La lotta d'Ercole e di Acheloo

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Gabriello Chiabrera

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Il Muzio Scevola Il Chirone
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V

LA LOTTA D’ERCOLE, E DI ACHELOO

ALLA SERENISSIMA GRAN DUCHESSA DI TOSCANA

VITTORIA DELLA ROVERE.

     Unqua non fu, che femminil beltate
Non fosse giogo per uman desire
Soavemente, e che struggendo in foco
Di due ciglia serene un cor leggiadro,
5Non chiamasse dolcezza il suo martíro:
Fama ne canta: ed io dirò quel solo,
Che dentro della mente oggi m’inspira,
Scuotendo Euterpe colla man di rose
La di canore corde armata lira.
10Alta Donna dell’Arno al re compagna,
Del cui scettro si pregia il mio Parnaso,
Non mi sdegnar; picciolo rio s’affretta
Dimessamente mormorando, e pure
Ricco di tanti fiumi il mar l’accetta.
15Io, se cantando in sul vicino Occaso,
Fossi qual cigno, spanderei per l’aura
L’inclito nome de’ vostri avi eccelsi,
Quegli, per cui Metauro almo risuona,
Ed i Pastori in Vatican già sacri,
20Ond’usa il volto serenar Savona.
Ma che? d’ogni valor varcando i segni,
Ad onta dell’obblío, lungi da Lete
Vincono morte, e della morte i regni.
Dunque scherziamo, or che Piroo focoso,
25Sotto l’astro Nemeo tanto s’avanza:
Ecco ne chiama d’Aganippe l’onde,
E l’aura fresca del Parnaso ombrosa.
Di Calidonia governò l’impero
Un tempo Eneo, e trascorrea ben chiaro
30Il nome suo per la real possanza;
Ma nulla men gire il faceva altiero
Lunge, ed appresso la bellezza eccelsa
Di Dejanira singolar sua figlia:
Ella avea d’oro il crin, d’avorio schietto
35La tersa fronte, e per celesti rose
La fresca guancia risplendea vermiglia;
Purissimo candor di perle elette
Erano i denti, ed avventava sguardi
Nell’altrui cor di Citerea saette.
40Quinci spronati dal desír non furo.
Sommi campioni a desïarla tardi
Sotto l’Espero ciel, sotto l’Eoo.
Fra gli altri Alcide, e lo spumante in corso
D’acque celebratissimo Acheloo.
45Costui non pur per onde era possente,
Ma cotanto da Giove ei fu gradito,
Che a sua posta cangiar potea sembiante,
Ed ora farsi toro, ora serpente.
Per cotai pregi divenuto ardito,
50Propose dimandar l’inclita sposa:
Adunque move a ritrovare Eneo,
E vi giungea, che a far gli stessi prieghi
Ivi apparía l’Anfitrionia prole.
Giocondo Eneo gli raccoglie entrambo,
55E ben tosto gli adagia in seggio d’oro,
Ed indi dolce fa sentir sua voce:
Quali per me venture oggi son queste,
Che repentinamente entro a’ miei tetti
Veggio posar sì glorïose teste?
60Qui tacque, ed Acheloo le labbra aperse:
Se dee l’uomo il godere alma beltate
Recarsi a gloria, il ci mostrò palese
Colui, che tuona, e l’Universo scuote,
E gli altri Numi co’ ben spessi esempi.
65E però mio pregar non paja strano,
O ben scettrato, e fortunato Eneo,
Ma prontamente le mie brame adempi:
Di me che deggio dir? non ti si asconde
Lo stato mio: quanto terren trascorro
70Etti palese, e tra che belle rive;
Fiume non corre al mar con sì bell’onde,
Che ardisca porsi innanzi a’ vanti miei;
Ma pienamente io mi dirò felice,
mi dirò, se tu vorrai, che io goda
75Di Dejanira tua gli alti imenei.
Sì disse, e quel suo dir forniva appena,
Ch’Ercole udendo inacerbì sembiante,
E subito crollava ambe le tempia,
Fuoco gli corse il sangue entro ogni vena
80Per forza d’ira, e con sì fatti accenti,
Nel re fissando gli occhi, ei fe’ sentirsi:
Che costui posto tra i Signor dell’acque
Aggia suo luogo, a contrastar non prendo;
Ma, ch’ei s’agguagli col figliuol di Giove,
85Con alcuna ragion non può soffrirsi,
Ma superbo parlar scherzo è de’ venti:
Usciamo in campo, e facciam prova in lotta;
Chi fornito sarà di men possanza
A non tropp’alto desiare impari,
90E di gioir nell’ammirabil letto
Non più dia nutrimento a sua speranza.
Sì, disse Alcide, e dallo sguardo acceso
Fiammeggiava di là dal modo usato.
Subito Eneo ad ambedue rivolto
95Fece ascoltar la sua real parola:
Sentenza non vo’ dar sul vostro stato,
Ma già non tacerò, che la mercede
Dirittamente si dispensa allora,
Che per lo merto del valor si chiede:
100Sì, disse, e tacque il re. Subito sorse
A quel parlar l’Anfitrionia prole,
E si discinse, indi gettò da lunge
L’orrida spoglia di leon Nemeo;
Nè prima il fiume Calidonio scorse
105I nervi, l’ossa e le massiccie polpe,
Che della sua sventura ebbe sospetto;
Ma pensando alle frodi, ond’egli abbonda,
Pur tenne franca la speranza in petto;
Quinci mostrossi nudo, e coll’arena
110Impolvera le palme, e fortemente
Su’ piè si pianta, e l’avversario guarda.
Non perde tempo il buon figliuol d’Alcmena,
Anzi s’avventa, e colle mani invitte
Ambo le braccia all’inimico afferra.
115Tre volte il crolla, ed a sè forte il tragge,
E fece sì, ch’egli baciò la terra.
Levossi intorno di diverse voci
Tuono festivo, ma nel cor dolente
Per li vantaggi suoi pensa Acheloo.
120Dunque sul campo, meraviglia a dirsi!
Di squame s’arma, e sibilò serpente,
D’acerbo tosco rigonfiava il collo,
Batteva i fianchi colla coda immensa,

