Le piacevoli notti/Notte IV/Favola V
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FAVOLA V.
Sono molti che con ogni loro studio e diligenza attentamente vanno cercando alcune cose, le quai, dopo che trovate le hanno, non vorrebbero averle trovate: anzi, sì come il demonio l’acqua santa, le fuggono a più potere. Il che avenne a Flamminio; il quale, cercando la morte, trovò la vita, che gli fè’ vedere la paura e la morte provare: sì come per la presente favola poterete intendere.
In Ostia, città antica, non molto lontana da Roma, sì come tra volgari si ragiona, fu già un giovane, più tosto semplice e vagabondo, che stabile ed accorto; e Flamminio Veraldo era per nome chiamato. Costui più e più volte aveva inteso che nel mondo non era cosa alcuna più terribile e più paventosa de l’oscura ed inevitabile morte; perciò che ella, non avendo rispetto ad alcuno, o povero o ricco che egli si sia, a niuno perdona. Laonde, pieno di maraviglia, tra se stesso determinò al tutto di trovare e vedere, che cosa è quello che da’ mortali morte s’addimanda. Ed addobbatosi di grossi panni, e preso un bastone d’un torte cornio, bene afferrato, in mano, da Ostia si partì. Avendo già Flamminio molte miglia camminato, giunse ad una strada: nel cui mezzo vide un calzolaio in una bottega, che calzari e uosa faceva. Il quale, quantunque grandissima quantità di fatti ne avesse, pur in farne degli altri tuttavia s’affaticava. Flamminio, accostatosi a lui, disse: Iddio vi salvi, maestro. A cui il calzolaio: Siate il ben venuto, figliuol mio. A cui Flamminio replicando disse: E che fate voi? — Io lavoro, rispose il calzolaio, e stento per non stentare; e pur io stento e m’affatico per far di calzari. Disse Flamminio: E per far che? Voi tanti n’avete; ed a che farne più? A cui rispose il calzolaio: Per portarli, per venderne per sostentamento e di me e della mia famiglia ed acciò che, quando sarò vecchio, mi possi sovvenire del danaro guadagnato. — E poi, disse Flamminio, che sarà? — Morire, rispose il calzolaio. — Morire? replicando disse Flamminio. — Sì, rispose il calzolaio. — maestro mio, disse allora Flaminio, mi sapreste voi dire che cosa è questa morte? — In vero no, rispose il calzolaio. — L’avete voi giamai veduta? disse Flamminio. — Io nè la vidi, nè vederla nè provarla mai vorrei; che dicesi da tutti ugualmente che ella è una strana e paventosa bestia. — Allora, disse Flamminio, me la sapereste voi almeno insegnare, o dirmi dove ella si trovi? perciò che giorno e notte per monti, per valli, per stagni la vo cercando, e novella alcuna di lei non posso persentire. A cui rispose il calzolaio: Io non so dove la stia, nè dove ella si trovi, nè come fatta sia; ma andatevene più innanzi, che forse la trovarete. Tolta adunque licenza Flamminio, e partitosi dal calzolaio, andossene più oltre, dove trovò uno folto ed ombroso bosco; ed entratovi dentro, vide un contadino che aveva tagliate molte legna da brusciare, ed a più potere ne andava tagliando. E salutatosi l’uno e l’altro, disse Flamminio: Fratello, che vuoi far tu di tanta legna? A cui il contadino rispose: Io l’apparecchio per fare del fuoco questo verno, quando saranno le nevi, i ghiacci e il bruma malvagio, acciò che io possa scaldare e me e li miei figliuoli, e lo soprabbondante vendere per comprare pane, vino, vestimenti ed altre cose necessarie per lo viver quotidiano, e così passare la vita nostra sino alla morte. — Deh, per cortesia, disse Flamminio, mi saperesti insegnare dove si trovi questa morte? — Certamente no, rispose il contadino; perciò che io non la vidi mai, nè so dove ella dimori. Io stanzio in questo bosco tutto il giorno, ed attendo allo esercizio mio, e pochissime