Le femmine puntigliose/Lettera di dedica

Da Wikisource.
Lettera di dedica

../ ../L’autore a chi legge IncludiIntestazione 18 aprile 2020 100% Da definire

Le femmine puntigliose L'autore a chi legge
[p. 91 modifica]

ALL’ILLUSTRISSIMO

SIGNOR CAVALIERE

FRANCESCO DE’ MEDICI

PATRIZIO FIORENTINO.


L
'UMANA felicità, Illustriss. Sig. Cavaliere, direbbe il Poeta essere come l’Araba Fenice, che si crede vi sia, ma non si sa dove si ritrovi; tutti la cercano, pochi sono quelli che la conoscono, e credo che pochissimi sieno quelli che di possederla si vantino. Mancano i mezzi a taluno per rintracciarla, a talun altro manca il merito per conseguirla. Vi è chi non può esser felice per difetto di natura, v’è chi non può esserlo per difetto di volontà; poichè, cercando l’umana felicità tra i vizi, o tra i piaceri scorretti, trova in cambio di essa le amarezze, i pericoli, le disavventure. Io certamente sono uno di quelli, che lusingar non si possono di possederla, ma ho sempre desiderato conoscerla, e con que’ principi di Morale Filosofia, che Dio mi ha impressi nell’animo, sono andato attentamente osservando quelle persone che mi parevano esser felici, per istabilire se veramente lo fossero. Per formare un tale giudizio, conosco anch’io che non bastano le osservazioni, che far si possano su i caratteri delle persone, e nè tampoco sulle azioni loro, poichè la vera felicità consiste nella contentezza del cuore, e questo occultandosi per lo più dalla malizia degli Uomini, a pochissimi si vede in fronte, ed è sempre equivoco e pericoloso il giudicare di essi. Vi sono però certi adorabili temperamenti, che hanno la sincerità per costume, che mostrano a tutti il cuore e colle parole e colle azioni loro, e fra questi andava io rintracciando l’Uomo felice, perchè se non lo è, merita almeno di esserlo.

Parmi di averlo già ritrovato, e se l’umana felicità, Illustriss. Sig. Cavaliere, non alberga nel vostro seno, io non saprei in qual altra parte del Mondo continuare lo studio di rintracciarla. Non [p. 92 modifica]crediate già ch’io voglia ora formar un panegirico di quelle lodi, che per gl’infiniti meriti vostri vi son dovute, o per acquistarmi vieppiù la protezione vostra, o per indurvi ad accettare con miglior animo quella Commedia che umilmente vi raccomando e vi dedico, e con questo mio riverente foglio ardisco di presentarvi. Voi siete naturalmente gentile, amoroso, benefico; non avete bisogno di esser lodato, nè io saprei farlo adequatamente. Vi prego permettermi di ragionare di Voi, e di ben bene considerarvi, sicchè io possa non solo colla opinione mia, ma di quelli che delle ragioni mie persuasi saranno, decidere, stabilire e consolarmi, che se nel Mondo può darsi vera felicità, questa con Voi alberga, da Voi meritata e da Voi posseduta. Per provare l’assunto mio è necessario, prima d’ogni altra cosa, ch’io stabilisca qual sia l’umana felicità. Questa io la considero in varj gradi distinta, li quali se in Voi saranno verificati, niuno potrà contendermi che Voi siate l’Uomo felice, che siate Voi quella Fenice che ricercasi e non trovasi.

