Le feste dell'anno cristiano/Libro II

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Libro I Libro III
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LIBRO SECONDO.

     Ecco del vago Maggio il primo giorno,
Dell’alma Estate messaggier fiorito,
Viensene adorno; e per lo ciel sereno
Tra chiari rai d’Iperïone il figlio
S’affretta co’ Gemelli a far soggiorno:
Cara stagion; ma noi su prati erbosi
Con man Dedalea non tessiam ghirlande;
Anzi sposiamo a cetre inni divoti,
E nell’alta virtù de’ servi suoi
Celebriamo di Dio la pietà grande.
Jacopo non ci diè caduco esempio,
Onde l’alma si volga a van diletti,
Nè lo ci diè Filippo; altieri lumi,
Per cui nell’ombre della mortal vita
Scorgesi calle di gentil costume.
Ma pur come adivien, che in Orïente
Facendosi veder l’aureo mattino
Nel terzo dì di questo picciol anno,
Salmeggiando a gli altar, corra la gente?
Ed in bei panni il cittadin festoso
Mette in non cale suoi guadagni, e dona
A’ duri aratri il villanel riposo?
Perchè gaudio cotanto? alta Reina
Verso Gerusalem mosse veloce.
E sofferir non volle il cor fedele,
Che fra sassi negletti in scura fossa
Stesse l’onor dell’adorata Croce:
Affaticossi; e da quel fondo indegno
Ritornò glorïoso in chiara luce
Il caro Legno: il Legno, in cui sofferse
Il Figliuolo di Dio pena infinita,
Per dare a noi del Paradiso il Regno.
Ella marmi di Paro; ella d’Egitto
Trasse forti dïaspri, e pose in opera
Mille scarpelli, ed erse alberghi altieri,
In adornar le sacrosante travi
Attenta consumò tutti i pensieri:
Quivi le gemme fur di sua corona,
Quivi del manto suo gl’incliti fregi.
Musa, che hai sull’Olimpo i tuoi Permessi,
Or dammi cetra, ora furor mi spira
Sì, che io rompa il letargo a’ nostri regi,
S’ascolti cor, che per pietà sospira:
Prencipi eccelsi, che segnare in fronte
La Croce onnipotente avete in pregio,
Parvi giusto aspettar, che alme idolatre,
Lasciando il Gange la remota Aurora,
Vestano l’armi a disgombrare i varchi
Dal gran Sepolcro, che per voi s’adora?
Empia sciocchezza: ove torrete i cori?
Ove in pace spendete, ove in battaglia
Vostri tesori? se spiegate insegne,
Se rimbombano trombe, ecco le piagge
Tutte inondar di battezzato sangue.
Se depongonsi l’aste, ecco le cetre
Guidar dolci carole, ed ogni spirto
Sacrasi all’ozio, ed in lussuria langue:
Piantansi boschi; qui disgorga un fiume,
Là dolce si diffonde un picciol mare,
Opre ingegnose d’ammirabil mano;
Ma van correndo di Sïonne il monte
Turchi, Molossi, ed infedele armento
Lavasi i piedi immondi entro al Giordano.
Tutte lampeggian d’or, lampeggian d’ostri
Le nostre reggie, ed han fulgor di gemme,
Nel fango stassi Nazzarette intanto,
Ed infra rovi non appar Betlemme.
Ove spariti sono? ove sono iti
I Duci illustri, che di fede il petto,
Più che di ferro, in Chiaramonte armaro,
Per esempio di noi spirti ben nati?
Essi bramosi di celeste fama
Con lieto volto a bella morte andaro.
Ma par, che non ven caglia, o re scettrati;
E pur novello Urbano ecco vi chiama;
E pur v’invita: a’ sacri assalti ei grida,
E vinto il gel della canuta etate,

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Ed in terra ed in mar vuole esser guida,
Grazie impetrando alle falangi armate.
Oh se a’ nostri desiri alba ne mena
Ore sì liete, e per sì fatti voti
Rivolgonsi nell’alto astri felici,
Qual ne’ monti Febei vedrassi vena,
Che non trabocchi? ed a sì bei trofei
Quali non serviranno Aonii Cigni
Contra la forza degli orror Letei?
