La vigna sul mare/Giochi
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GIOCHI
Anche il cronista del giornale cittadino si credette in dovere di recarsi ad intervistare il signor Fausto, l’uomo che aveva fatto la straordinaria vincita al lotto.
— Ebbene, mi racconti com’è andata. E, anzitutto, rallegramenti sinceri e sinceri augurî.
Ma, per quanto sinceri, il signor Fausto non pareva disposto a ricevere rallegramenti, e tanto meno augurî. Piccolino, tutto aguzzo, dai piedi ai gomiti, dal mento al naso, con una sciarpa grigia al collo, fissava il visitatore con due grandi occhi azzurri, melanconici e nello stesso tempo freddi ed egoisti. Non lo invitò neppure a sedersi; ma, senza tanti complimenti, l’altro si abbandonò proprio in mezzo al piccolo sofà rosso, scostandone i cuscinetti rotondi che parevano gatti addormentati, deciso a far parlare l’intervistato.
— Dunque, mi dica... Ma pare che lei non sia contento.
— Oh, per questo, capirà...
Si capiva benissimo che duecentocinquantamila lire, piovute in quella casa, rappresentavano una caduta di stelle: bastava guardare il lume a petrolio, adagiato, sul tappetino di lana a frange, e, sulla mensola, sotto lo specchio appannato, un piatto di marmo che offriva una gelida natura morta, pur essa di marmo: due fette di prosciutto, due fichi spaccati, un panino fresco.
— Com’è andata? — rispose infine, più che altro per levarsi la seccatura, il poco amabile signor Fausto. — Così! Ho sognato i numeri, adesso non ricordo più come, li ho giocati, ho vinto.
— Ma lei, dicono, usava giocare tutte le settimane, e in più di una ruota.
Vedendosi scoperto, l’altro s’inalberò, ma lievemente, e subito si ricompose.
— Ne dicono tante! Però, sì, qualche volta ho giocato, anzi, parecchi anni fa mi è capitata una cosa curiosa.
— Racconti, racconti!
— Ero giovane ancora, e andavo volentieri a spasso con una signorina. Era tutta svenevole, tutta romantica, — egli aggiunse, animandosi al ricordo e imitando grottescamente la voce, i gesti, gli sguardi languidi della fanciulla, — così, così. Bene, un giorno si arriva davanti al botteghino del lotto, ed io la invito ad entrare, per comprare un biglietto, con il quale avevo una magnifica quaterna. Che è, che non è, la ragazza si fa livida in viso, mi volge le spalle e se ne va. Dopo, non mi ha guardato più in viso, come fossi stato un ladro còlto in flagrante.
— Dopo, non ha più giocato?
— Dopo, le condizioni mie modestissime migliorarono. Morì il marito di una mia sorella, lasciandole qualche cosa, ed ella mi pregò di vivere insieme per farci compagnia: anche io avevo ed ho lavoro. Così si sta con noi, in questa casa che è di nostra proprietà, e non abbiamo proprio bisogno di nulla.
Pareva volesse scusarsi, adesso, o scolparsi, il signor Fausto; ma il cronista non era soddisfatto, e insisteva con le sue domande:
— Che farà, adesso? Come investirà il suo capitale? Andrà in campagna? Prenderà moglie? Farà qualche oblazione? Ha ricevuto molte lettere?
— Guardi, guardi! Una disperazione, — dice, veramente desolato, il vincitore, sollevando e poi lasciando ricadere le lettere ancora in parte chiuse che ingombravano la tavola. — Anche telegrammi, anche libri con dediche. Tutti sono diventati miei parenti, miei amici, miei compagni d’infanzia. E tutti vogliono aiuto, oblazioni, prestiti, come se io avessi aperto una banca. Però il mondo lo conosco...
— Annamaria, — s’interruppe, correndo all’uscio e chiamando esasperato la sorella. — Suona... no. Sapristi! Non far entrare più nessuno; non voglio veder più nessuno.