La prima felicità, comune a tutti i viventi dell’uman genere, e l’Essere. Sono infinite le creature possibili, come è infinita l’onnipotenza del Creatore, ma che noi siam compresi nel numero determinato degli Uomini, è una felicità incomprensibile, senza di cui nè il bel Mondo, nè il bellissimo Cielo sarebbe stato per noi. Vero è che questo Essere per taluni sarà funesto, e meglio sarebbe per essi che stati non fossero; ma colpa sarà cotesta del tristo abuso che fatto avranno di un tanto bene, e confessar dovranno aver posseduto quella inesplicabile felicità che a tutte le altre poteva loro servir di guida. Voi dunque siete in possesso di questo bene; comune agli Uomini tutti, egli è vero, ma felicissimo in Voi, poichè conoscendone il pregio, e ottimo uso facendo della vita vostra, grato a Dio vi rendete, e utile alla Società Umana. Dopo la felicità dell’Essere, qual altra maggiore può immaginarsi oltre quella del nascere in grembo di Santa Chiesa, succhiando col latte la vera Fede, e cancellando coll’acque del Sacro Fonte la colpa de’ primi nostri Parenti? Gli occulti, impenetrabili arcani della Provvidenza ha noi arricchiti di un tanto bene. Miseri quelli, che nati fra gli errori ed allevati colle superstizioni, [p. 93 modifica]chiudono le orecchiue alla grazia, e induriscono il cuore sotto il peso della ingannevole educazione; ma più miseri quelli ancora, che prevaricatori si chiamano del Vangelo, ribelli della Cattolica Religione, i quali vendendo, a similitudine di Esaù, per poche lenti la Primogenitura Celeste, calpestano il più bel dono della imperscrutabile predilezione Divina. Voi lo conoscete questo bel dono, e colle azioni vostre e con i vostri ragionamenti date altrui a conoscere aver radicata nel petto la vera Fede. Non si sentono a Voi cadere dal labbro certi arguti concetti, che feriscono la Religione nel cuore. Pare a’ dì nostri che Uomo non sia di lettere colui che di certi oltramontani libri non sa far pompa; colui che non sa porre in ridicolo il Dogma, le Tradizioni e fino le sacre Carte medesime, spargendo massime false, anche contro il proprio suo cuore; detestate internamente nell’animo, ma lanciate con imprudenza, o per acquistare la grazia di un personaggio, o per far ridere la brigata. Si può rinunziare per meno ad una sì grande felicità?

Dietro a cotesta inestimabile ed eterna, pongo io quella immediatamente di sortire dalla natura un corpo bene organizzato, una macchina ben disposta, in cui l’armonia delle parti e l’equilibrio degli umori formino un perfetto temperamento. Non vi ha dubbio che l’anima non sia d’un istessa natura, di una bellezza e perfezione medesima in tutti gli Uomini, onde la diversità degli abiti, delle inclinazioni e delle passioni procede dalla costruzione di questa macchina; la quale fa piegar l’anima ove, per così dire, le ruote interne la spingono. Vero è che la ragione fu data all’Uomo da Dio, a distinzione di tutte le create cose, per reggere e illuminare quest’anima; ma non è da desiderarsi che la Ragione abbia da usar violenza agl’impeti della natura, e beati coloro i quali si conducono per forza d’inclinazione a operar bene, senza la guerra delle passioni nemiche; e l’Anima e la Ragione sedendo unite, e comandando nel cuor dell’Uomo, danno esse il moto alle membra, ai sensi, alla volontà, ai pensieri; nè schiave, nè tiranne del corpo, ma di lui compagne, regolatrici ed amiche.

Per questa parte, Veneratissimo Sig. Cavaliere, chi può [p. 94 modifica]negare che Voi non siate felice? Non parlo già dell’avvenenza esterna del vostro corpo, la quale non è poi tanto necessaria negli Uomini; ma dell’interna proporzion delle parti, dell’armonia degli organi, ove l’anima le sue operazioni principalmente eseguisce, la quale interna perfezion delle parti, se agli occhi non comparisce, coll’uso e colla pratica si riconosce; quella egualità di temperamento, quella dolcezza di tratto, quella indifferenza per le vicende umane, la compassione verso de’ bisognosi, la moderazione nelle passioni, l’umiltà in mezzo alle magnificenze, sono virtù dell’anima, non impedite in Voi da alcuna mala organizzazione del corpo, onde vi riesce di eseguire tanti abiti virtuosi, senza il contrasto delle passioni e con facile studio della ragione. Anche la forma esterna è argomento dell’interna bellezza, e quantunque, come diceva, non sia necessaria nell’Uomo quella beltà di volto, di cui le Donne abbisognano, Voi avete anche questa prerogativa di più, e potete assicurare, colla dolcezza del vostro viso, la candidezza del vostro cuore.

Il quarto grado dell’umana felicità lo reputo io il nascere da Genitori onesti, molto più poi da nobili Genitori, e tanto questa si accresce, quanto più puro è il sangue che dà la vita1. Bene massimo egli è cotesto, perchè col sangue si traggono per lo più da’ nobili Genitori le inclinazioni magnanime e generose; e sarà un bene singolarissimo anche per questo, perchè gli Uomini lo rispettano, lo stimano e lo hanno in venerazione. Chi sa distinguere [p. 95 modifica]l’onesto contegno dalla vanità e dalla superbia, può ricevere senza colpa gli omaggi degl’inferiori. Anzi non deve seco loro familiarizzarsi soverchiamente, ma proteggerli con amore, trattarli con dolcezza e farsi rispettare beneficandoli.

