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Le notti degli emigrati a Londra/Il marchese di Tregle/IV

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Il marchese di Tregle - IV

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Il marchese di Tregle - III Il marchese di Tregle - V


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IV.


Io andavo in casa di un amico — un liberale, un repubblicano di ieri l’altro.

Don Francesco era uno dei caporioni del paese ed abitava una specie di palazzotto, all’estremità della cittadina, sulla via scoscesa che conduce al mare. Arrivati dinnanzi la sua dimora, le mie due guardie fecero un vivo strepito col martello di bronzo della porta e con i calci dei fucili. Quella bella palazzina, tutta bianca, dalle persiane verdi e dai balconi di ferro bellamente intrecciati, tremò sotto i picchi. Un allocco, messo in croce sulla porta, scossa la testa e le estremità delle ali, come per dirci: «Andate a farvi impiccare altrove!» Una dozzina di cani risposero all’appello. Nel tempo stesso, un lume passò per un seguito di appartamenti interni e si fermò dietro una finestra che sovrastava al nostro capo. La persiana si aprì dolcemente ed una voce stridente, scappando fuori d’un viluppo di pezzuole, dimandò.

— Chi è là?

— Amici, rispose Spiridione, poggiando il fucile sul lastrico.

— Amici, amici! riprese la medesima voce, accompagnata da una piccola tosse secca. Gli amici, a quest’ora, e per i tempi che corrono, hanno un nome.

— Sì, risposi io, di’ a don Francesco che il suo amico Tiberio, marchese di Tregle, è qui. [p. 323 modifica]

— Zitto! sclamò di un tratto un’altra voce, uscendo di dietro la persiana ove tossiva la voce femminina. Vado a fare aprire.

Era don Francesco in persona che aveva parlato. Un minuto dopo, eravamo dentro e si davano i chiavistelli alla porta.

Questo nobilastro campagnuolo oltrepassava i suoi trenta anni. Era piccolo, tozzo, bruno, giallo, sempre raso come un prelato. Aveva capelli folti, occhi biliosi, le braccia più lunghe delle gambe, le gambe più corte che il tronco, il tronco prolungato di un collo, che non terminava mai, il tutto coronato di una testa a mitra.

Malgrado ciò, don Ciccio Lettieri aveva delle pretenzioni. Si reputava economista, romanziere, poeta; aveva pubblicato non so che sulla storia della Rivoluzione di Thiers — infetto intingolo — e sui fratelli Bandiera, i quali avrebbero potuto morire con più dignità! Don Ciccio aveva inventato una gomma per fissare una lente in un pince-nez, senza laccio, ed una zuppa economica per i poveri — economicissima, perchè la si confezionava di semplice acqua pura. Suonava il corno da caccia, e parlava sempre di un toast portato al ministro Bozzelli in un banchetto solenne.

Quando questo modello di galantuomo politico — che accampa oggi il suo martirio nel ventre del bilancio — mi vide, e’ restò come fulminato. Era in maniche di camicia ed in pianelle, facendo rincontro a madama, la quale, in semplice gonna, prodigava dei tesori cui i miei occhi, carichi di sonno, non sapevano apprezzare.

La signora Lettieri aveva un mezzo pollice di barba, [p. 324 modifica]come una vecchia carpiona, capelli rari sulla fronte e sulle tempia, e quarant’anni.

Mi assisi senza complimenti, da uomo stanco e desideroso di riposo, e dissi:

— Buona sera, signora. Come stai don Francesco? Vengo a dimandarti asilo fino al momento in cui mi avrai trovato ciò che occorre, per andarmene via senza pericolo.

— Impossibile, amico mio. La mia casa è sorvegliata.

— Ah! mio caro signore, cominciò a crocidare madama don Ciccio, di gran cuore, con tutta l’anima, noi vorremmo tenervi con noi; ma......

— Ah! ma?

— Ma, gli è impossibile. Il sindaco, il capitano della guardia civica, i gendarmi..... mio marito è sospetto. Io te lo diceva bene, Francesco, tu lo vedi, che saresti ridotto a cattivo partito con la tua cospirazione, la tua nazione, la tua dannazione.... Eccoti a bel porto adesso. Tu non sarai sindaco, neppure decurione.... Impossibile, caro signore: bisogna partire.

— Certo, signora.

— Lauretta, gridò madama, di’ ai guardiani del signore di non togliere la sella al cavallo.

— Nulla di tutto ciò, ordinai io alla mia volta alla serva di ottant’anni che spiava alla porta. Io partirò domani. Adesso ho sonno, e sfido il diavolo e la sua mogliera a scacciarmi di qui. Signora, non avreste per caso un letto da farmi preparare?

Il marito e la moglie scambiarono un’occhiata, che io non volli comprendere. L’una diceva:

— Eh! ecco lì uno dei tuoi scapestrati di amici, [p. 325 modifica]dei tuoi vagabondi sfrontati, dei tuoi mendicanti che s’impongono come i gabellieri.

Ed il marito rispondeva:

— Pazienza, amor mio, una notte è presto passata. Non è colpa mia. Che posso farci?

Io mi stesi sul canapè e soggiunsi:

— Ebbene, don Ciccio, amico mio, animo, su, mio caro, fammi dare un letto.

— Non vuoi cenare?

