Le Laude (1915)/XLVI. Como l'anima per fede viene a le cose invisibile

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XLVI. Como l'anima per fede viene a le cose invisibile

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XLVI. Como l'anima per fede viene a le cose invisibile
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XLVI

Como l’anima per fede viene a le cose invisibile

     Con gli ocelli ch’agio nel capo — la luce del dí mediante
a me representa denante — cosa corporeata.
     Con gli occhi ch’agio nel capo — veggio ’l divin sacramento,
lo preite me mostra a l’altare, — pane sí è en vedemento;
la luce ch’è de la fede — altro me fa mostramento
agli occhi mei c’ho dentro — en mente razionata.
     Li quattro sensi dicono: — Questo si è vero pane.
Solo audito resistelo, — ciascun de lor fuor remane,
so’ queste visibil forme — Cristo occultato ce stane,
cusí a l’alma se dáne — en questa misteriata.
     Como porría esser questo? — vorríal veder per ragione,
l’alta potenzia divina — somettiriti a ragione;
piacqueglie lo ciel creare — e nulla ne fo questione;
voi que farite entenzone — en questa sua breve operata?
     A lo ’nvisibile cieco — vien con baston de credenza,
a lo divin sacramento — vienci con ferma fidenza;
Cristo che lí ce sta occulto — ditte la sua benvolenza,
e qui se fa parentenza — de la sua grazia data.
     La corte o’ se fon ste noze — si è questa chiesa santa,
tu vien’ a lei obedente — ed ella de fé t’amanta;
poi t’apresenta al Signore, — essa per sposa te pianta,
loco se fa nova canta — ché l’alma per fé è sponsata.
     E qui se forma un amore — de lo envisibile Dio;
l’alma non vede, ma sente — che glie despiace onne rio:
miraeoi se vede infinito: — lo ’nferno se fa celestío,
prorompe l’amor frenesío — piangendo la vita passata.

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     O vita mia maledetta, — mondana, lussuriosa,
vita de scrofa fetente, — sozata en merda lotosa,
sprezando la vita celeste — de l’odorifera rosa,
non passerá questa cosa — ch’ella non sia corrottata.
     O vita mia maledetta, — villana, engrata, soperba,
sprezando la vita celeste — a Dio stata so sempre acerba,
rompendo la lege e statuti, — le sue santissime verba,
ed esso de me fatt’ha serba, — ché non m’ha a lo ’nferno dannata.
     Anima mia, que farai — de lo tuo tempo passato?
non è dannagio da gioco — ch’ello non sia corrottato;
pianti, sospiri e dolori — sirágione sempre cibato;
lo mio gran peccato — ch’a Dio sempre so stata engrata.
     Signor, non te veio, ma veio — che m’hai en altro om mutato;
l’amor de la terra m’hai tolto, — en cielo sí m’hai collocato;
te dagetor non vegio, — ma vegio e tocco ’l tuo dato,
ché m’hai lo corpo enfrenato — ch’en tante bruttur m’ha sozata.
     O castitate, que è questo — che t’agio mo en tanta piacenza?
ed onde speregia esta luce — che data m’ha tal conoscenza?
vien de lo patre de lumi — che spira la sua benvoglienza
e questo non è fallenza — la grazia sua c’ha spirata.
     O povertate, que è questo — che t’agio mo en tanto piacire,
ca tutto lo tempo passato — orribel me fosti ad udire?
piú m’affligea che la freve — quando venea ’l tuo pensire,
ed or t’agio en tanto desire, — che tutta de te so enamata.
     Venite a veder meraveglia — che posso mo el prossimo amare,
e nulla me dá mo graveza — poterlo en mio danno portare;
e de la iniuria fatta — lebbe sí m’è el perdonare;
e questo non m’è bastare — se non so en suo amor enfocata.

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     Venite a veder meraveglia — che posso mo portar le vergogne,
che tutto ’l tempo passato — sempre da me fuor da logne;
or me dá un’alegreza, — quando vergogna me iogne,
però che con Dio me coniogne — nella sua dolce abracciata.
     O fede lucente, preclara, — per te so venuto a sti frutti;
benedetta sia l’ora e la dine — ch’io credetti a li toi mutti;
parine che questa sia l’arra — de trarme a ciel per condutti;
l’affetti mei su m’hai redutti — ch’io ami la tua redetata.