La scienza moderna e l'anarchia/Parte prima/X

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L'Anarchia

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I PRINCIPII.

Gli anarchici, guidati da diverse considerazioni d'ordine storico, politico ed economico, come pure dagli insegnamenti della vita moderna, giungono, come abbiamo detto, a una concezione della società, ben differente da quella che se ne fanno tutti i partiti politici, che tentano d'arrivare a loro volta al potere.

Noi ci rappresentiamo una società, in cui le relazioni tra i suoi membri sono regolate, non più dalle leggi, eredità d'un passato d'oppressione e di barbarie; non più da queste o quelle autorità, siano poi elette dal popolo o detengano il potere per diritto d'eredità; ma da impegni reciproci, liberamente conclusi e sempre revocabili, come pure da usi e costumi bene accetti a tutti. Questi costumi però, non devono essere petrificati e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione; ma conviene abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi ai bisogni nuovi, ai progressi del sapere e delle invenzioni, ed al crescere d'un ideale sociale, sempre più razionale e sempre più elevato.

Quindi, nessuna autorità, che imponga agli altri la propria volontà. Nessun governo d'uomo per l'uomo. Nessuna immobilità nella vita: una evoluzione continua, alcune volte più rapida, altre volte rallentata, come nella vita della natura. Libertà d'azione lasciata all'individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacità naturali, della sua individualità – di ciò che può avere d'originale, di personale. In altre parole, nessuna azione imposta all'individuo con la minaccia d'una punizione sociale, qualunque essa sia, o d'una pena soprannaturale, mistica: la società non chiede nulla all'individuo che non abbia liberamente consentito di fare al momento stesso in cui lo fa. Con tutto questo, eguaglianza completa di diritti per tutti.

Noi non ammettiamo dunque nessuna coercizione di nessun genere nella nostra società d'uguali, perchè non temiamo menomamente che gli atti antisociali di alcuni individui possano prendervi proporzioni minacciose. Una società d'uomini liberi saprà preservarsene meglio delle nostre società attuali, che affidano la difesa della loro moralità sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (università del delitto), agli aguzzini, ai carnefici ed ai loro complici. Essa saprà sopratutto prevenire tali atti.

È evidente che, sino ad oggi, non ha mai esistito una società la quale abbia praticato questi principii. Ma in ogni tempo, l'umanità ha manifestato la sua tendenza verso una loro realizzazione parziale. Ogni volta che certe porzioni della società riuscivano, per un certo tempo, a rovesciare le autorità che le opprimevano, od a cancellare le ineguaglianze esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia, governo di certe caste o classi); ogni volta che una nuova luce di libertà e d'eguaglianza si sprigionava nella società, il popolo, gli oppressi cercavano di mettere in pratica, non fosse che in parte, i principii or ora enunciati.

Possiamo dire, quindi, che l'Anarchia è un certo ideale di società, che differisce essenzialmente da quanto fu preconizzato sino ad oggi dalla maggior parte dei filosofi, dei dotti e degli uomini politici, che avevano tutti la pretesa di governare gli uomini e di dar loro delle leggi. Fu spesso l'ideale più o meno cosciente delle masse – non mai quello dei privilegiati.

Nondimeno sarebbe falso il dire che questa concezione della società sia un'utopia, poichè nel linguaggio ordinario si attribuisce a questa parola l'idea di qualche cosa che non si può realizzare.

In fondo, la parola «utopia» non dovrebbe essere applicata che alle concezioni della società, basate unicamente su ciò che lo scrittore trova desiderabile da un punto di vista teorico; non mai alle concezioni basate sull'osservazione di ciò che si sviluppa già nella società. Così, si debbono annoverare tra le utopie la Repubblica di Platone, la Chiesa universale sognata dai Papi, l'Impero napoleonico, i sogni di Bismarck e il Messianismo dei poeti, che aspettano la venuta, un giorno, d'un salvatore che recherebbe al mondo grandi idee di rinnovamento. Ma sarebbe errato applicare la parola «utopia» a previsioni che si basano, come lo sono quelle dell'Anarchia, sullo studio delle tendenze che si manifestano già nell'evoluzione della società. Qui si esce dalla previsione utopistica per rientrare nel dominio della scienza.