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E fuor degli occhi sfavillava ardente
125Orribilmente. Quella nobil turba
Ivi d’intorno rimirando il mostro,
Da subito terror non si difese,
Se ne difese il coraggioso Alcide,
Che non mai di viltade apprese l’arte,
130Nè giammai del terrore entro la scola:
Sorrise, e poscia, come tal che scherna,
Fe’ dal petto volar queste parole:
Misero me, se mi veniva incontra
Sì formidabil angue in val di Lerna.
135Non disse più, ma colle braccia aperte
Avventossi alla belva, indi circonda,
Ed indi stringe la viperea gola,
Strinsela sì, che al trasformato amante
Ogni speranza del suo bene invola;
140Però del serpe abbandonò le larve
E fier toro mugghiante ivi divenne.
Qui stette alquanto riguardando, e parte
Come annojato incollerossi Alcide,
E colle man di bronzo, onde la fronte
145Portò sì spesso d’almo lauro adorna,
Mosse a rinnovellar sue prove eccelse.
Diede di piglio alle mal nate corna,
E contorse la testa, e dal profondo
Delle schernite tempie ei glie le svelse.
150In quel momento il Calidonio fiume
Diessi per vinto, e ratto fe’ partita.
Ma fino al ciel si sollevava il nome
Del chiaro vincitor, come è costume.
Infra quegli atti d’allegrezza sorse
155Schiera di Ninfe, e con le man cortesi
Da terra il corno fortunato colse,
Ed all’alma abbondanza il fece sacro:
Di vaghi fiori a coronarlo prese,
E de’ più cari, che la terra Argiva
160Allora avesse frutti appien l’ornaro,
Crescendo i doni pur di mese in mese.
O bella Euterpe, e sull’eburnee spalle,
Cosparso il crin, metrodorato Apollo,
Ne’ Toschi Regni non cogliean le Ninfe
165E di frutti, e di fior pregio più grande?
Certo nembi d’odor, salvo men cari,
La greca Primavera unqua non spande:
Ove di sì vaghissimo vermiglio
Rosa risplende? ed ove appar giacinto
170Con simil pompa di cerulee foglie?
E per quali altre valli apresi il giglio,
Che in paragon con la più fresca neve,
Di più fredda stagion non sia mai vinta?
Qual Tempe fia, che di Carano al pregio
175Osi agguagliarsi? e qual sì nobil piaggia
In nomar Pratolin non viene oscura?
Che del Trebbio dirò? che dell’apriche
Pendici d’Artemin, ia cui bellezza
Per ingegno mortal non si misura?
180Qui mai sempre ridendo ogni Napea
Smalta la terra, ed oggidi più lieta
L’imperla più, più che giammai l’innostra;
Unqua non visto aprile aura vi crea;
Perchè degna di loro aggia ghirlanda
185La chioma d’ôr della reïna nostra.
Alma reïna, al mio Signor diletta,
Onde più lieto, e più superbo è l’Arno
Per l’alta prole, che da lei s’aspetta.