Se in Voi dunque ricercasi quella felicità, che dalla nobiltà del sangue deriva, a chi è ignota l’origine della Sovrana Casa de’ Medici, da cui la vostra nobilissima è provenuta? Questo basta per provare la chiarezza de’ vostri natali; la Croce invitta de’ Cavalieri di Malta brilla mirabilmente sul vostro petto e tutti quegli onori, che possono caratterizzare una Famiglia illustre, nella vostra abbondantemente si trovano. Farei torto a chi per avventura leggesse questo mio foglio, volendone parlare distintamente e vi vorrebbero dei volumi per farlo. A me basta poter concludere che felicissimo siete rispetto alla nobiltà de’ natali, che della felicità umana ho collocato nel quarto grado.

Che cosa pensate Voi ch’io voglia considerare nel quinto? La ricchezza forse? No, non ancora. Permettetemi ch’io chiami felicità una cosa, la quale potrebbe da alcuni credersi una facezia, ed a me sembra un articolo molto essenziale. Considero dunque felicità umana il nascer Uomo, e non Donna. Che dite Voi, Gentiliss. Sig. Cavaliere, parvi che sia ragionevole il mio pensiero? La donna è più gentile di noi; è anche più bella, se certa bellezza esposta agli occhi altrui si consideri; ella è da noi provveduta, servita, amata. Ma se cerchiam fra le donne le più servite, le meglio amate, evvi paragone veruno colla libertà nostra, colla nostra virile autorità, col dominio (però discreto), che Dio ci ha dato sopra di esse? Quella perpetua soggezione che soffrono, e compensata bastantemente colle finezze che da noi ricevono? Non parlo io già di quelle donne, che hanno l’abilità di porsi gli uomini sotto i piedi, e calpestando le leggi del loro sesso, vivono con una libertà, che eccederebbe anche il diritto degli uomini; queste hanno poi de’ peggiori mali; sono in discredito presso le persone onorate, si deridono nelle conversazioni, e passano per cattiva erba nel giardino del Mondo. Parlo delle femmine oneste, delle femmine virtuose; possono essere più soggette di quel che sono? Fanciulle, [p. 96 modifica]sotto l’austera discuplina de’ genitori. Congiunte, sotto quella tal volta asprissima de’ mariti. Vedove, soggette assai più alla critica, alle osservazioni del Mondo, alle leggi del buon costume. Le religiose sarebbero le più felici, se volessero esserlo. Nell’angusto loro recinto sono meno soggette di quelle che passeggiano per le strade; obbediscono, è vero, ma sono anche in grado di comandare, e si obbediscono fra di loro per effetto di virtuosa rassegnazione, che rende amabile l’obbedienza. Ciò non ostante, trovo preferibile per troppe ragioni lo stato nostro e credo felicità l’esser Uomo, ed io mi consolo di esserlo, e mi rallegro con Voi, che lo siate; e tanto più ho ragione di rallegrarmi, quanto che non solo siete Uomo per la virile essenza, ma lo siete col senno, colla prudenza e colle virtù robuste dell’animo.