Dunque sorgiamo a venerare i Santi,
E perchè siano pronti i lor soccorsi,
Segui mio core a raccontarne i vanti.
Ove de’ giorni suoi quindici corsi
Non siano affatto, ha per usanza Giugno
Ornare il nome, ed il martir di Vito:
Vito, che tra lusinghe e tra minacce,
E tra percosse, e tra cocenti fiamme
Seppe nell’alto ciel farsi gradito:
Lucidissimo specchio, in cui si scorge
Come le pene, ove per Dio sostiensi,
Fanno felice: a gran ragion si vanta
Di sì canuto senno in gioventute
Sicilia, che ne fu la genitrice.
Ma poscia che otto volte in bella sera
Espero sorga, apparirà l’aurora,
Che le fasce mirò del gran Battista,
Di cui la vita a raccontare in terra,
Quanto fu grande, converría, che il Cielo
Mandasse fra’ mortali il Citarista.
Ei sen corre fanciullo entro il deserto
Di fere albergo: ivi fontane ed erbe
Fur suoi conviti, e di cammello il pelo
Le molli sete, onde vestiva il tergo:
Ivi forza di Sol, forza di gelo,
E dell’aria soffrì tutti gli oltraggi,
Pur flagellando in sè somma innocenza;
E quinci esposto agli altrui sguardi, ei fece
Lunge volar delle sue voci il suono,
Araldo a’ peccator di penitenza:
Ei raccolse i dispersi; ei loro il calle
Additò dello scampo, i cor perversi
Tonando ei fulminò: scettri, corone
Disprezzò, minacciò: spirto d’Elia
Tu spandi lume; tu precorri i lampi
Del Sol superno; tu riversi in fronte
L’onda del sacro fiume al gran Messia.
Per te scemò, per te cessò l’orgoglio
Il re d’Averno, che per te sue fiamme
Ardeano indarno; e fra tartarei zolfi
Non avea pur favilla Etna d’Inferno.
O da’ parenti già poco aspettato,
Per angelica voce al fin promesso;
E di grazie ripieno anzi che nato
A noi rivolgi il guardo, e per noi prega
Il Signor sommo, a cui dimori appresso:
Ma tu pregio del Tebro, e tu mio Nume,
Ciampoli, cui ritolto al cieco obblio
Fama cupidamente in guardia prende,
Vientene meco, ove celeste Euterpe
A rimembrar di Pietro inclite prove
Omai n’attende: qual feroce in arme
Campion dispiega glorïosa insegna,
Che non sia vile in paragone? e quali
D’antica Macedonica falange
Non rimarran sulla riviera Eoa
Scure corone? Pescatore ignoto,
Dentro il picciolo mar di Galilea
Mai sempre usato a remi, usato a sarte,
Soletto se ne vien, scalzo ed ignudo
Fra i sette Colli ad atterrar Tarpea,
Ed al popol domar crudo di Marte.
Quella madre di Dei, quella Giunone,
Quel tra fulmini suoi tanto adorato
Giove, fra mille scherni al fin divenne
Larva d’Inferno; e sel mirò Nerone.
Non per tanto, dirai, sotto il tiranno
L’ardito pescator morte sostenne;
Ei la sostenne: ma che poi? là dove
Pigliò l’anima afflitta il suo bel volo,
Chiara salendo alle superne rote;
Ivi appunto ad ognor bagnasi il suolo
E percotendo il petto alte preghiere
Fervidamente far turbe divote:
Nè solo vien il peregrin, che guarda
L’Orse stellate, e per li campi eterni
Volgersi attorno, e carreggiar Boote,
Lume nell’oceán non giammai spento;
Ma color, che rivolti al Polo d’Austro
Godono il chiaro Sol per nuovi mondi,
Dell’ardir Savonese alto argomento:
Quivi dan vanto alle ricchezze eccelse
Dell’ampio tempio, e de i cotanti altari;
Benchè fra monti lor fiumi d’argento
Se ne corrano ognor con foci immense,
E che di gemme sian superbi i mari.
