Le rive della Bormida nel 1794/Capitolo XII

Da Wikisource.
Capitolo XII

../Capitolo XI ../Capitolo XIII IncludiIntestazione 19 settembre 2008 75% romanzi

Capitolo XI Capitolo XIII

[p. 219 modifica]


CAPITOLO XII.



L’indomani un po’ dopo l’alba, don Apollinare stava sotto il portichetto della chiesa, con parecchie divote che avevano udito la messa; lo speziale apriva la bottega, e uscito a vedere che tempo facesse, si mescolava al crocchio: un uomo attempatetto, che era il cerusico, montato su d’un cavalluccio per avviarsi a visitare i malati, si fermava a barattar con essi qualche parola, sul fatto della sera innanzi: parevano l’ultima nuvola d’un temporale notturno, risolto da un vento benefico, in un mattino quieto.

Marta, che manco per mezzo mondo, non avrebbe lasciata nella propria vita la lacuna d’una messa perduta, perchè le sarebbe parso di non si poter più fidare tranquilla all’eternità; aveva penato a non trattenersi a dire anch’essa la sua; ma si era fatta forza, e discendeva di castello frettolosa, per giungere a tempo, se la padrona e don Marco levandosi, bisognassero di nulla. E camminando le pareva di aver sognato, su quello che le era stato detto dalla signora, che Tecla, da quel giorno in poi in cambio di andare a pascere il branco, e a spigolare dietro i mietitori, sarebbe rimasta in casa come una figliuola. Il villano che per pietà prese la serpe a scaldarsela in seno; al sentire di Marta non se n’era di certo pentito, come la si sarebbe di poi la signora, [p. 220 modifica]inconscia del capriccio annestatosi in capo alla figlia di Rocco. Eppure non poteva avvisarla, non poteva dirle che badasse bene. Perchè don Marco l’aveva consigliata a tacere quel suo sospetto: e per essa contradire un prete, se proprio non v’era tirata pei capelli, valeva quanto usare scortesia ad un angelo del cielo, se l’avesse incontrato per la via, come ai tempi d’Abramo.

Giunta a casa, trovò che la padrona, don Marco e Tecla, facevano colazione, sebbene non fosse peranco l’ora; e vedendo che la fanciulla, servito il latte, ed affettato il pane, sedeva a mensa con essi, assai bene composta; capì con dolore, di non essere necessaria là dentro; ingelosì, corse in cucina, e forse pianse. Tecla s’era accorta dell’animo di lei, e dalla confusione manco non aveva osato levare gli occhi a guardarla. La signora e il prete non badarono ad esse; occupati l’una a pregar l’altro di rimanere, mentre questi si schermiva, e persisteva nel voler partire; e alla fine s’accommiatava che poteva essere un’ora di sole. Passando dinanzi alla casuccia di Rocco, vide costui che dava dentro nel pestello, a fare un savoretto d’aglio da spalmarne la polenta; e capì che il pover’uomo, mezzo scornato la sera innanzi, stava sulla porta a pestare, perchè le donne del vicinato lo vedessero, e fossero persuase che in casa sua v’era tutt’altro che guai, che anzi vi si scialava a mangiare. Lo salutò, senza potersi tenere dal sorridere di quella semplicità; e Rocco e la sua moglie riconoscenti, per poco non gli chiesero la benedizione, come ad un monsignore.

Indi a poco Anselmo, fatto chiamare dalla signora Maddalena, giungeva a cavallo in sul piazzale. Questa afflitta per l’addio di don Marco, gli diede la lettera di lui da portare in Alba, al gastaldo della marchesa di G...; coll’incarico di dire a costui, che la mandasse in gran diligenza alla sua padrona in Torino. Anselmo avute le raccomandazioni e alcune monete, levò il trotto allegro come il sole di maggio; e poi che fu sparito, la signora, [p. 221 modifica]Tecla e Marta si ritirarono in casa, ognuna pensando a Giuliano secondo il proprio cuore; meste come se quella solitudine in cui rimanevano, non avesse dovuto mai più finire.

E Giuliano? Avveniva di lui come di tanti, che mentre a casa loro si sta dì e notte in pena per essi; cercano lontano gli spassi e la lieta vita, badando a fare i magnifici della roba sparagnata dai parenti?