persone passano per questi luoghi, e manco ne conosco. — Ma come potrò, far io a trovarla? disse Flamminio. A cui il contadino rispose: Io non ve lo saprei dire, nè meno insegnare; ma camminate più innanzi, che forse in lei vi incapperete. E tolta licenza dal contadino, si partì; e tanto camminò, che giunse ad uno luogo dove era un sarto, che aveva molte robbe su per le stanghe ed uno fondaco di varie e bellissime vestimenta pieno. A cui disse Flamminio: Iddio sia con voi, maestro mio. A cui lo sarto: E con voi sia ancora. — E che fate voi, disse Flamminio, di sì belle e ricche robe e sì onorate vestimenta? sono tutte vostre? A cui rispose il maestro: Alcune sono mie, alcune di mercatanti, alcune di signori, ed alcune de diverse persone. — E che ne fanno di tante? disse il giovane. A cui lo sarto rispose: Le usano ne’ diversi tempi; e mostrandogliene, diceva: queste lo state, quelle lo verno, quest’altre da mezzo tempo, e quando l’una, e quando l’altra si vesteno. — E poi, che fanno? disse Flamminio. — E poi, rispose lo sarto, vanno così scorrendo sino alla morte. Sentendo nominare Flamminio la morte, disse: dolce mio maestro, mi sapereste voi dire, dove si trovi questa morte? Rispose lo sarto, quasi d’ira acceso e tutto turbato: figliuolo mio, voi andate addimandando le strane cose. Io non ve lo so dire nè insegnare, dove si trovi; nò di lei giamai pur penso, e chiunque me ne ragiona di lei, grandemente mi offende; però ragioniamo d’altro, o partitevi di qua; che io sono nemico de tai ragionamenti. E preso commiato da lui, si partì. Aveva già scorso Flamminio molti paesi, quando aggiunse ad uno luogo deserto e solitario, dove trovò uno eremita con la barba squalida, e dagli anni e dal digiuno tutto attenuato: aveva la mente sola alla contemplazione; e pensò che egli nel vero fosse la morte. A cui Flamminio disse: Voi siate il ben trovato, padre santo. — E voi il ben venuto, mio figliuolo, rispose lo eremita. — O padre mio, disse Flamminio: e che fate voi in questo alpestre ed inabitabile luogo, privo d’ogni diletto e d’ogni consorzio umano? — Io mi sto, rispose lo ere-mita, in orazioni, in digiuni, in contemplazioni. — E per far che? disse Flamminio. — Oh, perchè? figliuolo mio, per servir a Dio e macerar questa misera carne, disse l’eremita, e far penitenza di tante offese fatte all’eterno e immortal Iddio ed al vero figliuolo di Maria: e finalmente per salvar quest’anima peccatrice, acciò che, quando verrà il tempo della morte mia, io glie la renda monda d’ogni difetto, e nel tremendo giorno del giudizio, per grazia del mio redentore, non per meriti miei, mi faccia degno della felice e trionfante patria, ed ivi goda i beni di vita eterna: alla quale Iddio tutti ci conduchi. — O dolce padre mio, ditemi un poco, disse Flamminio, se non v’è a noia: che cosa è questa morte, e come è fatta ella? A cui lo santo padre: figliuol mio, non ti curar di saperlo; perciò che ella è una terribile e paventosa cosa, e s’addimanda da’ sapienti ultimo termine de’ dolori, tristezza dei felici, desiderio dei miseri, e fine estremo delle cose mondane. Ella divide l’amico dall’amico, separa il padre dal figliuolo ed il figliuolo dal padre; spartisce la madre dalla figliuola e la figliuola dalla madre, scioglie il vincolo matrimoniale, ed a fine disgiunge l’anima dal corpo; e il corpo sciolto dall’anima non può più operare, ma viene sì putrido e sì puzzolente, che tutti l’abbandonano e come cosa abbominevole il fuggono. — Avetela mai veduta voi, padre? disse Flamminio. — Ma di no, rispose lo eremita. — Ma come potrò io fare di vederla? disse Flamminio. — Ma se voi desiderate, figliuolo mio, disse lo eremita, di trovarla, andatevene più