Nel caso nostro, è tanto più errato il parlare d'utopia, che le tendenze segnalate da noi hanno già avuto una parte assai importante nella storia della civiltà, poichè sono esse che diedero origine al Diritto consuetudinario, Diritto che dominò in Europa dal quinto al sedicesimo secolo. Ora queste tendenze si riaffermano ancora in quelle società, che hanno esperimentato per più di tre secoli lo Stato. È su questa osservazione, la cui importanza non sfuggirà allo storico della civiltà, che noi ci basiamo per considerare l'Anarchia come un ideale possibile, realizzabile.

Ci si dice, è vero, che corre un gran tratto dall'ideale alla sua realizzazione; ma noi possiamo rispondere ricordando che alla fine del secolo XVIII – nel momento in cui si costituivano appunto gli Stati Uniti – si considerava come un ideale assurdo il voler costituire una società alquanto estesa altrimenti che in monarchia. Eppure, le repubbliche dell'America del Nord e del Sud, senza contare la Francia, provarono come gli «utopisti» non fossero dalla parte dei repubblicani, ma da quella dei monarchici.

Gli «utopisti» furono coloro che, guidati solamente dai loro desiderii, non vollero tener conto delle tendenze nuove che si facevano strada – coloro che attribuivano troppa stabilità alle cose del passato, senza chiedersi se non fossero semplicemente il risultato di certe condizioni storiche temporanee.

* * *

Come si è già detto in principio, quando noi studiamo l'origine dell'idea anarchica, la troviamo, da una parte, nella critica delle organizzazioni gerarchiche e delle concezioni autoritarie in generale; e dall'altra, nell'analisi delle tendenze che si fanno strada nel movimento progressivo dell'umanità, nel passato e sopratutto nei tempi moderni.

Fin dai tempi più remoti dell'età della pietra, gli uomini hanno dovuto accorgersi degli inconvenienti che si avevano, non appena lasciavano alcuni tra loro acquistare un'autorità personale, quand'anche si trattasse dei più intelligenti, dei più coraggiosi e dei più savi. Perciò noi li vediamo continuamente intenti a sviluppare delle istituzioni che lottino contro lo stabilirsi d'una simile autorità. Le loro tribù, i loro clans, e più tardi il comune rustico, le ghilde del medioevo (ghilde di buona vicinanza, d'arti e mestieri, di mercanti, di cacciatori, ecc.), e finalmente la città libera dal XII al XVI secolo sono istituzioni sorte dal popolo – non dai capi – per resistere contro l'autorità che vedevano acquistata, sia da conquistatori stranieri, sia da individui della loro propria tribù o città.

La stessa tendenza del popolo si è manifestata nei movimenti religiosi delle masse popolari in tutta Europa, al tempo della sollevazione degli Hussiti in Boemia e del movimento degli anabattisti che furono i precursori della Riforma.

Più tardi ancora, nel 1793-1794, la stessa corrente di pensiero e d'azione si rivelò nell'attività particolarmente indipendente e costruttiva delle «sezioni» di Parigi e delle grandi città, come pure d'un gran numero di piccoli comuni. E noi ritroviamo da ultimo la stessa tendenza nelle unioni operaie che si formarono in Inghilterra e in Francia – malgrado le leggi draconiane che proibirono tali unioni – non appena l'industria moderna cominciò a svilupparsi. Sì, fu ancora lo stesso spirito, che spinse il popolo ad agire, cercando di difendersi, questa volta, dal capitalismo.

LE IDEE ANARCHICHE NEI TEMPI ANTICHI E NEL MEDIOEVO.PROUDHON. – STIRNER.

I movimenti popolari d'un carattere anarchico non mancano mai dall'avere qualche eco nella letteratura scritta. Infatti, troviamo già traccia d'idee anarchiche in alcuni filosofi dell'antichità, specialmente nel chinese Lao-tse, e tra i più antichi filosofi greci, Aristippo e i Cinici, come pure Zenone e certi Stoici. Però, lo spirito anarchico avendo la sua origine essenzialmente nelle masse e non in seno alla piccola aristocrazia dei dotti, la quale ha sempre avuto una scarsa simpatia pei movimenti popolari, i pensatori non cercavano generalmente d'indagare l'idea profonda che ispirava questi movimenti. In ogni tempo, filosofi e scienziati preferirono favorire le tendenze governative e lo spirito di disciplina gerarchico. Fin dall'inizio delle scienze, l'arte di governare fu il loro studio prediletto, ed ecco perchè non bisogna meravigliarsi che i filosofi dalle tendenze anarchiche fossero così rari.