Ma la signora Annamaria aveva già aperto, anzi aveva dovuto spalancare la porta, per ricevere un grande cestino di fiori: bei garofani rossi che dall’arco del manico infiocchettato salutavano con grazioso ardore la pallida e spaurita vedova e la triste casa dove entravano. Il ragazzo che li portava se ne andò senza aspettare la mancia; ma il signor Fausto trovò subito un biglietto di visita nascosto tra i fiori, e quando ne lesse il nome scritto a mano, scoppiò a ridere, fra l’indignato e il contento. Non rivelò tuttavia quel nome, al cronista curioso, e neppure alla sorella trepida: anche per paura di non essere creduto o di apparire ridicolo, poiché era il nome della signorina, adesso vecchia zitella, che lo aveva piantato ignominiosamente davanti alla porta del botteghino del lotto.
*
«E adesso che farai, caro Fausto? Come investirai il tuo capitale? Andrai in campagna? Prenderai moglie? Farai qualche oblazione? Arriveranno ancora molte lettere?».
Rimasto finalmente solo, così il signor Fausto continuava a intervistare sé stesso, piegato sulla tavola, fra le due trincee di lettere ancor più alte e rafforzate. Aveva l’impressione che a poco a poco, nei giorni seguenti, e poi durante il resto della vita, la maledetta pioggia epistolare avrebbe continuato, fino a riempire la casa, fino a soffocarlo: non questo, però, in fondo, era il suo incubo.
L’incubo vero glielo destava quella terribile intervista con sé stesso: e le innocenti domande del cronista si trasformavano in richiami urgenti e disperati della sua anima. Specialmente alla prima di esse non trovava risposta.
«E adesso che cosa farai?».
Non gli passava neppure per la mente l’idea di continuare a leggere qualcuna di quelle lettere, che in qualche modo gli tenevano compagnia nella notte solitaria; di trovare, fra tante buste ancora chiuse, il segreto di un dolore vero, di una miseria sciagurata: e di sollevarsi sollevando un suo simile. Nulla. Nel suo cuore non c’era posto per nessuno; neppure per la speranza di un po’ di gioia materiale.
«Non bevo, non fumo, non mi piacciono le donne: odio la campagna e il mare — così rispondeva a sé stesso. — Che posso farmene, di questi denari? Li metterò alla Banca; sia pure il cinque per cento, ne ho sempre di troppo. Del resto si stava bene anche prima. Solo che...».
Si sollevò, si guardò attorno, si vide nello specchio appannato, lontano, come nella penombra di un bosco, dove si era smarrito e non ritroverebbe più la via per tornare indietro. Eppure era lì, in casa sua, nella saletta che da anni ed anni, nelle sere belle e nelle sere brutte, ospitava la sua volontà, anzi la sua gioia di vivere, di sognare, di vincere la fortuna. Tranne quelle maledette lettere, poiché il cestino dei fiori languiva nell’esilio del corridoio, tutto là dentro era immutato, e immutato, per fermo proposito di lui e anche della sorella, sarebbe rimasto per sempre. Quella melanconia, quel freddo, quell’odore di antico, erano la solita atmosfera, uscendo dalla quale egli sentiva che sarebbe morto come un pesce fuori dell’acqua. Solo che...
*
Solo che, adesso, l’ambiente s’era vuotato, il sogno più non esisteva: poiché quelle miserabili migliaia di lire non contavano che zero nella vita del signor Fausto. Quello che contava, — e per questo egli si era ben guardato dal confessarlo al cronista, — più che il sogno di vincere, era l’abitudine del gioco, il calcolo, il combattimento, la compagnia assidua, le combinazioni, il pensiero, infine la vita comune coi numeri.
Adesso era finita: ed egli si sentiva come un generale messo a riposo; o meglio si rivedeva ancora davanti al botteghino del lotto, abbandonato dalla fidanzata. Ma il ricordo di questa umiliazione lo scosse fino al cuore. Aprì l’uscio del corridoio, e fece ai garofani sepolti nella penombra un comico segno di addio: poi prese tutte le lettere e le gettò nel sacco della Sacra Famiglia. Così gli parve di aver cancellato quel giorno di tristezza e di vuoto. E, per ricominciare a vivere, sedette di nuovo davanti alla tavola, trasse dal cassetto un libro misterioso, tutto cabale e segni, una carta con un esercito di numeri; e riprese la guerra con questi, cercando di accalappiare quelli che il prossimo venerdì sarebbe andato a giocare.