oltre, che voi la trovarete; perciò che l’uomo, quanto più in questo mondo cammina, tanto più s’avicina a lei. Il giovane, ringraziato ch’ebbe il santo padre, e tolta la sua benedizione, si partì. Continovando adunque Flamminio il suo viaggio, trapassò molte profonde valli, sassose montagne ed inospiti boschi, vedendo vari e paventosi animali, dimandando a ciascuno s’egli era la morte. A cui tutti rispondevano, non esser lei. Or avendo scorso molti paesi e vedute molte strane cose, finalmente giunse ad una montagna di non picciola altezza; e quella trapassata, discese giù in una oscura e profondissima valle, chiusa di alte grotte, dove vide una strana e mostruosa fiera, la quale con suoi gridi faceva rimbombare tutta quella valle. A cui Flamminio disse: Chi sei tu? Olà, saresti mai tu la morte? A cui la fiera rispose: Io non sono la morte, ma segui il tuo cammino, che tosto la troverai. Udita Flamminio la desiderata risposta, molto s’allegrò. Era già il miserello, per la lunga fatica e duro strazio per lui sostenuto, stanco e semi morto, quando come desperato giunse ad un’ampia e spazioza campagna; ed asceso un dilettevole e fiorito poggetto, non molto eminente, e remirando or quinci or quindi, vide le mura altissime di una bellissima città, che non era molto lontana: e postosi a camminare con frettoloso passo, nel brunire della sera ad una delle porte pervenne: la quale era adornata di finissimi e bianchi marmi. Ed entratovi dentro, con licenza però del portinaio, nella prima persona ch’egli s’abbattè, s’incappò in una vecchiarella molto antica e piena di grand’anni, di volto squallida; ed era sì macilenta e macra, che per la sua macrezza tutte le ossa ad una ad una si arebbono potuto annoverare. Costei aveva la fronte rugosa, gli occhi biechi, lagrimosi e rossi, che la porpora somigliavano, le guance crespe, le labbra riversate, le mani aspere e callose, il capo e la persona tutta tremante, lo andar suo curvo, e de panni grossi e bruni addobbata. Oltre ciò ella teneva dal lato manco una affilata spada, e nella destra mano un grosso bastone: ne l’estremità del quale eravi una punta di ferro, fatta in guisa d’un trimanino, sopra del quale alle volte si riposava. Appresso questo, ella aveva drieto le spalle una grandissima bolgia, nella quale riservava ampolle, vasetti ed albarelli tutti pieni di vari liquori, unguenti, empiastri, a diversi accidenti appropriati. Veduta ch’ebbe Flamminio questa vecchia disdentata e brutta, imaginossi che ella fosse la morte che egli cercando andava; ed accostatosi a lei, disse: madre mia, Iddio vi conservi. A cui con chioccia voce la vecchiarella rispose: Ancora te, figliuolo mio, Iddio salvi e mantenga. — Sareste voi per avventura la morte, madre mia? disse Flamminio. — No, rispose la vecchiarella. Anzi io sono la vita. E sappi che io mi trovo aver qua dentro in questa bolgia, che io porto dietro le spalle, certi liquori ed unzioni, che, per gran piaga che l’uomo abbi nella persona, io con amorevolezza la risano e saldo, e per gran doglia, ch’egli parimenti si senta, in picciol spazio d’ora levoli ogni dolore. Disse allora Flamminio: dolce madre mia, mi sapreste voi insegnare dove ella si trovi? — E chi sei tu che così instantemente mi dimandi? disse la vecchiarella. A cui Flamminio rispose: Io sono un giovanetto, che già sono passati molti giorni, mesi, anni che la vo cercando: nè mai ho potuto trovare persona in luogo alcuno, che me l’abbia saputa insegnare. Laonde, se voi siete quella, ditemelo per cortesia; perciò che assai desidero e di vederla e di provarla, acciò che io sappia se ella è così diforme e paventosa, sìcome da ciascuno è tenuta. La vecchiarella, udendo la sciocchezza