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Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/III

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Il marchese di Tregle - III

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III.


Non avendo più nulla a fare in Calabria, pensai ritornare in casa di mia madre, in una provincia più centrale ove sono le nostre terre. Imboccammo dunque la via, la più corta e la più sicura, quella del mare. Io aveva delle conoscenze in questa provincia, che potevano, credevo, facilitare la mia fuga e sottrarmi ai realisti. La disfatta, o per dir meglio, la rotta, aveva in ventiquattro ore cangiati in realisti gli uomini i più ardenti della vigilia, e costoro raddoppiavano adesso di zelo onde farsi perdonare dal re il loro amoruccolo di un dì per la libertà. La guardia civica ed i gendarmi inondavano la contrada, tendendo contro noi delle trappole, mentre i patrioti di ieri si trasformavano in segugi. Ogni passo divenne un pericolo. Ma, per ventura, i miei [p. 318 modifica]ex-briganti conoscevano tutti i sentieri, che non son mica i sentieri di chiunque, e pur nondimanco sono i più belli. Ond’è ch’egli è incredibile quanti precipizi di queste montagne varcammo, quanti abissi costeggiammo sdrucciolando sur una terra sminuzzolata, quanti picchi scalammo, quante coste a scesa rapida e quasi perpendicolari scendemmo, quanti folti squarciammo a traverso felceti alti come selve cedue, quanti torrenti spumosi come vino di Champagne valicammo, quante corremmo di praterie belle come un paesaggio di Croop, di vigneti splendidi, i di cui frutti avrebbero fatto credere ai tropi della Cantica dei Cantici, di olivi grossi come vecchie querce dalle foglie verdi, sbiadite, verniciate da un lato, da un altro vellutate come il labbro superiore di una fanciulla, infine, quanti questa cavalcata di quindici ore ebbe di accidenti imprevisti, di varietà, di sorprese, di quadri incantevoli, di estasi, di pericoli..... Io mi sentiva trasportato. L’uomo politico era di già restato al Parlamento, dopo il guazzabuglio del 15 maggio; l’insorto era restato nel fortino di Campotenese; qui, io mi trovava poeta.

Il mio cavallo calabrese aveva della capra: esso scivolava come un pattinatore, si arrampicava come un gatto; si faceva piccolo, si raggroppava, si allungava, passava dovunque. I suoi garretti di acciaio si tenevan fermi sopra un viottolo stretto come un filo di refe, sul labbro di un burrone, a cinquecento piedi di altezza. Era davvero un cavallo fazioso, avvegnacchè uscisse dalla scuderia di un vescovo.

Ma per bella che fosse la natura, per palpitante che fosse la situazione, ad una certa ora l’appetito si risvegliò. [p. 319 modifica]

— Ehi! Spiridione, sai tu, mio bravo ragazzo, che io ho fame?

— Ed io dunque, capitano?

— Diavolo, amico mio, perchè non l’hai tu detto più presto?

— Non si confessa di aver fame, quando il padrone non ne ha punto.

— Ma, figliuolo mio, il padrone divorerebbe in questo momento il cuoio del tuo zaino, e più volentieri ancora una costa di montone.

— Scherzi a parte, se vi piace, capitano! Il mio zaino ha avuto l’onore di figurare sulle spalle di Talarico, ed io non lo darei per il pastorale del vescovo di Cosenza.

— Io non ne voglio davvero del tuo zaino, amico mio. Ma qualche cosa che rassomigliasse ad un pollo arrosto o ad una braciuola, eh! Se uccidessimo Demetrio, che da due giorni non schiude labbro? Che ne dici tu, Spiridione?

Demetrio mi guardò con due occhi che mi tolsero la voglia della celia per due giorni. E non rispose punto. Ma io lo vidi ritirare il fucile dal suo dorso, esaminarne lo scudellino — il suo fucile era ancora a pietra — poi accoccarlo. Io non garentisco che, nel mentre costui eseguiva lentamente queste operazioni, io fossi completamente tranquillo. Non dissi nulla pertanto e continuai a camminare. Ad un tratto, Demetrio si fermò, accostò il suo fucile alla guancia, mirò e tirò.

— E val meglio uccidere codesto, disse egli, che la gente battezzata, e mangiare di codesto che è più tenero.

Ed egli andò a raccogliere un colombo, cui aveva [p. 320 modifica]ucciso di una palla asciutta, ad una distanza prodigiosa. Il colpo levò uno stuolo di piccioni selvatici. Spiridione, che aveva il fucile carico a capriole, sparò a sua volta e ne stramazzò cinque o sei. In meno di dieci minuti il fuoco era acceso, e la cacciagione spiumata, rosolava sulle braci. Per me, Spiridione appese un piccione dai piedi, con una corda attaccata ad un ramo di albero, e lo lasciò arrostire girellando innanzi al fuoco. Mentre i volatili cuocevano, Demetrio varcò una siepe ed andò a cogliere alcune spighe di gran turco, che cacciò sotto le ceneri. Era il nostro pane. Il cavallo ebbe le foglie del granone, e non son mica sicuro se il suo intimo amico Spiridione non gli diede altresì a gustare un’ala o due di colombo.

Questi due esseri se la intendevano come una buona coppia parigina, in cui la moglie è il compare del marito ed il marito completa la moglie. Lungo la strada, Spiridione gli contava delle storie, gli zufolava delle canzoni. Imperciocchè, per fermo, ciò non poteva indirizzarsi a me, che non comprendevo verbo di albanese, e meno ancora a Demetrio il quale traversava un’estasi eterna.

La vita di questo bel giovane, silenzioso e tristo, era una memoria — l’amore per Aspasia che aveva lasciata a Lungro.

Finito il pasto — e che pasto! io non ne feci mai di migliori, nè alle tavole diplomatiche, nè a quelle dei cardinali, neppure a quella di Sua Eminenza Tosti, neppure alla tavola tua, mio caro Dumas, che eri il Shakespeare della cucina. — Il pranzo terminato, ci rimettemmo in via. Il sole era implacabile. Non un sospiro di brezza, non una nuvola in un cielo [p. 321 modifica]che sembrava un soffitto dipinto d’inesorabile oltremare. La terra di queste vigne dai grappoli di oro, di questi campi di gran turco, frastagliati di siepi alle quali delle belle more selvagge formavano un monile nuziale, questa terra biancastra era screpolata. Su tutta la vegetazione stendevasi un oeil de poudre. Si respirava un soffio che rassomigliava ad una fiamma. E noi andavamo sempre, evitando i borghi, le case, l’uomo. Verso la sera però il viaggio divenne delizioso. Il caldo era diminuito. Il sole si coricava nel mare, a perdita di occhio spaziato dinanzi a noi. Ci avvicinavamo a Belvedere, ove io dirigevo i miei passi.

Ad un certo luogo ci fermammo. Bisognava anzi tutto aspettare che la luna si levasse; perocchè, se egli era mestieri di non esser visti, lo era per lo meno altrettanto di vedere. Bisognava lasciar rientrare nel borgo le pattuglie realiste, che nel giorno davano per la campagna la caccia ai liberali, e lasciar coricar la gente. Ma, alle undici della sera, non vi era più un’anima in piedi a Belvedere.