Se fosse stato a D...., sotto gli occhi di sua madre, non avrebbe potuto essere più raccolto, nè più severo di vita; e dal dì del suo ritorno a Torino, che facevano appena due mesi, s’era così mutato, da mostrare qualche anno di più. Seguiva di lui, come di certe fanciulle, che dall’oggi al domani ti capitano innanzi indonnite: e pareva un uomo, che già avesse trovato il suo da fare nella vita. Non era malinconico, sì che altri se ne accorgesse, ma schivava ogni spasso; taciturno e solitario, invece d’uno scuolare, che non vedeva l’ora di potersene tornare medico alle sue montagne; lo si avrebbe creduto uno dei tanti fuorusciti francesi, che di quei giorni, andavano randagi coi segni in viso di lutti domestici, o di sconfitte toccate alla loro parte. Faceva le sue passeggiate per le vie più deserte della città; desinava or qua, or là nelle osterie più basse, per ascoltarvi i discorsi dei popolani, i quali già osavano sussurrarsi qualche parola, e mostrarsi vogliosi di vedere i mutamenti del mondo: e il meglio delle sue giornate, studiava nella camera, che aveva presa a pigione sui lembi della città, dalla banda della fortezza; luoghi memori dell’eroismo di Micca, di cui non so se i discendenti rosicchiassero sin d’allora il tozzo di pane, dato dai re di Sardegna alla schiatta del prode. Di certo gli accadde più d’una volta, di meditare sul gran gesto del popolano Canavese, e di vederne l’ombra passare nelle tenebre, colla face in mano, e coll’anima immortale tutta negli occhi. E pensando ai Francesi combattuti da lui, e a quelli che adesso si affacciavano all’Alpi; gli parve che a mutare l’ire dei [p. 222 modifica]popoli in fratellanze durature, non mancasse che un po’ più di luce nelle menti delle moltitudini.

Il mattino e la sera, soleva salire sulla terrazza della casa; e di lassù pasceva l’animo contemplando la natura, maestra sovrana di chi sa capirne i divini linguaggi. E talora sprofondava lo sguardo nelle valli delle Alpi, velate dall’azzurro vaporoso delle lontananze; e colla fantasia trovava in seno ad esse, i villaggi, sorgenti in mezzo al verde dei prati irrigui, o fra macchie di pini. Sulle case vedeva levarsi i campanili delle chiese; e all’ombra di queste, serene figure di vecchi parrochi, sedere fra i borghigiani, poveri e degni di riverenza. Ma la memoria di don Apollinare, subito gli guastava nella testa la dolce visione. «Illusioni, illusioni! — diceva — tali quali si fanno, i preti sono tutti d’una maniera; noi ce li figuriamo sacerdoti, e in cambio non sono che uomini, i quali più o meno fanno un mestiere.» Spingeva allora quello sguardo dalle valli basse alle altissime vette; e si pregava d’essere un pastore, d’avere lassù sua madre e Bianca, per vivervi con esse d’amore, di meditazione e di libertà. Poi si volgeva dalla parte di mezzodì, cercando nell’orizzonte gli Apennini nativi, sebbene sapesse di non li poter scoprire; e colla guancia raccolta in una mano rimaneva in quell’atto sin che facesse notte, e la città e i colli che soggiogano il Po, cominciassero a brillare d’innumerevoli lumi. Fantasticava su questi, quali rischiarassero le quiete cene delle famiglie; quali il piacere, lo studio, il dolore, e quali la morte. Allora lo coglieva un’onda di pensieri lugubri; e se qualche rintocco di campana gli veniva di lungi nell’orecchio, provava di quello un’amarezza soave, e pensava alla religione della sua giovinezza come ad un bel sogno, che non gli era dato rifare. Altrettanto gli accadeva, passando la sera dinnanzi a questa o a quella chiesa. I suoni dell’organo gli avevano molte volte rotto il passo, e si era fermato. L’ombra che piena di misteriosi inviti, avvolgeva i divoti; la luce tremolante [p. 223 modifica]che diffusa dall’altare si frangeva nel fumo degli incensi; la voglia dei ricordi infantili serbati nel cuore; tutto gli faceva forza. Ma ecco il ricordo delle sue vacanze di Pasqua; ecco l’immagine di don Apollinare affacciarsi di nuovo alla sua mente; ecco quelle di tutti i preti a lui noti; e sola tra tante la umile, mesta, quasi rifiutata figura di don Marco, che gli paresse spirare qualcosa della religiosità predicata dal clero. Allora egli tirava oltre, pensando se mai fosse venuto sulla terra un sacerdozio veramente cristiano; e finiva ricoverandosi nello spedale, cercando il letto dell’infermo che fosse più giù della vita; e medico a un tempo e consolatore, vi stava la notte intera. E se su quel letto discendeva la morte, le parole «parti o anima cristiana....» suonavano all’orecchio del moribondo sentite, piene, feconde; gli infermieri piangevano, e loro pareva di non averle mai udite, nel modo che quel giovane, selvatico e fantasioso, sapeva dirle. Egli credeva.