Tal feo decreto l’immortal possanza,
Che dal seggio trabocca i cuori altieri
Ed i dimessi volentier sublima,
Perchè di lui si tema, e in lui si speri.
Or noi siam pervenuti a mezzo il calle,
Per appressar la disïata meta,
Ove correndo un anno, al fin si posa.
Giugno se ne riman dietro le spalle,
E luglio ardente ne raccoglie: omai
L’arida cicaletta assorda il cielo
Con ostinate strida; ed ogni rivo
Omai lascia languir l’erbe assetate;
E Febo per lo ciel batte Piroo
Con l’aurea sferza; ed ei gli eterei smalti
Calca verso il Leon, stelle infiammate.
Io non per tanto seguirò mia via
Fuor d’ogni affanno, che mi dan conforto
Le vestigia bellissime invïate
Verso l’alta magion di Zaccaria,
Però che mossa da’ segreti uditi
La non meno che il Sol Vergine eletta,
Con ratti passi a visitar s’accinse
La virtù singolar d’Elisabetta:
Ne di porpora il busto, e non si cinse
Di perle i fianchi: alla mortal vaghezza
Dello stuol femminil lasciò le pompe,
E l’alterezza delle regie spoglie.
Ella reina, e destinata a scettri
Dell’infinita regïon celeste
Con poveretto velo i crini adombra
Semplicemente, e di vulgari manti
Le membra scelte ad adorarsi veste:
Ma stella scintillante in ciel sereno
È scura luce, e tra sue rose Aurora
Sorge dall’oceán vile a mirarsi;
Anzi fulgido Sol splende via meno,
Quando dal sommo delle sfere ei spande

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Raggi più tersi, e tutto illustra il mondo.
Sì dell’alma donzella il lume è grande,
Vola d’intorno a lei, pronta difesa,
Esercito divino, angeli alati;
Ed a sgombrar presuntuose nubi
Zefiri dolci van spirando fiati:
I dipinti augelletti empiono l’aria
Di care note, e rabbelliansi i boschi
Oltra l’usato lor frondichiomati:
Eran perle i ruscelli, ed ogni riva
Di rose, di giacinti e di ligustri
Sotto il sacrato piè lieta fioriva:
Per cotal guisa da’ celesti campi,
E da’ campi terreni in varj modi
Ben riverita il suo cammin forniva.
O del buon Zaccaria per tutti i tempi
Di secoli a venir nido felice!
Chi potrà celebrar le rimembranze
Delle meravigliose opre avvenute
Sotto l’angustie di quell’umil tetto?
O d’Argivi Tiranni inclite stanze,
E del Romano Imperio alberghi illustri
Altro non siete già, che antri e capanne,
E, poste in paragon, tane palustri.
Ora io deggio cantar della ben nata
Già peccatrice, e che amorosa asperse
Di lagrime pentite al Redentore
I piè sacrati, onde impetrò perdono,
E le sue colpe in lungo obblio sommerse.
Chi lusingato per le man d’Amore
Sugge veneno, e se ne corre a morte
Tra pensier egri, e chi mantien sua fede
All’empia Citerea dagli occhi allegri
Non perda speme: Maddalena spiega
Stendardi a rubellarsi, a prender armi
Contra le squadre de’ pensieri impuri.
Se ascoltiamo sue trombe, e se l’esempio
Ci fermiamo nel cor di sua franchezza,
Di nostra libertà noi siam sicuri.
Ma se fora soverchio ornar le rote
Del carro suo, perché splendesse il Sole,
Certo è studio perduto il cercar note,
Per far chiari di Jacopo gli onori;
Sole fra’ Santi: e Sol quando ei più vibra
Tersi dal colmo dell’Olimpo ardori.
Quinci ben poco indugierà l’Aurora
Il giorno a rimenar fatto solenne
Per la virtù della santissima Anna.
O bellissima Clio, che fra le stelle
Di sempiterni fior tessi corona,
Se oggi scherzo con voi, chi mi condanna?
