La lanterna di Diogene/IV

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IV. Casetta mia! (d'affitto)

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III V

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IV.

Casetta mia...! (d’affitto).


Quando apersi la finestrina della stanzetta dall’albergo di Lama Mocogno, la stella del mattino era levata, sopra il castello, lontano ad oriente, di Montecuccolo.

Il castello pareva allungare in silenzio le fantastiche sue torri bianche per arrivare a quella luce; il monte Cimone domandava una carezza di quella luce, che precede l’alba. Sentii allora cantare un gallo, che mi richiamò il canto del gallo silvestre.

Allora a me venne una gran voglia, come a Pietro apostolo, di piangere e di farmi il segno della santa Croce: «Oh, buon Signore Iddio, che bel mondo armonioso e puro hai tu creato per noi peccatori, ciechi e ostinati!»

E mi lavavo intanto e mi pareva che l’acqua non fosse mai assai per pulire tutte le mie colpe di misconoscenza e di ingratitudine.


*


Perchè seguiterò io a descrivere questo mio viaggio per il grande Appennino? Ah, se le povere parole dell’uomo potessero imbeverci [p. 63 modifica]di luce come le cose create, e caricarsi di forza come il mare e come l’aria, bene io vorrei a passo a passo descrivere il mio viaggio, e dire quale senso di religione afferrò con forte mano il mio cuore e lo sollevò in alto, colà dove l’unghia d’Eva non graffia.

Ben possono i filosofi moderni prendere le antiche fole e le parole dei savi e dei profeti e formarne un’antologia o un vocabolario pazzesco per l’istruzione delle nuove genti!

Tra questi filosofi e critici riconobbi me stesso; ma in verità noi non potremo impedire che quelle parole antiche siano orientate, come veramente sono, verso la luce. Tristi minatori del pensiero, lavoriamo, lavoriamo! la galleria che si scava sprofonda verso l’abisso!


*


Ohimè questa specie di spiritualizzazione dell’anima durò soltanto per quel giorno, come una nube lieve penetrata dal sole; durò finchè davanti a me ebbi l’Appennino selvaggio, deserto, immenso, che pareva non avesse confine. Ma perchè i filosofi moderni non vanno a scrivere in qualche luogo romito! perchè non si levano quando la stella di Venere sorge su le vette dei monti!

Quando giunsi all’Abetone, l’anima si [p. 64 modifica]ricondensò e la nube si sciolse e scaricò in miserabile pioggia.

All’Abetone trovai il mondo in piena civiltà internazionale: grandi Hôtels, luce elettrica, automobili, chauffeurs, le solite signore vestite secondo il culto feticista imposto dalla moda; camerieri in grande sparato e abito nero, bambinaie che parlavan tedesco; signori dal vestito impeccabile: in una parola, il solito culto del «Vitello d’Oro». Questa specie di culto si riproduce continuamente; ed io penso che Mosè, se tornasse al mondo, si risparmierebbe la fatica di abbatterlo. Qui per forza si diventa filosofi positivisti e demolitori. Orribile questo culto del «Vitello d’Oro»! «Anche perchè non avete mai provato, e non sarete mai in condizioni di provare», mi si può rispondere, «È verissimo anche questo!» Ad ogni modo io, che avevo fatto i miei conti senza i grandi Hôtels e mi ero promesso un riposo di qualche giorno fra quella meravigliosa foresta, mi vi sentii a disagio: ne partii lasciando un po’ di cuore a quei giganteschi abeti, e mi ritrovai alla sera del giorno stesso precipitato in fondo alla Lima.

Sono venti e più chilometri di discesa continua e suppongo che qualcuno pregasse per me, giacchè alla Lima giunsi in perfetta conservazione delle membra, e la bicicletta, pure. [p. 65 modifica]

Ma se l’Abetone era occupato di villeggianti di tipo aristocratico, San Marcello, la Porretta e tutti i paeselli dell’Appennino Pistoiese erano pieni di villeggianti della media e piccola borghesia. Io non avrei mai creduto di trovare tanta brava gente in istato di riposo. «Va pur là, — dissi a me stesso, — che i poveri paria che stanno chiusi dalla mattina alle sei alla sera alle sei nelle officine di Milano, non li conoscono questi lussi! E se poi si sfogano con qualche po’ di baccano, di sciopero e di proteste, che diritto hai di brontolare su la fine del mondo, o placido borghese che qui leggi a fatica il giornale nella poltrona di vimini, al fresco?»