Quelle notti passate fuori di casa, avevano dato nell’occhio alla vecchia che li appigionava la camera; la quale aveva notato, come oltre a quelle, si ritirasse anche ogni altra assai al tardi. Accostumata con giovani pigionali, che i più non si davano pensiero, se non di far buon tempo; pensava che qualche intrigo di basso amore, lo tenesse fuori fino a quelle ore insolite; ed era stata più volte a un pelo di lagnarsi con lui, che non l’aveva posta di mezzo in tali faccende. Se egli avesse indovinati i contacci, che colei faceva sui fatti suoi; ne avrebbe preso sdegno, come fanciulla dabbene cui venga usata villania disonesta; e messo in fascio roba, libri, ogni cosa, sarebbe tornato di casa altrove. Ma in tutto il tempo che era stato là dentro, non aveva barattato con essa quattro parole; non le aveva mai dato appicco di dire più che il buon giorno, o la buona notte; augurio sibilato tra i denti lerci da quella arpia, mentre gli porgeva la lucerna, che egli pigliava camminando difilato in camera, senza badarle. Così ignorava di che tempera essa fosse, e come [p. 224 modifica]non avesse saputo porre gli occhi sopra di lui, giovane e bello, senza bruttarlo coi suoi pensieri. Quella era una donna, che guardando il cielo stellato; non vi avrebbe visto più di quello che vi vedono le giovenche e gli altri animali: e Giuliano, casto come i veri forti, e pieno di amore per fanciulla lontana, cui si avvicinava col pensiero, ora per vie ridenti di fiori d’ogni generazione; ora per altre meste come quelle dei cimiteri; non meritava d’essere giudicato da lei. Ma questo era il minor male che gli potesse incontrare; perchè, guai a lui, se essa avesse avuto naso più fino! Persona da saper fare d’ogni lana un peso, sarebbe andata ad accusarlo al bargello; e una bella notte avrebbe fatto lume ai birri, venuti a levarlo di quella cameretta; che allora valeva quanto essere spacciato. Egli s’era scritto ad una di quelle compagnie d’uomini amatori di cose nuove; e usava trovarsi con essi ai notturni convegni. Quelle compagnie erano già numerose, e da quartiere a quartiere, da città a città, si cercavano, si davano l’intesa, si adunavano di segreto, crescevano ogni giorno di speranza e d’ardire. In quelle fratellanze misteriose, egli si vedeva accolto di gran cuore, come giovane di alti pensieri, d’animo pronto e devoto; stimato dai compagni di studio come uno dei loro capi. E della scolaresca, i buoni s’ingegnavano di somigliargli; i chiassosi, diluviatori, sfaccendati, n’avevano soggezione; e nelle ore pentite pensavano a lui, invidiandogli quella sua bella natura. La parola di Giuliano suonava in quei convegni, ricca di immagini come sogliono averla i marinai ed i montanari; si capiva che tutto quello che egli diceva lo credeva, e sarebbe morto per confermarlo, se fosse bisognato.