Sciocca menzogna e popolar, che in Delo
Del Sol venisse madre unqua Latona:
Anna è vera Latona; essa ne diede
Il Sol, che diede i raggi al Sol del cielo,
Tosto che al mondo la stagione accesa
Sorvien d’agosto, ci si torna in mente
La gloria, che il Signor mostrò sul monte,
Pietoso avviso della santa Chiesa.
Ella vuol quinci incoraggiar la gente
A soffrir pene, a non schifar perigli
Per al fine veder cotanta gloria,
E vederla nel cielo eternamente.
L’alto consiglio non sprezzò Lorenzo,
Di cui fra quattro di fassi memoria:
Giovane altier, del cui vivace lume
Cresce i bei raggi suoi l’inclita Spagna.
Qual fia barbaro cor, che non ammiri
Le tue virtuti, e’ tuoi martir non piagna?
Certamente non fu belva in teatro
Fra tanti scempi, nè per uom malvagio
Apprestossi giammai strazio eotanto.
Oh destinato all’infernal baratro,
Empio tiranno, a che pur fremi? al fine
Fia degli scettri tuoi l’ira infelice,
Ed a voto vêr lui tuoi sforzi andranno:
Egli fra tanti ardor, quasi Fenice,
Bella via più rinnoverà la vita;
E raccorrallo in sull’Olimpo eterno
Il gran Senato; ma di cetre in terra
A Dio dilette, e da divote voci
Sempre cantato fia, sempre adorato.
Tu nell’Erebo orrendo, in cui si serra
L’afflittissima a Dio nemica gente,
Statti penando in quegli orror funesti:
O tigre, o mostro! ma non tempro il canto
Oggi per condannare alme perverse.
Mia cura è raccontar pregi celesti;
E s’unqua sospirai per esser forte
A tanto peso, e se dal cor profondo
Feci fervidi prieghi, acciò di Pindo
S’aprissero per me tutte le porte,
Fervidissimamente oggi sospiro.
Omai deggio far noto a’ cor fedeli,
Come l’alta di Dio Madre risorta
Esaltossi Reina in cima ai Cieli,
Chi dunque mi sostien? chi mi solleva
Sovra me stesso? e lo mio stil rischiara,
Perchè l’imprese eccelse oggi io riveli?
Posciachè, come il Sol dall’Occidente,
Ove legge fatal lasciò caderla,
Ravvivata Maria per grazia immensa,
Ritornò come il Sol nell’Orïente,
Seco la volle; e dal terreno albergo
La sublimò sovra gli Empirei chiostri
Il sovrano Monarca onnipotente;
Ed ella al mondo rivolgendo il tergo,
Cinta di bianchi e di cerulei manti,
Moveasi gloriosa a i gran viaggi,
Spargendo d’ogn’intorno un mar di fiamme,
Ed un diluvio di purpurei raggi:
Sul purissimo crin splendea corona,
Che nell’eccelsa regïon si tesse,
E quaggiuso non mai; dodici stelle,
Di cui ciascuna ognor fulmina lampi,
Che la lampa del Sol fan meno adorna,
O ch’egli sorga, o che nel mar s’immerga,
O che nel mezzo giorno infiammi i campi
Ne i caldi giorni, che al Leon sen torna;
dovunque ella appar pronta l’inchina
Dell’immenso a contar campo celeste
Ogni falange: con volubil giro
Tutte l’insegne, e con gentil rimbombo
Tutte le trombe a riverir son preste.
Angelo ivi non è, che di zaffiro
Arpa non tempri, adamantine cetre,
Lire gemmate l’adorato nome
Fan risonar per le magion beate:
Tessean per suo trïonfo inno di gloria
I popoli superni; e non mai stanchi
Facean del pregio suo lunga memoria.
Ella sul monte di Sion Cipresso,

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Ella Orto chiuso, e sigillata Fonte,
E Mirra eletta, che da lunge odora,
Platano ombrosa alle bell’onde appresso,
Bella ne’campi a rimirarsi Oliva,
Stella del mare, e rugiadosa Aurora.
