La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/II. Commemorazioni/Nino Bixio
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NINO BIXIO
E anche io voglio pensare di te. Nino Bixio, e ricordarti alla mia mente. Sono memorie che fanno bene, e ci svelgono alle nostre piccolezze e alle nostre miserie.
Era un ignoto a una gran parte degl’italiani. Brillò improvviso come una stella accanto a Garibaldi. Nessuno gli domandò: chi sei? onde vieni? Cominciava la vita nuova e la vita pigliava data da quel tempo. Dopo Garibaldi, colui che pigliava posto nella immaginazione popolare, era Bixio. Appartenevano a quella tempra di uomini straordinaria e veramente epica, che suscita il maraviglioso e crea la leggenda.
Garibaldi era la calma nella forza, la buona fede nelle idee, una sublime semplicitá di spirito, che non gli lasciava vedere tutto ciò che di basso o di piccolo poteva essere attorno a lui. Dominava colla dolcezza dello sguardo, con la sicurezza della voce. Aveva tutte le qualitá, che in altro tempo creavano i semidei e i santi. La sua rettitudine, la sua serenitá, il suo amore dell’umanitá, la sua semplicitá e mansuetudine ricordavano alle genti l’immagine del Cristo.
La sua grandezza doveva oscurare tutto intorno a sé. Pure non si può nominare Garibaldi, che non si ricordi Bixio. Era, sotto certi rispetti, un’antitesi.
Bixio era la forza nervosa, sdegnosa, impaziente d’indugi e di resistenze. Non sapeva concepire il pensiero o il volere in astratto. Volere era per lui fare, e ci andava diritto e rapido, e guai a chi si trovava tra via. Non girava le difficoltá, le troncava; non ammetteva esitazioni e non osservazioni; non voleva persuadere e non discutere; comandava, e talora in quel suo stretto genovese, e voleva esser capito subito e ubbidito. Questo che spesso è dispotismo o capriccio o arbitrio ne’ cervelli angusti e assoluti, era purificato in lui dal fine buono e dal suo gran cuore di patriotta: aveva l’impazienza di chi è nato all’azione, e lo sdegno di chi molto ama. Quando si pronunziava Garibaldi, le facce s’irradiavano come innanzi a ima luce superiore; quando si pronunziava Bixio, testa e occhio si abbassavano come innanzi a una forza irrefrenabile e irresistibile. La folla amava Garibaldi, e gli si avvicinava; ammirava Bixio in lontananza.
Quest’uomo che su’ campi di battaglia pareva una tigre, pericolosa anche a’ vicini, nella Camera divenne apostolo di pacificazione: tanta mansuetudine era sotto a quelli sdegni. Non capiva le passioni de’ partiti, non capiva soprattutto perché Cavour e Garibaldi confusi in una stessa ammirazione popolare dovessero esser divisi. I suoi discorsi erano capilavori di bonarietá, di naturalezza e di efficacia. Parlava, come operava, diritto e rapido. Non usava argomentazioni e non commozioni di affetti. Gli pareva che le sue idee dovessero fare sugli altri quello stesso effetto che sopra di lui e gli bastava enunciarle. Questa sua persuasione era tanta che la resistenza lo rendeva attonito, e quando la Destra si attentava a interromperlo co’ suoi oh! oh! balenava nell’occhio lo sguardo della battaglia e faceva moti convulsi come per tenersi.
Cessate le grandi lotte, prese a poco a poco l’aria borghese della Camera, e non trovò piú posto per sé, non piú parola. Tutte quelle combinazioni e cospirazioni di dietro scena, quelle manovre, quel linguaggio a secondo fine, quelle maldicenze all’orecchio, gli parevano piccolezze di comari, o come diceva il bravo Ricasoli, pettegolezzi di cantanti. Errò fra Sinistra e Destra e non parlò piú. Non comprendeva e non era compreso. Una volta cercò di appassionarsi sulla questione della marina. Un’altra volta gli usci una parola terribile, sulla quale fu messo cenere dal suo patriottismo. Si sentiva nella Camera un uomo spostato.
E si convinse che neppure il suo posto era nelle fila dell’esercito. Il condottiero de’ volontari a voce breve e imperatoria, a cuore aperto, niente uso a prudenza e pazienza, quella disciplina, quello spirito di regolamento, quella sottomissione assoluta al comando, quel dover talora uccidere l’uomo sotto il generale, poco tollerava.
Lo fecero senatore. Che voleva piú? Stimato e rispettato, generale e senatore, questa era onorevole fine di bella vita, un degno ozio a cui sospirano molti. Pure ci si sentiva scontento, e non gli pareva che l’Italia dovesse esser proprio quella che aveva innanzi agli occhi. Si svegliò in lui il marinaio e il genovese. E vide subito questa veritá, che l’Italia non può sorgere a vita nuova, se non ripigliando le sue tradizioni e aprendosi la via a’ commerci, che giá la resero ricca e potente. E come in lui ideare era fare, andò peregrinando in Italia, apostolo di questa idea. E il senatore e il generale divenne il capitano di un legno mercantile, e portò in lontani mari la patria bandiera, piú glorioso e piú allegro lá sul ponte che sugli stalli del Senato; aveva ritrovato se stesso. Non mancò a questo apostolo di una nuova Italia la consacrazione del martirio. Un giorno, quando nelle industrie e nei commerci sará aperto uno sbocco a tutta quella esuberanza di vita di cui oggi sentiamo la presenza negli avventurieri, ne’ cacciatori d’impieghi, ne’ sollecitatori di affari, in tante carriere mancate o spostate, e ci avvieremo cosí alla vera e radicale guarigione della immoralitá pubblica e privata, gli italiani chiameranno Bixio il Precursore, e ricorderanno come un augurio questa festa funebre di Genova intorno alle sue ceneri.