Nondimeno, lo stoico greco Zenone ne fu uno. Predicava la libera comunità, senza governo, opponendola all'utopia governativa – la Repubblica di Platone. Zenone indicava già l'istinto di socialità che la natura, secondo lui, aveva sviluppato in opposizione all'istinto egoista di preservazione dell'individuo. Prevedeva un tempo in cui gli uomini si unirebbero al disopra delle frontiere e costituirebbero «il Cosmos», l'Universo, non avendo più bisogno nè di leggi, nè di tribunali, nè di templi, nè di monete per uno scambio di servizi tra loro. E si è perfino stupiti, a quanto pare, dal constatare come le sue espressioni somiglino assai a quelle usate dagli anarchici d'oggigiorno1.

Il vescovo d'Alba, Marco Girolamo Vida, professava nel 1553 idee simili contro lo Stato, le sue leggi e la sua «suprema ingiustizia2». Le stesse idee si ritrovano fra gli Hussiti (specialmente fra i Chelcick, nel secolo XV), fra i primi anabattisti, come pure fra i loro predecessori del secolo IX, i razionalisti in Armenia.

Rabelais, nella prima metà del secolo XVI, Fénelon verso la fine del secolo XVII e sopratutto l'enciclopedista Diderot, nella seconda metà del secolo XVIII, svilupparono le stesse idee, che ebbero, come abbiam detto, alcune applicazioni pratiche durante la Grande Rivoluzione.

Ma fu l'inglese William Godwin, che formulò per il primo, nel 1793, i principii politici ed economici dell'Anarchia nella sua Inchiesta concernente la giustizia politica. Non usava la parola Anarchia, ma ne esponeva benissimo i principii, attaccando le leggi, provando l'inutilità dello Stato, e dicendo che soltanto con l'abolizione dei tribunali si giungerebbe a stabilire la vera giustizia, il solo fondamento reale d'ogni società. In quanto concerne la proprietà, domandava nettamente il comunismo3.

Proudhon fu il primo ad impiegare la parola Anarchia (senza governo), ed a sottomettere a una critica severa gli sforzi inutili degli uomini per darsi un governo, che potesse prevenire la dominazione dei potenti sui deboli, rimanendo nello stesso tempo solo il controllo dei governati. I tentativi vani, fatti in Francia dal 1793 in poi, per darsi una costituzione rispondente a questo scopo, e l'insuccesso della Rivoluzione del 1848, gli fornirono, come si sa, buon numero d'argomenti per questa critica.

Nemico di tutte le forme di socialismo statale, di cui i comunisti di quel tempo (1830-1850) rappresentavano una semplice frazione, Proudhon criticava con forza tutti i piani di rivoluzione in tal senso. E, prendendo come base il sistema dei «buoni di lavoro», proposto da Roberto Owen, sviluppò la concezione del «mutualismo», che renderebbe inutile ogni specie di governo politico.

Il valore di scambio di tutte le mercanzie, diceva, potendo essere misurato con la quantità di lavoro necessaria nella società per produrre ogni mercanzia, tutti gli scambi potrebbero essere fatti a mezzo d'una Banca nazionale che accetterebbe in pagamento i buoni di lavoro. Un «Clearing House», come l'hanno oggi tutte le banche, stabilirebbe giornalmente il bilancio delle entrate e dei pagamenti da fare fra tutti i rami della Banca nazionale.

I servizî così scambiati tra le varie persone sarebbero equivalenti. Inoltre, la Banca nazionale sarebbe in grado di prestare alle associazioni di produttori le somme necessarie per la loro produzione – non più in denaro, ma in buoni di lavoro; e questi prestiti sarebbero senza interesse, poichè basterebbe pagare l'uno per cento all'anno, od anche meno, della somma prestata, per coprire le spese d'amministrazione. In queste condizioni di prestiti senza interessi, il capitale perderebbe il suo carattere pernicioso: non potrebbe più essere usato come strumento di sfruttamento. Si noti che Proudhon diede più ampi sviluppi al suo sistema mutualista per confermare le sue idee anti-governative ed anti-statali. Egli non ha probabilmente conosciuto i suoi precursori inglesi; ma in realtà la parte mutualista del suo programma era già stata sviluppata in Inghilterra da William Thompson (che fu un mutualista prima di diventare comunista), e dai continuatori inglesi di William Thompson – John Gray (1825-1831), Hodgskin – (1825-1832) e J.-T. Bray (1839). Certo, questi autori non avevano, come Proudhon e i suoi continuatori, formulata l'Anarchia, ma non è men vero, come l'ha fatto osservare il professore inglese Foxwell nella sua Introduzione alla traduzione inglese della notevole opera di A. Menger, Il diritto al prodotto integrale del lavoro (Vienna 1866), che una corrente di pensiero anarchico si fa sentire in tutto il socialismo inglese di quegli anni.

