La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo XXXVII

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Capitolo XXXVII

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Capitolo XXXVII.

Come dopo lunga disputazione fummo finalmente diliverati di prigionia.


Ed appresso ch’elli ebbero così ucciso o spezzato tutto, noi altri che dovevamo essere diliverati a Sole levante, fummo sino a Sole cadente senza bere nè mangiare, nè il Re, nè alcuno di noi. E furono gli Almiranti in disputazione gli uni contro gli altri, e tutti macchinando nostra morte. L’uno degli Almiranti diceva agli altri: —Signori, se voi e tutte queste genti che qui siete meco, mi volete credere, noi uccideremo il Re e tutti questi grandi personaggi che sono con lui. Perchè allora di qui a quarant’anni noi non n’avremo a guardarcene, perciò che e’ loro figliuoli sono ancora minorelli, e noi abbiamo Damiata, sicchè il possiain fare sicuramente. Un altro Saracino che l’uomo appellava Scebrecy, il quale nativo era di Mauritania, diceva al contrario e rimostrava agli altri che se essi uccidevano il Re appresso lo aver ucciso il loro Soldano, sonerebbe per lo mondo che gli Egiziani erano le genti più malvage e più disleali. E quello Almirante, che ci voleva fare morire, diceva allo [p. 156 modifica]incontro per altre palliate rimostranze, che veramente s’erano essi mispresi dell’aver ucciso il loro Soldano, e che ciò era contro il comandamento di Macometto, che diceva in suo dittato doversi guardare il Signore come la pupilla dell’occhio; e ne mostrava il comandamento in uno libro che teneva in sua mano. Ma, aggiungeva egli: ora ascoltate, Signori, l’altro comandamento, e voltava adunque il foglio del libro, ammonendoli che Macometto comanda che, ad asseveranza della sua fede, si debba uccidere lo inimico della Legge. E poi diceva per rivenire alla sua intenza: Or riguardate il male che noi abbiam fatto d’aver ucciso il nostro Soldano contra ’l comandamento di Macometto, ed ancora il più gran male che noi faremmo se noi lasciassimo andare il Re, e non lo uccidessimo, sien qualsivogliano le sicuranze ch’egli abbia avuto da noi; perchè egli è desso lo più grande inimico della Legge di Paganìa. Ed a queste parole a poco presso fu che la nostra morte non venisse accordata. E da ciò avvenne che l’uno di quegli Almiranti che ci era contrario, pensando in suo cuore che ci devessono tutti far morire, venne sulla riva del fiume, e cominciò a gridare in saracinesco a quelli che ci conducevano nella galea, e colla tovaglia, ch’e’ si levò di testa, loro per di più accennava, e diceva ch’essi ci rimenassero verso Babilonia. E di fatto fummo disancorati e risospinti addietro contra monte; donde per entro noi fu menato un duolo tragrande, e molte lagrime ne uscirono degli occhi, perchè c’indovinavamo tutti che ci adducessero a mala morte. [p. 157 modifica] Ma così come Dio volle, il quale giammai non obblia i suoi servidori, egli fu accordato, intorno a Sol cadente, in tra gli Almiranti che noi saremmo diliberati, e ci fecero rivenire verso Damiata, e furon messe le nostre quattro galee tutto presso il rivaggio del fiume. Adunque ci femmo a richierere d’essere messi a terra. Ma i Saracini nol vollero punto fare sino a che noi avessimo mangiato. E dicevano, che ciò farebbe onta agli Almiranti di lasciarci uscire di lor prigioni tutto digiuni. E tantosto ci ferono venire alcune vivande dall’oste, e ciò furono de’ bitorzoli di formaggio rincotti al sole, affinchè i vermini non vi incogliessero, e dell’ova dure lessate da quattro o cinque giorni; e questi, per l’onore di nostre persone, li aveano fatti alluminare sulle coccia in diversi colori.

E appresso che ci ebbero così pasciuti, ci sposero a terra, e noi ne andammo di verso il Re, che i Saracini ammenavano del paviglione ove lo avean tenuto, in contro l’acqua del fiume, e ce n’avea ben venti mila a piè colle spade cinte. Ora avvenne che nel fiume davanti il Re si trovò una galea di Genovesi, nella quale non appariva sovra coperta che un uomo solo; il quale, quando vide che il Re fu a dirimpetto della sua galea, cominciò egli a fistiare. E tantosto ecco qui sortire del soppalco della galea bene ottanta ballestrieri bene arnesati, le loro ballestre tese, e le frecce suvvi. Il che come videro i Saracini, cominciaro a fuggire a modo di berbici spaurate, nè anche col Re ne dimoraro più di due o tre. Li Genovesi allora gittarono a terra una [p. 158 modifica]panchetta, e raccolsero il Re, il Conte d’Angiò suo fratello che di poi fu Re di Cicilia, Monsignor Gioffredo di Sergines, Messere Filippo di Nemursio, il Maliscalco di Francia, il Maestro della Trinità, e me: e dimorò prigioniero, a guardia de’ Saracini, il Conte di Poitieri, sino a che il Re avesse loro pagato le dugento mila lire ch’e’ doveva sborsare avanti di partire del fiume.