Fra tai concenti ella saliva in alto
Divinamente, e sotto l’orme amate,
Più che dir non si può, l’etereo smalto
Divenia puro, e ne gioiva il cielo:
Con nuovo lume rabbelliasi Arturo;
E non manco Orïon fulgide rote
Cresceasi intorno, e raddoppiava i lampi
All’aureo carro, e lo tergea Boote.
Deh dove te ne vai, lingua caduca?
Questo mar non ha sponda: alta Reina,
Cui son d’ogni pietate in man le chiavi,
Alle nostre miserie il guardo gira;
E noi caduti nel mortal vïaggio
Solleva, e del gran Dio contempra l’ira.
Non soffrir, che fra noi perda speranza
Spirto, che in suo periglio a te ricorre,
Ed alla tua bontate alto sospira.
O d’ogni pace memorabil Arca,
In cui nel mondo si serbò non Manna,
Anzi dell’universo il gran Monarca,
Piegati a’ nostri prieghi: or che vegg’io
In mezzo un Oceän d’almi fulgori?
Io veggio lei, che di mercè fa segno:
Ognun meco s’atterri, ognun l’adori.
E se fermi il pensier popolo pio
Bartolommeo pregar non è men degno:
Egli la maestà del gran Maestro
Non tenne a vile, anzi l’amò con fede
Cotanto avanti, che a crudel coltello
Aspramente lasciò scorzar sue carni;
Sommo tormento. E chi non è rubello
D’ogni bontà, non negherà ghirlande
Ad Agostin, forte African Campione.
Col costui sforzo l’eresia non basta
A tener campo; così franco ei scrisse,
E per tal modo delle sacre carte
Ei seppe fabbricarsi e scudo ed asta,
Ch’ei trionfo di chi la Chiesa afflisse.
Con sì fatte gioconde a rimembrarsi
Giornate il mese condurrassi a fine;
Ma prima incontreransi atti di pena.
Il gran Battista per malizia inferna
Sofferse indegno oltraggio, onde egli apparse
Tragico esempio su funesta scena:
Leggiadra Damigella il volle ucciso,
Fecene prieghi con Erode, e seco
Il favellar di lei fu di Sirena.
Ah cieco mondo, e di laccioli ascosi
Tutto cosparso in suo cammino; ah cieco
Uom, che move, ove diletto il mena.
Chïunque alla beltà rivolge il core,
Nel profondo del sen cova pensieri,
Di donde sorge finalmente Amore,
Orrendo Basilisco: e quale al mondo
Leggesi istoria, che de’ suoi veneni
Non sappia lagrimare il mal sofferto?
E quale è regno, che non sia piangendo
Del suo fier arco, e degli strali esperto?
Face amorosa, che il Trojan pensiero
Infiammò d’Alessandro, a terra sparse
Ilïone alto, e le Dardanie mura,
E sotterrò la regïone Argiva
In tanto duol, che dopo tanti lustri
Ognor più fresca la memoria dora.
Ma se d’incerti esempi è fatta schiva
L’umana gente; e volentier condanna
Mortal Parnaso, ella rivolga in mente
La canutezza, che oltraggiò Susanna:
E negherassi che il figliuol d’Isai
Al gran Dio d’Israel venisse in ira
Per la fanciulla del fedele Uria?
Chiaro comprederà s’altri vi mira,
Che dal maligno arcier di Citerea
Si creano fra noi scempi infiniti.
Volgasi il guardo alla giornata rea.
Ove per gli occhi della bella Dina
Morti furono a ghiado i Sichimiti:
O bella fama, che ad ognor s’affina,
Come oro in fuoco; o d’ogni onor ben degna
La candidezza dell’Ebreo Giuseppe:
Egli al soave lusingar d’Egitto,
Alle querele minacciose ed empie
Sordo come aspe si rimase, e seppe
Contra lascivi assalti essere invitto,
E di be’ gigli coronò le tempie:
Ma noi per golfi d’Oceän profondo
Fatto abbiamo oggimai lungo tragitto:
Tempo è di prender terra, e di dar fondo.