— Non mi oppongo a ciò, per non mancar di cortesia verso la signora. Una fetta di mortadella, una frittata, un bricciolo di cacio, un elefante, due beccacce, un fagiano ai tartuffi.... che so io! Spiega al vento tutte le tue virtù, e presto, non importa che, cui dividerò con i miei Albanesi, e che ci addormissimo. Abbiamo fatto non so quante miglia in quindici ore di marcia.

Preso fra due fuochi, don Ciccio restò neutro. Infine, la signora, vedendo la mia determinazione ben ferma di non andarmene, si sacrificò, sprigionando dal petto un sospiro simile al gogolare del tacchino.

— Sta bene, signore. Li volete altresì alla vostra tavola, i vostri Albanesi?

— Senza alcun dubbio, signora. Io onoro codesti due uomini, come voi onorereste il vescovo di Cosenza, se venisse a dimandarvi ospitalità.

Lauretta scomparve. Io respirai. Credevo che la cena arrivasse. Lauretta venne con un paio di pianelle, s’inginocchiò ai miei piedi e si pose a cavarmi gli stivali. In quei paesi non si comprende che si possa cenare con gli stivali ai piedi. Lasciai fare. Ella uscì di nuovo e ritornò, portandomi questa volta il mio cappello, che io aveva gettato nell’anticamera. [p. 326 modifica]

La signora volle che io conservassi il mio cappello, perchè non prendessi un raffreddore. Ed io che detesto il cappello e la cravatta, quasi altrettanto che S. M. Siciliana, obbedii: avrei messo una delle sue gonne, se me lo avesse dimandato, par accelerare l’ora di andar a cacciarmi nelle lenzuola. Infine, la cena comparve. Componevasi di rimasugli di due o tre pasti.... Ingollai un boccon di qui, un di là, bevvi un gotto e dissi... (in verità, io pagava di buona moneta questo bestione e la sua orribile femmina).

— Adesso, don Francesco, un buon letto. Vi auguro buona notte, madama.

Non avevamo schiuso labbro nei tre minuti che durò l’operazione della masticazione. Ritirandomi, soggiunsi:

— A proposito, caro, pensa che voglio andarmene a casa, tu sai, per mare fino a Scalea. Io prendo meco Demetrio, che non può camminare. Spiridione verrà a raggiungermi a cavallo. Dunque, una barca sicura e.... avanti la guardia! Buona notte madama.

Seguii Lauretta, zufolando la marseillaise. Non guardai nè la camera, nè il letto, sul quale avrebbe potuto manovrare un reggimento di bersaglieri, nè altro. Strappai dal mio dosso le spoglie d’insorto e buona sera. Lauretta mi consigliava ancora di recitare un buon Pater ed un Ave, secondo le intenzioni del nostro Santo Padre il papa, che io russava di un sonno profondo.

La mia minaccia di restar lì, fino a che non mi avessero trovato un mezzo di partenza, dette dello zelo alla signora. Ella promise una buona ricompensa — a mie spese — ai doganieri di S. M. e questa brava gente, con la loro barca di servizio, sotto la ban[p. 327 modifica]diera di Sua Maestà, mi condussero fedelmente — la mia sciabola, Demetrio ed il suo fucile compresi — fino a Scalea. La bandiera copriva la mercanzia.

Arrivammo a mezzodì, quasi al tempo stesso in cui Spiridione giungeva col cavallo e che la mia valigia capitava da Cosenza, mandatami dall’albergatore.

A Scalea pure avevo degli amici — un bravo giovanotto chiamato Alberto, che erasi trovato nelle fila degl’insorti. Appena che il vecchio padre, la giovane sorella ed egli mi videro arrivare, la fu una festa. Il fascio luminoso dei tre sorrisi mi rischiarò e mi riscaldò il cuore. Il vecchio mi abbracciò come se fossi stato il suo figliuolo, il giovanotto mi strinse la mano, la giovinetta mi inviluppò in uno di quegli sguardi che sono un poema più vasto e profondo della Divina Commedia. Tutto rideva in questa casa. Anche il cane di Alberto si levò sulle sue zampe e fregò il suo bel muso sul mio petto. Cinque minuti dopo, l’asciolvere era servito. E la conversazione camminava a vapore, così alla buona, come se fossimo stati in un palco del teatro di San Carlo. Ad un tratto, udimmo un rumore lontano come il gorgoglio delle acque di un fiume in mezzo della notte. Tesi l’orecchio per ascoltare. Serafina andò alla finestra.

— L’è la messa cantata che termina, disse ella: il popolo esce dalla chiesa.

La conversazione e l’asciolvere continuarono, ma il rumore aumentava e si avvicinava.

Alberto andò alla finestra alla sua volta, vi restò un momento, poi si precipitò nel cortile per assicurarsi se la porta fosse ben chiusa, e risalì estremamente pallido. [p. 328 modifica]

I miei haiduchi, armati da capo a piedi, lo seguivano.

— Che cosa è dunque! domandò babbo Cataldo, anch’egli commosso.

— Gli è, gli è..... mormorò alfine Alberto esitando, gli è che la guardia civica, il giudice di pace, il sindaco, il capitano sono alla porta e chieggono di entrare, e che tutta la bordaglia del Comune li segue.