All’albergo di San Marcello Pistoiese mi fu concesso per grazia un posticino in fondo ad una gran tavola di villeggianti, e quando tutti furono serviti, la servetta venne a servire anche me.

Avevano un gran contegno quei piccoli borghesi, quasi come gli aristocratici dell’Abetone.

Ho ancora nell’orecchio il lungo discorso che un piccolo brutto uomo, tutto ritinto e calvo, teneva con fluidissima voce toscana ad alcune signore intorno al matrimonio. Diceva spesso: — Io non lo cerco e non lo fuggo il matrimonio: io aspetto che venga da sè! [p. 66 modifica]

— Per piacere, — domandai alla servetta, — che cosa fa qui tutto il giorno questa gente?

— Oh, la non vede? — mi rispose lesta lesta. — Mangiano, dormono, passeggiano, passano le acque e fanno delle ciarle.

Bisogna proprio perdere ogni idealità e diventare filosofi demolitori!


*


Allora sentii più vivo il desiderio di arrivare presto alla piccola casetta solitaria presso il mare; di vivere fra quei pescatori ancora in istato semi-nativo.

E per Bologna presi mio cammino, e di qui per Romagna.


*


Cadeva il quinto giorno da che ero partito da Milano, quando finalmente giunsi a Savignano. Qui — lasciata la via Emilia — mi internai per una ben nota stradicciola che corre lungo i meandri di un fiumicello, il quale tanto va superbo di un suo illustre nome antico (è uno dei pretendenti al titolo di Rubicone) quanto è povero di acque e di corso.

Il mare vicino faceva anelare i pioppi stormendo, come un respiro fresco dopo l’afa [p. 67 modifica]diurna. Sentii il colore della luce, calda come d’oriente, che il sole dona con speciale munificenza a quell’angolo ignoto di terra, e mi sorrise l’illusione che essa debba arrivare anche a quelli che giacciono sotto terra, e le tenebre ne siano consolate: mi parve (o sogno, dono di Dio!) che riposando un dì sotto quelle glebe natìe, udrò ancora il susurro del mare.

Così pensavo e la bicicletta andava, quando mi venne incontro un grido di gioia ed un giovinetto; ed il grido formava quel nome che suona caro più di ogni altro al cuore dell’uomo. E nel modo stesso che il cane fedele corre avanti e indietro al padrone, così quel giovinetto non sapeva se fare festa a me o ritornarsene ad annunziare la mia venuta alla nonna, che attendeva nella casetta: la casetta di cui si scorgeva la finestra a piano terreno, illuminata.

Passammo davanti alla fontana: essa nella sera facea cadere le liquide perle entro la conca di pietra, armoniose come un canto domestico. Io scesi dalla bicicletta; il giovinetto prese il manubrio e guidò la macchina.

— Sì, è bene, — dissi io, non ricordo se a lui o a me, — è bene che tu regga parte del mio peso, oramai. Si invecchia, figliuolo!

— Sai la novità? — disse lui festevolmente.

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— Io ho imparato a mente in questi giorni tutto il verbo possum!

— Bene, figliuolo mio! Questo verbo è infatti un composto di sum, che vuol dire io sono e di potis che vale potente, senza la quale aggiunta, l’essere vale meno che nulla. Con quel potis-sum tu risolverai bene tutte le questioni in cui ti incontrerai nella vita. Impara sì, caro, il verbo possum a memoria, e sappi metterlo in esercizio. Esso vale almeno una laurea di filosofia.

Una testa grigia e due altre testoline bionde, care per diverso, ma non meno vivo amore, si scossero al nostro arrivo. La mano toccò la mano, le labbra le labbra.


*


Quando fu piena la notte, giunsero al mio orecchio il respiro del mare e il respiro dei bambini, dormenti nella stanza vicina. La notte era azzurra, rotta qua e là da splendori d’oro: le capanne dei pescatori che si ridestano. Le stelle trapuntano il cielo come un confuso ricamo: il mare le riflettea con un moto invisibile, onde in me ricorse quella illusione che riappare talvolta in chi è infermo per estenuazione della mente, ovvero in chi ha il cervello ebro di passione come in quella mattina [p. 69 modifica]a Lama Mocogno, quando vidi le piramidi nere dei monti elevarsi verso la stella di Venera: forse è un germe lasciatoci dall’anima primitiva del genere umano: «Non sarebbe improbabile che Dio esistesse».


*


Di chi è questa voce che si diffonde pei campi?

È la voce del turpe rospo terrestre. Egli suona nell’aria calma come una pura campana di cristallo.