Le Aquile della steppa/Parte seconda/Capitolo IX

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Parte seconda — Capitolo IX
L’attacco dei leoni

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CAPITOLO IX.


Fra l’acqua e il petrolio.


Tutta la regione che si estende fra le rive del mar Caspio e quelle dell’Aral, altro non è che un immenso serbatoio di nafta, un serbatoio inesauribile che darà un giorno miliardi e miliardi a chi saprà sfruttarlo.

Da secoli gli abitanti di quei paesi avevano già notato fenomeni straordinari, ma per loro assolutamente inesplicabili, come l’apparizione improvvisa di vampe, uscenti da rocce e da crepacci trasudanti una materia che altro non era che nafta.

Sembra che dei bacini immensi si estendano su una superficie pure immensa e anche a non molta profondità, come lo hanno dimostrato i pozzi scavati in questi ultimi anni, specialmente nei dintorni del mar Nero.

Tuttavia quella vasta regione è rimasta, quasi fino ai nostri giorni, infruttuosa, quantunque si conoscesse l’esistenza della nafta fino dal secolo scorso, specialmente nei dintorni di Baku, la cui città era tenuta come sacra dagli adoratori del fuoco in causa d’una grande fiamma che usciva da una roccia situata presso le rive del mar Nero.

Non fu che nel 1870 che quegli immensi serbatoi attirarono l’attenzione degli scienziati e degli industriali, e fu con grande meraviglia che si constatò la loro esistenza e la loro prodigiosa ricchezza.

Alcuni pozzi scavati intorno alle rive meridionali del mar [p. 236 modifica]Nero, fecero finalmente comprendere quale ricchezza si nascondeva nel sottosuolo.

Ovunque i getti furono abbondanti. L’olio minerale salì alla superficie in così grandi quantità, specialmente dal pozzo chiamato Droogio, presso Baku, da non poterlo frenare con alcun mezzo.

Fu un vero torrente di nafta verdastra, che andò a terminare in buona parte nel mar Caspio, mettendo in serio pericolo le navi che si trovavano in quei paraggi, perchè uno zolfanello gettato inavvertitamente in acqua, sarebbe stato sufficiente per distruggerle tutte.

Il petrolio discese da un giorno all’altro, ad un centesimo al litro!...

Non è, come abbiamo detto, solamente sulle rive del Caspio, che il sottosuolo nasconde serbatoi prodigiosi di nafta. Tutto il Turchestan settentrionale, che segue le sponde orientali del mar Caspio, fino a quelle meridionali dell’Aral, è una regione petrolifera che darà certamente un giorno altre favolose ricchezze. Perfino lungo certi fiumi dell’interno, le rocce trasudano nafta, ora nerastra ed ora verdastra e quelle segnano i buoni punti che un pozzo venga aperto ed il petrolio subito salirà alla superficie a riempire milioni e milioni di barili.

Lo strano sì è poi, che quei serbatoi non si estendono solamente sotto la così detta terra ferma, bensì anche sotto quei mari, talvolta perfino sotto i letti dei fiumi.

Di quando in quando, forse in causa di qualche scossa di terremoto o per altri motivi ancora ignorati, dai crepacci escono delle enormi masse di gaz di nafta, le quali formano alla superficie dell’acqua innumerevoli bolle.

Uno zolfanello od un pezzo di stoppa accesa, gettata via dai naviganti, basta per provocare migliaia e migliaia di fiamme, simili a quelle dei becchi di gaz, ma più grosse e di forma conica.

Lo spettacolo è ammirabile, tanto più che non è veramente troppo pericoloso pei naviganti. Guai però se invece dei gaz sale la nafta, come talvolta avviene!.... Allora è un mare di fuoco che si estende spaventosamente e disgraziate quelle navi che per mancanza di vento non riescono ad allontanarsi più che in fretta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Al grido di terrore e d’angoscia mandato dagli uomini della prima scialuppa, un altro non meno alto, non meno terribile era partito dalle altre.

La nafta bruciava!.... Era la morte e quale atroce morte, che minacciava i pescatori di garitse!...

Le fiamme, sviluppatesi con rapidità incredibile, s’allargavano sulle acque sature d’olio minerale, mandando una luce biancastra simile a quella che sviluppa l’alcool.

I cormorani, spaventati si erano alzati, spiccando il volo verso le isole, prima che i pescatori, fra quella confusione, avessero pensato a trattenerli.

La fuga dei volatili aveva impressionato maggiormente i pescatori, credendo di vedere in quella la loro perdita.

