Le Laude (1915)/XLVII. De la battaglia del Nemico

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XLVII. De la battaglia del Nemico

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XLVII. De la battaglia del Nemico
XLVI. Como l'anima per fede viene a le cose invisibile XLVIII. De l'infirmità e mali che frate Iacopone demandava per eccesso de carità

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XLVII

De la battaglia del Nemico

     Or udite la battaglia — che me fa el falso Nemico,
e serave utilitate — se ascoltáti quel ch’io dico.
     Lo Nemico sí me mette — sutilissima battaglia,
con quel venco sí m’afferra, — sí sa metter sua travaglia.
     Lo Nemico sí me dice: — Frate, frate, tu se’ santo;
grande fama e nomenanza — del tuo nome è en onne canto.
     Tanti beni Dio t’ha fatti — per novello e per antico,
non gli t’avería mai fatti — se nogl fossi caro amico.
     Per ragione te demostro — che te pòi molto alegrare,
l’arra n’hai del paradiso — non ne pòi mai dubitare.
     — O Nemico engannatore, — como c’entri per falsía!
fusti fatto glorioso — en quella gran compagnia.
     Molti beni Dio te fece — se gli avessi conservati;
appetito sciordenato — su del ciel t’ha trabocato.
     Tu diavol senza carne, — ed io demone encarnato,
c’agio offes’el mio Signore — non so el numero del peccato. —
     El Nemico non vergogna, — a la stanga sta costante,
con la mia responsione — sí me fere duramente.
     — O bruttura d’esto mondo, — non vergogni de parlare,
c’hai offeso Dio e l’omo — en molte guise per peccare?
     Io offesi una fiata, — enestante fui dannato,
e tu, pieno de peccato, — pènsete d’essere salvato?
     — O Nemico, giá non penso — per mio fatto de salvare,
la bontate del Signore — sí me fa de lui sperare.
     So securo che Dio è bono, — la bontá de’ essere amata,
la bontate sua m’ha tratta — d’esser de lui ’namorata.
     Se giamai non me salvasse — non de’ essere meno amato:
ciò che fa lo mio Signore — sí è iusto ed èmme a grato. —
     Lo Nemico si remuta — en altra via tentazione:
— Quando farai penitenza, — se non prendi la stascione?

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     Tu engrassi questa carne — a li vermi en sepultura,
deverila cruciare — en molta sua mala ventura.
     Non curar piú d’esto corpo, — ché la cura n’ha ’l Signore
né de cibo né de vesta — non curar del malfattore.
     — Falsadore, io notrico — lo mio corpo, no l’occido;
de la tua tentazione — beffa me ne faccio e rido.
     Io notrico lo mio corpo — che m’aiuta a Dio servire,
a guadagnar quella gloria — che perdesti en tuo fallire.
     — Gran vergogna è a te fallace — sostener carne corrutta,
la battaglia cusí dura — guadagnar lo ciel per lutta.
     Tu me par che si’ indiscreto — per lo modo che tu fai,
cruciar cusí el tuo corpo — e de lui cagion non hai.
     Tu deveri aver cordoglio, — ché è vecchio e descaduto,
non deveri poner soma — né che solva piú tributo.
     Tu deveri amar lo corpo — como ami l’anima tua,
ché t’è grande utilitate — la prosperitate sua. —
     — Io notrico lo mio corpo — dargli sua necessitate,
accordati simo ensieme — che vivamo en castitate.
     Per l’astinenza ordenata — el corpo è deventato sano,
molte enfirmitá ha carite — che patea quand’era vano.
     Tutta l’arte medicina — sí se trova en penetenza,
che gli sensi ha regolati — en ordenata astinenza.
     — Un defetto par che aggi — che è contra la caritate;
degli pover vergognosi — non par ch’agi pietate.
     Tu deveri toller frate — che te voil l’om tanto dare,
sovenir a besognosi — che vergognan demandare.
     E faríe utilitate — molto grande al daitore,
e siría sostentamento — grato a lo recepetore.
     — Non so piú che m’è tenuto — lo mio prossimo d’amare,
e per me l’agio arnunzato — per potere a Dio vacare.
     S’io pigliasse questa cura — per far loro acattaría,
perdería la mia quiete — per lor mercatantaría.
     S’io tollesse e daesse, — nogl porría mai saziare,
e turbára el daitore — non contento del mio dare.
     — Un defetto par che agi — del silenzo del tacere,
multi santi per quiete — nel deserto volser gire.

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     Se tu, frate, non parlassi — siría edificazione,
molta gente convertèra — ne la tua animazione.
     La Scrittura en molte parte — lo tacere ha commendato,
e la lengua spesse volte — fa cader l'om en peccato.
     — Tu me par che dichi vero, — se bon zelo te movesse;
en altra parte vòi ferire — s’io a tua posta tacesse.
     Lo tacere è vizioso — chello o’ l’om dèi parlare:
lo tacer lo ben de Dio — quando ’l deve annunziare.
     Lo tacer ha ’l suo tempo, — el parlar ha Sua stagione,
curre omo questa vita — fin a consumazione.
     — Un defetto par che agi: — che lo ben non sa’ occultare,
el Signor te n’amaestra — ch’en occulto el degi fare.
     De far mostra l’om del bene — pare vanaglorioso,
el vedente exdificato — demostrarli l'om tal oso.
     Lo Signore che te vede — esso sì è ’l pagatore,
non far mostra al tuo frate — che sia tratto a farte onore.
     — La mentale orazione — quella occulta rendo a Dio.
e lo cor serrat’ha l’uscio, — ché noi vegia el frate mio.
     Ma la orazion vocale — quella el frate deve audire:
ché sirìa exdificato, — se la volesse tacire.
     Non se deggon occultare — opere de pietate,
se al frate l’occultasse, — caderìa en impietate.
     — Frate, frate, haime vento: — non te saccio piú que dire:
veramente tu se’ santo, — sì te sai da me coprire!
     Non trovai ancor chivelli — ch’esso m’agia sì abattuto;
en tante cose t’ho tentato — ed en tutte m’hai venciuto.
     Tal m’hai concio a questa volta — che de me sì sta securo;
che giamai a te non torno. — sì t’agio trovato duro!
     — Or è bono a far la guarda — che m’hai data securtate;
omne cosa che tu dici, — sì è pien de falsitate.
     Se en tuo ditto me fidasse, — piú siría che pazo e stolto
ché da onne ventate — sì se’ delongato molto.
     Io faraio questa guarda, — che staraio sempre armato
contra te, falso Nemico, — ed encontra lo peccato.
     Or te guarda, anima mia, — che ’l Nemico non t’enganni
ché non dorme né cotoza — per farte cadere nei banni.