è detto inimitabile (Das Parterre. Erfurt, 1771, p. 233). Grandi elogi toccano pure a Carlotta Brandes (Rosaura), attrice ricca d’ingegno, assai ammirata anche dal Lessing, per aver reso la parte con garbo finissimo. Una Medebac del Nord! Dello Schröder, forse il massimo attore della scena tedesca (cfr. Nota al Servitore di due padroni, vol. I, p. 624 di quest’Ediz.) si racconta che nel personaggio di Agapito (l’interpretò la prima volta il 22 gennaio 1770 ad Amburgo) s’immedesimasse così che nessuna parte tragica potè tanto su di lui. Credeva egli stesso che vi si esauriva tutta la sua natura (F. L. W. Meyer, F. L. Schröder, ecc. Hamburg, 1823, voi. I, p. 207). Sapeva lo Schröder dar rilievo efficace a ogni singola nota comica del personaggio. Di più recitava la parte con temperamento eccitabile, collerico, cui la sordità, fonte d’equivoci e di sospetti, poteva dar facile alimento. Iffland al contrario, per consiglio d’un suo compagno d’arte e forse anche per non ripetere il tipo creato dal genialissimo Schröder, era un sordo tranquillo, quasi apatico. La prima volta (?) che recitò la F. a. il pubblico sconcertato dalla nuova interpretazione rimase sulle prime freddo, ma presto il contrasto fra l’imperterrita calma dello speziale e le ansie paterne del vecchio Bisognosi, che attento solo alla pretesa malata non vede più lume, sortì un effetto comico tanto vivo, che gli spettatori finirono con l’applaudire frenetici. Schröder presente alla recita da un palco, felice dapprima del fiasco del rivale, che riteneva sicuro, appena vede gli spettatori smascellarsi dalle risa e sente gli applausi andar alle stelle, lascia il palchetto battendo con violenza l’uscio (Briefe von A. W. Iffland und F. L. Schröder an den Schauspieler Werdy. Frankfurt a M, 1881, p. 31). Del successo rimasto sempre fedele all’Iffland in questa parte abbiamo — in una lettera della madre di Goethe (Francoforte, 13 nov. 1784) alla Granduchessa Anna Amalia — documento simpatico, questo passo: «Tra le altre cose Iffland ci diede Agapito, lo speziale sordo della Finta ammalata, e il giubilo e il riso furono tali che l’ilarità s’attaccò ai comici, sicchè duraron fatica a restar in carreggiata e a non sfigurare». (Heinemann, Goethes Mutter, Leipzig, 1893, pp. 180, 370). Il 3 maggio del 1798 Iffland recitò anche al teatro di Weimar, direttore il Goethe, lo Speziale sordo o semplicemente lo Speziale, titolo col quale la commedia in Germania era ormai popolare. (Burkardt. Das Repertoire des Weimarischen Theaters unter Goethes Leitung. 1891, pp. 28,132). L’aveva visto colà, spettatrice gaudente, la moglie di Schiller, e il manto scrivendone a Goethe [p. 494 modifica]osservava: «E proprio in questi buffi originali che Iffland ha sempre destato il mio entusiasmo, perchè qui la natura sua può assai; tutto sembra ispirazione del momento e genialità» (Schiller’s Briefe. Stuttgart, vol. V, p. 377, lett. del 4 maggio 1798).

Meno unanime il coro de’ critici nelle lodi date alla commedia. Il Theatral-Kalender di Vienna (1772, p. 54), annotava in data 29 aprile 1771: «La F. a., lavoro del Goldoni è dei suoi peggiori, buono qualche volta come ripiego». Coglie più nel vero l’anonimo relatore d’una recita fatta a Lipsia l’8 maggio del 1770 dicendola una farsa piuttosto triviale, ma tutta da ridere (Uber die Leipziger Bühne. Dresden, 1770, p. 135). Meglio così che il pericoloso encomio di C. H. Schmid che dall’alto della sua cattedra di legge e di poesia all’Università di Giessen sentenziava essere questa una delle poche commedie del Goldoni meritamente lodate da tutti. (Das Parterre, cit. p. 233). Nel quale giudizio, ma senza pericolose e ingiuste restrizioni, consente H. L. Wagner. Degno riscontro all’Ammalato imaginario gli pare addirittura questa F. a.; nel complesso e in singoli particolari superiore persino al capolavoro del Molière. Ma in tutte e due tanto caricati i caratteri che gli spettatori bisognosi di emendarsi non potevano ritrovare se stessi nelle varie figure poste in scena a questo scopo (!). (Briefe die Seylersche Ges. u. ihre Vorslellungen, in Frankfurt a. M. betreffend. Frankf. 1776, pp. 206 segg.).

Che cosa aggiungere ai grandi elogi che dei Gambara si fa nella dedicatoria? Annibale, n. il 26 genn. 1712 da Carlo Antonio e da Elisa Grimani, fu provveditore a Padova. Notevole che il Nostro negli anni in cui molto si dimentica o si perdona, abbia voluto togliere dalla lettera di dedica il passo relativo alle sue beghe col Medebac e col Bettinelli (cfr. le linee omesse, riportate dall’Ediz. Paperini a piè di pagina). Più notevole ancora che l’amputazione sia stata eseguita tanto alla carlona, da lasciare in sospeso un periodo («Uscì nel tempo ecc.) e renderlo inintelligibile senza il soccorso della prima stampa.

L’accenno all’Ariosto e i versi citati provano — afferma il Merz (studio cit., p. 9), il quale sulla cultura del G. sembra propugnare una tesi opposta a quella di M. Ortiz — che il G. doveva avere buona consuetudine con l’autore dell’Orlando, per essere i versi riportati tra i meno noti del poema. Ma l’avesse conosciuto anche poco, è ovvio ammettere che dovendo scrivere dei Gambara, avrà chiesto e frugato perchè l’elogio riuscisse compiuto. Tra le prime notizie offerte alla sua attenzione non saranno stati i versi dedicati dall’Ariosto a Veronica, alto e giusto vanto della famiglia?

E. M.

Questa commedia uscì la prima volta dentro l’anno 1753, nel t. IV dell’ed. Paperini di Firenze e fu ristampata a Bologna (Pisarri, Corciolani), a Pesaro (Gavelli, IV, '54), a Torino (Fantino-Olzati, V, '56); e più tardi a Venezia (Pasquali, VI, ’64; Savioli, I, ’71; Zatta, cl. 2, XII, ’92). a Torino ancora (Guibert-Oigeas, VI, ’73), a Livorno (Masi, V, ’88), a Lucca (Bonsignori, VI, ’88) e altrove nel Settecento. - La presente edizione seguì principalmente il testo più curato del Pasquali, ma reca a piè di pagina le varianti delle altre edizioni. Le note segnate con lettera alfabetica appartengono al commediografo, quelle con cifra al compilatore. Valgono intorno alla grafia le avvertenze più volte ripetute.

Fine del quinto volume.