Tabriz e Hossein, non meno impressionati, erano balzati subito in piedi, gridando assieme a Karaval:

— Ai remi!... Ai remi!... —

Un momento di ritardo era la fine di tutti.

Il capo della flottiglia, comprendendo che non vi era da esitare, aveva lanciato un comando.

— Alle isole!... Coraggio! —

Le sei scialuppe si erano messe in corsa. Per buona fortuna dinanzi a loro l’acqua non aveva ancora preso fuoco, però era necessario spegnere prontamente i pezzi di legno che ardevano entro le borse di filo di rame, onde evitare di allargare l’incendio.

Mentre i rematori arrancavano disperatamente, tendendo i muscoli fino al punto di farli quasi scoppiare, i timonieri si erano affrettati a ritirare le aste rovesciando i tizzoni sui pesci, che ingombravano il fondo delle scialuppe.

Lo spettacolo che offriva quella specie di lago formato dalle acque dell’Amur-Darja, diventava di momento in momento più spaventoso.

Pareva che si fosse trasformato, per opera magica, in un piccolo mare di fuoco. Fiammate si alzavano dappertutto dietro le imbarcazioni fuggenti, spandendo in alto una luce intensa, quasi accecante.

Le acque ribollivano con leggeri crepitii, in causa di masse considerevoli di gaz che salivano senza posa alla superficie assieme alla nafta, sviluppando nuove fiammate che sovente raggiungevano delle altezze di parecchi metri.

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Si sarebbe detto che un vulcano avvampava sotto il laghetto.

I pescatori fuggivano sempre verso le isole. Avrebbero desiderato meglio guadagnare le rive del fiume; l’onda di fuoco però glielo impediva, e attraversarla sarebbe stato come andare incontro ad una morte certa.

Per fortuna quelle terre che occupavano quasi il centro del laghetto non erano lontane, sicchè bastarono cinque minuti di corsa sfrenata per raggiungere la prima che era la maggiore.

Sbarcarono in fretta, tirarono a terra le barche e si gettarono sotto gli alberi, sdraiandosi fra i giunchi che erano altissimi.

— Bell’avventura! — disse Tabriz che si era gettato fra Hossein e Karaval. — Come finirà?

— Bene, spero, — rispose il bandito. — Aspetteremo che la nafta si sia consumata e andremo a far colazione al villaggio dei pescatori con una dozzina o due di garitse.

— Alla malora i tuoi pesci! — esclamò Tabriz. — Non sogni che quelli e per quelli per poco non ci facevi arrostire vivi!

— Non è colpa mia, signore.

— Se tu fossi stato la cagione, non so se avresti ancora la testa piantata sul tuo collo.

— Non temete, — disse Karaval. — Il fuoco non durerà molto. —

Pareva però che l’incendio, invece di scemare, aumentasse continuamente, come se dai crepacci apertisi nel letto del laghetto, la nafta non cessasse di risalire alla superficie.

Un turbine di fuoco scendeva colla corrente, riversandosi verso il basso corso dell’Amur-Darja e si scorgeva, anche molto lontano, il cielo riflettere quei lividi bagliori. Si sarebbe detto che un lampeggiare continuo riempiva l’atmosfera con una luce però fissa e non già tremolante.

L’acqua continuava a ribollire e un numero infinito di pesci saliva alla superficie, per bene cucinati.

— Peccato non poter mettere una mano lì dentro. Ci guadagneremmo una cena bastante per cinquecento persone, — disse Tabriz.

Hossein non rispose.

Guardava con inquietudine quelle fiammate, che ormai circondavano le isole, facendo crepitare i canneti ed i giunchi che coprivano le rive.

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I pescatori non sembravano però impressionati, ora che si trovavano a terra. Quel fenomeno, in apparenza terribile, non doveva essere nuovo per loro e dovevano anche conoscerne la portata.

Stesi fra le erbe, al disotto delle piante che li proteggevano dal calore e dal fumo, guardavano tranquillamente quelle immense fiammate, che la corrente travolgeva verso lo sbocco del lago.

Avevano ragione di non preoccuparsi troppo, poichè, dopo tre o quattro ore, le fiamme cominciarono a decrescere, la luce divenne meno intensa e finalmente, esauritasi la nafta, le tenebre tornarono a piombare sul laghetto.

— Non credevo che tutto finisse così bene, — disse Tabriz a Hossein. — Avevo paura di morire arrostito come un cagnolino. Il giovane rispose con un lievo sorriso.