Negli Stati Uniti la stessa tendenza fu rappresentata da Josiah Warren, che, dopo aver appartenuto alla colonia «New Harmony» di Robert Owen, divenne avversario del comunismo e fondò, nel 1827, a Cincinnati, un «deposito» (store), in cui i prodotti erano scambiati in base al valore, misurato dalle ore di lavoro, ed ai labour cheques, ossia ai «buoni di lavoro». Simili istituzioni esistevano ancora nel 1865 sotto il nome di Equity Stores, Equity Village e House of Equity (Depositi, Villaggio, Casa d'Equità).

Le stesse idee di scambio basato sulla misura del valore, data la quantità di lavoro richiesta per produrre ogni cosa, furono diffuse in Germania, nel 1843 e nel 1845, da, Moses Hess e da Karl Grün, ed in Isvizzera da Wilhelm Marr, per combattere così gli insegnamenti comunisti autoritari di Weitling, che discendeva, egli pure, dai babouvisti francesi.

Inoltre, in completa opposizione pure al comunismo autoritario di Weitling, che trovava un gran numero di aderenti fra gli operai germanici, un hegeliano tedesco, Max Stirner (il cui vero nome era Johann Kaspar Schmidt), pubblicò nel 1845, un volume, L'Unico e la sua proprietà, che fu riscoperto, per così dire, alcuni anni fa da J.H. Mackay e fece molto rumore nei nostri circoli anarchici, dove venne considerato come una specie di manifesto degli anarchici individualisti4.

L'opera di Stirner è una rivolta contro lo Stato e contro la nuova tirannia, che verrebbe imposta se il comunismo autoritario riuscisse ad impiantarsi. Ragionando come un vero metafisico della scuola di Hegel, Stirner proclamava la riabilitazione dell'«Io» e la «Supremazia dell'individuo» e giungeva così ad insegnare l'«A-moralismo» (senza morale) e l'«Associazione degli egoisti».

Nondimeno, è evidente – come l'hanno già fatto risaltare gli scrittori anarchici ed ancora, recentemente il professore francese V. Basch, nel suo interessante volume L'individualisme anarchiste: Max Stirner (Parigi, 1904) – che questa specie d'individualismo, reclamando il «completo sviluppo» per coloro soltanto che saranno considerati come aventi le migliori doti, e non già per tutti i membri della società, nasconde un ritorno al monopolio dell'educazione, che esiste oggi per il piccolo numero dei «nobili» e dei borghesi, sotto il patronato dello Stato. È un «diritto allo sviluppo integrale» per una minoranza di privilegiati.

Ma un monopolio simile non potrebbe essere mantenuto, senza che fosse protetto da una legislazione monopolista e dalla coercizione organizzata nello Stato – per cui questi individualisti sono necessariamente risospinti dalle proprie domande verso l'idea di Stato e d'autorità, che essi stessi hanno così ben criticata. La loro posizione è perciò simile a quella di Spencer o della Scuola di Manchester, i quali cominciano pure con una critica severa allo Stato, ma finiscono col riconoscerne pienamente le funzioni per mantenere il monopolio della proprietà, di cui lo Stato fu sempre il vero protettore.

  1. Leggere su Zenone l'opera del professore G. Adler: Geschichte des Sozialismus und Kommunismus von Platus Bis zur Gegenwart, t. I, 1899.
  2. D. E. Nys: Recherches sur l'histoire de l'économie politique, Parigi, (Fontemoing, 1898, p. 222).
  3. Ciò si legge nella prima edizione, (due volumi in-4), fatta nel 1793. Nella seconda edizione, pubblicata nel 1796 (due volumi in-8), dopo il processo intentato dal governo inglese contro i suoi amici ed associati repubblicani, soppresse le sue affermazioni comuniste e mitigò ciò che aveva scritto contro il governo.
  4. Traduzione francese edita nel 1890 da Stock; traduzione inglese edita da Beniamino Tucker, a New York, nel 1907, e italiana dalla Casa Editrice Sociale, Milano.