Il nascere in buon Paese è un altro grado di felicità, che io considero in sesto luogo. Grandissima disavventura per mio giudicio è di coloro che nascono in un paese tiranno, in un paese incolto, in un clima infelice. Chi nasce in Firenze, come Voi nato siete, nasce nel Giardino del Mondo; giacchè l’Europa è la migliore delle sue quattro parti, e in questa ha il primo luogo l’Italia, e dell’Italia la bellissima parte è la Toscana tutta; e della Toscana la più vaga, la più deliziosa e l’inclita sua Capitale. Nulla manca a Firenze, per essere un soggiorno invidiabile. La situazione è amena, il clima e dolcissimo, le vie spaziose e piane, i magnifici Tempj, i sontuosi Palagi, le pubbliche grandiose fabbriche, i ponti, il regal fiume, le Gallerie stupende, le Biblioteche, le statue, i Giardini, le amenissime Ville, i Teatri, i pubblici divertimenti son forti attrattive de’ forestieri, che non solo vengono di lontano per vagheggiarla, ma lungamente vi si trattengono per goderla. E che dirò io della umanità, della cortesia de’ gentilissimi Fiorentini? Questa è adorabile sopra tutto; questa ha colmato me pure di beneficenze e di grazie, e se tanto si è usato meco, senza merito e senza grado, convien dire che benignissimi sian per natura, e a compatire e a beneficare inclinati. Che più poteva io desiderare in questa Città famosa, patria d’uomini illustri, di felicissimi talenti a’ giorni nostri ripiena? Accolte furono le mie Commedie da’ [p. 97 modifica]Fiorentini2, sofferte furono sulle Toscane scene ed acclamate ancora, indi alla luce mandandole per via dei torchi, lo dirò a mia gloria, s’affollarono per averle. Voi, Benigniss. Sig. Cavaliere, Voi più di tutti3 mi deste animo, protezione e consiglio, giungeste per fino ad esibirmi denaro, e sarei stato certo di ogni vostro soccorso, se Iddio Signore benedicendo le Opere mie, non mi avesse col frutto de’ miei sudori assistito. Non cesserò mai di lodar Voi e di benedire la vostra Patria e di considerar felicissimo chi in essa ha la fortuna di nascere, anche per un’altra ragione, non inferiore a quelle delle quali ho parlato. Questa e la purgatissima Lingua che vi si parla, mentre sceltissime sono le parole, graziosi gli adagi, e spiritosi i concetti4; ed utilissimo studio credo io per un Uomo di lettere, trattenersi per qualche tempo in Firenze ad imparar dalle balie e dalle fantesche ciò che altrove si mendica dal Bembo, dal Boccaccio o dalla Crusca medesima. Ma già ben mi accorgo che a troppo lunga faccenda impegnato mi sono, esaminando i gradi della umana felicità. Altre circostanze importantissime mi rimangono dopo le sei da me alla meglio considerate, le quali non deggio io omettere, perchè non credasi, o che io non le conosca, o che in Voi non si ritrovino. Le accennerò brevemente, per non abusarmi della vostra umanissima tolleranza, e le rammenterò soltanto accennandole alla sfuggita.

In settimo luogo, quel che rende l’Uomo felice è la Salute, senza la quale ogni altro bene di questa vita è un miserabile bene; e Voi, grazie all’Altissimo, siete sano, e Dio vi faccia esser tale in tutti i giorni di vostra vita, che vi bramo lunghissima.

Succede in ottavo grado alla salute del corpo quella dell’animo, se a quella del corpo non si voglia preferire; chiarezza di mente, prontezza di spirito, fecondità d’intelletto sono segni evidenti di un animo sano, robusto e vivace, che rende l’Uomo più facilmente felice. Voi di ciò siete ben provveduto. Unir sapete [p. 98 modifica]alle applicazioni domestiche, dovute ad un ricchissimo patrimonio, lo studio delle lettere e l’erudizione. Ma giacchè il ricco patrimonio vostro mi è accaduto per incidente di nominare, lasciate che io vi dica essere la Ricchezza il nono grado della ricercata felicità.

Altri non avrebbono aspettato sinora a ragionare della Ricchezza, ma collocandola in più alto posto, l’avrebbono mandata innanzi a parecchi gradi, considerandola il sommo ben della vita. Io non ho certamente in tanta estimazione i tesori, che ardisca di anteporli alla salute, alle scienze, alla nobiltà e nè tampoco alla felicità della Patria, desiderandomi aver più tosto tre paoli al giorno in Italia, che dieci doppie in un dei gelati paesi del Settentrione. So che voi pure calcolate il bene delle vostre doviziose rendite, per mantenere con decoro e con lustro la nobilissima Casa vostra; ed il buon uso che fate dell’oro e dell’argento, dimostra che Voi lo apprezzate sol quanto merita, ma a quel che merita più, non lo preferite.

Non è fuor di proposito considerare fra i gradi della nostra felicità la Libertà ancora, e collocarla nel decimo luogo di questa nostra rassegna. Voi la godete perfettamente, con un Ordine in petto, che vi difende dalla catena del matrimonio. Io non dirò che sieno le nozze generalmente di peso agli Uomini, e di tormento; anzi sostituirei a questo grado di felicità il matrimonio medesimo, se di una discreta moglie potesse alcuno gloriarsi; ma poichè il dubbio è grande ed il pericolo è manifesto, la libertà è un gran bene, un bene che si conosce meglio quando si perde, ma è meglio non perderlo, a costo ancora di non conoscerlo perfettamente.