del giovine, dissegli: Quando ti aggrada, figliuolo mio, farottila vedere, quanto ella è brutta: e quanto paventosa, ancora provare. A cui Flamminio: madre mia, non mi tenete più a bada; omai fate che io la veggia. La vecchiarella per compiacergli lo fece ignudo spogliare. Mentre che il giovanetto si spogliava, ella certi suoi empiastri, a diverse infermità opportuni, incorporò; e preparato il tutto, dissegli: Chinati giù, figliuolo mio. Ed egli ubidiente s’inchinò. — Piega la testa e chiudi gli occhi, disse la vecchia; e così fece. Nè appena aveva fornito di dire, che prese la coltella che dal lato teneva, ed in un colpo il capo gli spiccò dal busto. Dopo, presa immantinente la testa, e postala sopra il busto, l’impiastracciò di quegli empiastri che preparati aveva, e con agevolezza il risanò. Ma come il fatto andasse, dir non so: o che fusse per la prestezza della maestra in ritornar il capo al busto, o perchè ella astutamente il facesse, la parte della testa posteriore mise nell’anteriore. Onde Flamminio, guatandosi le spalle e le reni e le grosse natiche e scolpite in fuori che per addietro vedute non aveva, in tanto tremore e pavento si puose, che non trovava luoco dove nascondere si potesse; e con dolorosa e tremante voce diceva alla vecchia! Ohimè, madre mia, ritornatemi come era prima; ritornatemi per lo amore d’Iddio, perciò che io non vidi mai cosa più diforme, nè più paventosa di questa. Deh! removetemi, vi prego, da questa miseria, nella quale inviluppato mi veggio. Deh! più non tardate, dolce madre mia, porgetemi soccorso, che agevolmente porgere me lo potete. La vecchiarella astuta taceva, fingendo tuttavia di non essersi aveduta del commesso fallo, e lasciavalo ramaricarsi e cuocersi nel suo unto. Finalmente, avendolo così tenuto per spazio di due ore, e volendoli remediare, da capo il fece inchinare; e messa mano alla tagliente spada, la testa gli troncò dal busto. Dopo, presa la testa in mano, ed accostatala al busto ed unta con suoi empiastri, nel primo suo esser ritornare il fece. Il giovane, vedendosi ridotto nel pristino suo stato, de’ suoi panni si rivestì; ed avendo veduta la paura, e per esperienza provato quanto brutta e paventosa era la morte, senza altro commiato prendere dalla vecchiarella, per la più breve ed ispedita via ch’egli seppe e puote, ad Ostia se ne ritornò: cercando per lo innanzi la vita e fuggendo la morte, dandosi a migliori studi di quello che per lo adietro fatto aveva.
Restava a Lionora proporre il suo enimma: onde tutta festevole disse.
Per un superbo e spazioso prato
Di verde erbette e vaghi fiori adorno,
Passan tre ninfe per divino fato,
Ne si ferman giamai notte nè giorno.
L’una la rocca tien dal manco lato;
L’altra col fuso a’ piedi fa soggiorno;
La terza con il brando sta da sezzo,
E spesso il debil fil tronca nel mezzo.
Il presente enimma con molta agevolezza fu da tutti inteso, perciò che il superbo e spazioso prato è questo mondo in cui dimoriamo tutti. Le ninfe sono le tre sorelle: cioè, Cloto, Lachesis e Atropos, le quali, secondo la poetica finzione, dinotano il principio, il mezzo ed il fine della vita nostra. Cloto, che tiene la rocca, dinota il principio della vita; Lachesis, che fila, dimostra il tempo che noi viviamo; Atropos, che rompe il filo già per Lachesis filato, disegna l’inevitabile morte. — Già il vigilante gallo dedicato a Mercurio aveva col suo canto dato segno della vicina aurora, quando la Signora ordinò che al favoleggiare si imponesse fine, e tutti se ne andassero alli loro alloggiamenti: ritornando però senza fallo nella sequente sera al concistorio, sotto quella pena che a sua signoria più convenevole parerà.
Il fine della quarta notte.