— Padrone, — proseguì, il gigante, — non ti ho mai veduto così preoccupato come ora, eppure non siamo che a poche centinaia di passi dalla nostra steppa.

— Taci, Tabriz, — rispose Hossein.

— È proprio vero che non si è mai contenti in questo mondo, — brontolò il turchestano.

Quantunque non vi fosse più alcun pericolo, i pescatori attesero l’alba prima di lanciare nuovamente in acqua le loro scialuppe.

Si erano appena imbarcati che già i cormorani avevano ripresi i loro posti. Quei ghiottoni non avevano probabilmente dimenticati gl’intestini dei pesci, presi durante la sera e che per diritto spettavano a loro.

Le sei scialuppe attraversarono il laghetto, le cui acque erano tornate fresche, imboccarono il canale meridionale e dopo qualche chilometro si arrestarono dinanzi ad un villaggio composto d’un centinaio di casupole e che era difeso da una specie di ridotto, armato d’una mezza dozzina di falconetti e sormontato da una bandiera verde, il vessillo dell’Emiro di Bukara.

Scoprendola, Tabriz e Hossein si erano guardati l’un l’altro con apprensione.

Loutis, — disse il primo, rivolgendosi a Karaval con aria minacciosa, — dove ci hai condotti tu?

— In un villaggio di pescatori, signore.

— E quella bandiera?

— Questi sono sudditi dell’Emiro, signore, però sono certissimo [p. 240 modifica]che non vi daranno nessun fastidio. Non facevano già parte della carovana e probabilmente non hanno saputo ancora nulla della presa di Kitab.

Che cosa potete temere voi da loro?

— E in quel ridotto non vi saranno degli usbeki?

— Che importa a loro se degli uomini chiedono di attraversare l’Amur-Darja?

— Puoi aver ragione, — disse Tabriz, un po’ rassicurato dalle parole del bandito.

Il gigante e Hossein sbarcarono colla speranza di partire subito, appena deposto a terra il pesce predato dai cormorani.

— Venite a far colazione nella casupola d’un mio amico, disse Karaval. — Prima di un’ora il pesce non sarà a terra e intanto assaggeremo una dozzina di garitse.

— Se si tratta d’una sola ora, vada, — disse Tabriz.

— Le emozioni di questa notte a dire il vero mi hanno aguzzato l’appetito. Vieni, signore. —

Hossein, che sembrava sempre preoccupato, li seguì ed entrarono in una catapecchia che aveva le pareti di fango ed il tetto di canne palustri e che formava una sola stanza non troppo vasta.

Un uomo, giovane assai, poichè poteva avere appena vent’anni, quasi avesse indovinato il desiderio dei suoi avventori, stava friggendo in una padella di rame, piena di grasso di cammello, dei pesci.

— Padrone, — disse Karaval, scambiando col cuciniere un rapido sguardo, — servi qualche cosa a questi signori.

— Ho delle garitse pronte, — rispose il cuciniere, che non era altri che Dinar. — Sono già cotte a puntino e doveva servirle al comandante dell’Emiro.

— Ne manderai degli altri più tardi — rispose Karaval. Noi paghiamo. —

Dinar levò i pesci, li depose su un piatto di creta e li servì ai tre uomini, che si erano seduti intorno ad una tavola, l’unica che si trovasse nella camera.

— Signori, — disse Karaval, quand’ebbe mangiato un paio di pesci, — mentre voi terminate la colazione vado a noleggiare la scialuppa.

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Fra un quarto d’ora noi saremo al sicuro al di là della frontiera.

— Va’, — rispose Tabriz, che faceva onore ai pesci e che aveva la bocca piena.

Anche Hossein attaccava con molto appetito i pesci e pareva che per un momento avesse dimenticato Talmà, il beg ed anche Abei.

— Signore, — disse il gigante, quando il piatto fu vuoto, un’altra dozzina ci starebbe, almeno, nel mio stomaco.

Quel birbone di loutis aveva ragione di vantare questi eccellenti abitanti dell’Amur-Darja. Non ne ho mai mangiati di così delicati.

— Se ti fa piacere ordina, — rispose Hossein che era ricaduto nei suoi pensieri. — Il loutis pagherà lui per ora.

Tabriz si era voltato gridando:

— Ehi, cuciniere, fa lavorare ancora una volta la tua padella.

— Sì, quando mi avrete detto chi siete e dove andate, — rispose una voce che non era quella di Dinar.

Tabriz si era alzato vivamente, subito imitato da Hossein.