L’undecimo grado diamolo noi meritamente all’uso delle sociali Virtù. Rendono queste l’Uomo amabile e desiderato arbitro delle oneste conversazioni, e posseditore dei migliori cuori del Mondo. Sono certe virtù quelle che io chiamo virtù sociali, che derivano da una buona Morale e si adattano alle circostanze. Per esempio: ridere, barzellettare, brillare colle persone di spirito; ragionare colle persone di senno; non inquietare coloro che sono di malinconico umore; parlar di scienze coi dotti, astenersene cogl’ignoranti, non irritare i superbi, non avvilire i pusillanimi. Esser savio coi savi, [p. 99 modifica]ma ben guardarsi di non impazzire coi pazzi. Mentre accenno queste regole della felicissima Società, non intendo già di darle a Voi, quasicche abbiate ora necessità d’impararle. Voi siete adorno di tutte le più amabili qualità; siete un perfetto conoscitore del Mondo, e avete per gli onesti piaceri, che il Mondo ci somministra, un ottimo discernimento, un perfettissimo gusto.

Ecco le duodecima ed ultima condizione, la quale, secondo me, può render l’Uomo felice: il buon gusto, il sano discernimento. Iddio ha creato il Mondo per noi e tutte le sue delizie sono delizie nostre. Guardiamoci dall’abusarcene, non dal goderle. Senza andar dietro ai piaceri vietati, tanti noi ne abbiamo dei permessi, che smentir possiamo coloro i quali tristo chiamano il Mondo. È l’appetito smoderato degli Uomini quello che cambia aspetto alle cose; per altro vi è da prendersi divertimento, senza traviare dal sentiero dell’onestà. Vi vuol buon gusto e perfetto discernimento; Voi l’uno e l’altro avete, e lodevole uso ne fate: Voi siete dunque felice. Che se alcuno mi volesse opporre, essere necessario per la felicità dell’Uomo il comando; no, gli direi, t’inganni. Possono gli Scettri e le Corone appagar l’ambizione, non rendere contento il cuore. Un grado solo dell’umana felicità che manchi al Sovrano, lo può rendere nella sua grandezza infelice, e tutta la sua grandezza non vale a procacciargli la pace del cuore.

Io dunque mi rallegro con Voi, Illustriss. Sig. Cavaliere, e mi rallegro di cuore con me medesimo, per aver ritrovato e conosciuto in Voi il tesoro dell’umana felicità. Voi non potete non desiderare felici gli altri per effetto della virtù; onde a ragion mi lusingo, che mi vorrete beneficare, donandomi ora per sempre la benignissima grazia vostra; accettando come un tributo d’ammirazione, di servitù ed ossequio questa miserabile Commedia che vi offerisco, e permettendomi che possa dire di essere, quale umilmente mi sottoscrivo

Di V. S. Illustriss.

Umiliss. Devotiss. ed Obblig. Serv.
Carlo Goldoni.


  1. Segue nell’ed. Paperini (t. III, 1753) dove fu stampata la prima volta questa lettera di dedica: Vero è che l’origine di tutti noi da un solo Padre deriva, che la pasta onde siam formati è la medesima in tutti, e che di tutti egualmente struggesi collo stesso fine; ma non può negarsi però che coll’andar del tempo non siasi prodotta certa diversità fra gli Uomini, che fa distinguere dall’aspetto il nobile dal plebeo, siccome ancora gli Uomini di una nazione da quelli di un’altra. Ogni regola e soggetta alle sue eccezioni; accordo ancor io, e la pratica lo dimostra, che la Natura scherzando darà talvolta ad un pastorello un’immagine da Sovrano, ma per lo più si ravvisa il contrario, anzi per meglio dire, la natura giustifica per lo più coi lineamenti del volto la nobiltà dei natali. Sia ciò derivato per ragion dell’educazione, che a poco per volta ha regolato la macchina in virtù degli abiti virtuosi, o sia per la natura de’ cibi, che hanno resa più delicata la complessione, o per la qualità degli esercizj, che quanto men faticosi, tanto più rendono gentile il corpo e avvenente, certissima cosa e che il nascere da Genitori nobili e un maggior bene. Bene massimo egli e altresì cotesto ecc.
  2. L’ed. Paper, aggiunge: come se difettose non fossero.
  3. Segue nell’ed. Paper.: compassionando le miserabili circostanze di un uomo, condotto dalla disperazione ad arrischiare moltissimo, per la salvezza della propria riputazione, Voi mi deste animo ecc.
  4. Nell’ed. Paper.: e spiritosi i concetti. Quivi parlasi quella Lingua, che tanto difficilmente dagli stranieri si scrive, ed utilissimo studio ecc.