Il cuciniere era scomparso e invece, dinanzi alla porta, si trovava un uomo barbuto, d’aspetto poco rassicurante, che aveva nella larga fascia un vero arsenale fra pistole, jatagan e kangiarri, accompagnato da una mezza dozzina d’usbeki, armati non meno formidabilmente di lui.

— Chi sei e che cosa vuoi tu? — chiese Tabriz, atterrando istintivamente la pesante scranna su cui si era seduto.

— Un ufficiale dell’Emiro di Bukara, — rispose l’uomo barbuto, con alterigia, — snudando con un gesto tragico uno dei suoi kangiarri.

— Allora mandami il cuciniere, onde ci prepari degli altri pesci, così potrai assaggiarne anche tu in nostra compagnia. L’ufficiale aggrottò la fronte e fece un gesto sdegnoso.

— Io, con voi! — esclamò.

— Ehi, quell’uomo, — disse Tabriz, — ora sappi che questo signore, che ha fatto colazione con me, è il nipote d’uno dei più famosi beg della steppa dei Sarti. Giù il cappello!...

— Voi non siete altro che banditi, ricercati dal mio signore, — rispose l’ufficiale. — Arrendetevi o vi faccio a pezzi... —

Non potè terminare la frase. Tabriz, preso da un’impeto di [p. 244 modifica]furore, aveva alzata la sedia e gliel’aveva scaraventata addosso con tale impeto da farlo stramazzare al suolo più morto che vivo.

Gli uomini che lo accompagnavano si erano subito gettati avanti coi kangiarri e cogli jatagan in mano, cercando d’irrompere nella stanza e di precipitarsi addosso ai due turchestani.

Hossein che li teneva d’occhio, con una mossa fulminea aveva sollevato la tavola e l’aveva scaraventata attraverso la porta, sbarrando loro il passo.

— Addosso coi kangiarri, Tabriz! — gridò poi.

I sei usbeki, arrestati di colpo e spaventati anche dalla statura imponente di Tabriz, avevano dato indietro, scaricando due o tre colpi di pistola a casaccio.

Vedendo poi roteare in alto i due kangiarri dei turchestani, ritennero più opportuno alzare i tacchi e scapparsene, senza occuparsi del disgraziato ufficiale che era rimasto svenuto dinanzi alla porta.

— Siamo stati traditi! — gridò Tabriz, che pareva in preda ad un terribile accesso di collera. — Il loutis ci ha venduti!...

— Sì, il miserabile! — rispose Hossein.

— Gli strapperò il cuore!

— Ed io gli taglierò la testa!...

— Canaglia!...

— Birbante!...

— Ah!... C’è l’ufficiale!

— Buona presa, Tabriz!

— E buon ostaggio!... Vieni con me, mio caro. —

Allungò le braccia al di là della tavola, abbrancò il disgraziato per la giubba e lo alzò come se fosse un fantoccio.

— Ecco di che rinforzare la nostra barricata, — disse. — Vedremo se gli usbeki oseranno fucilarlo.

— Non migliorerà di molto la nostra situazione, Tabriz, — disse Hossein. — Come potremo resistere noi, che abbiamo le pistole scariche?

— E queste, signore? — disse il gigante, levando le due a doppia canna, che portava alla cintura il prigioniero.

— Quattro palle valgono ancora qualche cosa, quando si sanno mandare all’indirizzo giusto.

Vengano!... Ah!.... I birbanti!...

E quel cane di loutis diceva che questo era un villaggio di [p. 245 modifica]pescatori!... Non morrò contento se non gli mangerò il cervello per lo meno. —

Due dozzine di usbeki erano comparsi a breve distanza dalla casupola, armati non solo di pistole e di armi bianche, bensì anche di moschettoni.

Li guidava un uomo piuttosto attempato, d’aspetto imponente, che portava sul capo il turbante verde, il distintivo degli uomini che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca e che perciò hanno il diritto di essere considerati come una specie di santoni.

— Chi sarà quel brutto muso? — si chiese Tabriz, che lo spiava attraverso il vano lasciato fra la sommità della tavola e la volta della porta. — Non sarà il tuo turbante verde che ti salverà dalle palle della pistola di questo imbecille.

Padrone, sei pronto? Qui si tratta di difendere la pelle e la nostra libertà.

— Li aspetto, — rispose semplicemente Hossein, che si era inginocchiato dietro alla tavola.

Cerchiamo di dare una buona lezione a questi furfanti. —