A lui si leggeva in viso qualche segno, come di una potenza che dall’infuori gli governasse l’animo; ed era un occhio dolce di donna, che egli si vedeva dinanzi, intento, amico, ispiratore. Quell’occhio lo accompagnava per tutto, sotto quella vista cresceva nell’arte sua; s’afforzava nei pensieri di ribellioni generose; [p. 225 modifica]s’avezzava sobrio ed austero: studiava, sperava ed amava: la scienza, la rivoluzione, sua madre e Bianca, erano i suoi amori. Di questa, in tutto il tempo che mancava da D...., non aveva avuto nè chieste novelle; non volendo risicare la ricca illusione, per sapere cose che, delle due l’una, o erano conformi a quella, o tali da struggerla tutta. Pure gli incontrava sovente di non si poter levare dal cuore una mestizia, che gli recava in malaugurio ogni cosa. Il parentado con Bianca gli pareva stornato da lunga pezza; immaginava che l’Alemanno l’avesse sposata in quei mesi, o fosse lì per isposarla; voci misteriose lo ammonivano dal fondo del cuore; di pensiero in pensiero, di dubbio in dubbio, andava tant’oltre che vedeva il corteo nuziale, l’altare, il frate, i due felici sorridentisi alla balaustrata della chiesa di C.... là dove fin dai primi anni che aveva vista Bianca, egli s’era messo a sognare d’inginocchiarsi con essa, a darle l’anello.

Se ne sentiva al cuore un dolor di morte; ma subito il dolersi, il piangere, gli parevano uno sfogo dei dappochi, e gli balenava l’idea del ritorno improvviso. Tornare, sì, a casa; correre a C..., scendere dal signor Fedele, e sposa o no, portarsi via Bianca. Ma.... «se fosse già di quell’altro» gli chiedevano quelle voci misteriose; «se la fortuna ti pigliasse a gabbo, così che tu capitassi laggiù proprio a vederli in chiesa, a udirli dire di sì...» Allora gli si levava dentro un fiotto d’ira, e sin che non gli suonassero nella memoria le promesse di Bianca, portategli da sua madre quando era stata a C... in quelle vacanze di Pasqua, meditava cose lugubri. Tornata la calma, ripigliava lena a studiare; affrettava coi voti il giorno in cui sarebbe partito da Torino colla sua pergamena da dottore in saccoccia; gli bisognavano poco più che due mesi, e poi il signor Fedele e il suo Alemanno l’avrebbero visto.

Con questo frequente mutarsi di timori, di dubbi e di speranze, viveva e scriveva a casa ogni quindici dì, quando la posta correva; e tra bene e male veniva [p. 226 modifica]anche per lui la fine di quel maggio, nel quale dalle sue parti era accaduta, la spedizione del popolo in armi al Settepani; la conversione di Bianca; l’assunzione di Tecla a più nobile vita: quel maggio in cui per amor suo, la signora Maddalena non s’era manco accorta della bella stagione, nè aveva sentito quegli inni che il cuore canta anco ai più miseri, e il labbro non sa ridire, nè il poeta ha mai scritto.

Un di quei giorni, che la lettera di don Marco alla marchesa di G... era capitata al suo destino, meglio che da una settimana, Giuliano stava alla finestra di quella sua cameretta, coll’occhio rivolto alla fortezza, dove era un insolito moto. Vedeva sugli spalti erbosi molti soldati, e sui vasti piazzali un addensarsi di schiere, un andare e venire di messaggeri; con quell’aspetto strano che avrebbe un villaggio dove non fossero nè femmine, nè fanciulli; e gli abitanti vestissero tutti ad una foggia, e non sapessero camminare se non armati, allineati in molti, stecchiti ed arcigni. Turbe di popolo traevano dalla città, e si fermavano a piè delle mura ferrigne; dal ciglio delle quali sporgevano molti cannoni a guisa d’animali che posassero, e luccicando al sole, parevano mandare biechi ammiccamenti. A un tratto comparvero, dentro quelle mura due uomini, accompagnati da un drappello di fanti sino a mezzo lo spazzo; e là sederono su due scranne, ciascuno con una persona nera allato, prete o frate. Giuliano, sentì, come se fosse stato al posto d’un di quei due, il peso degli sguardi di tutte quelle schiere; capì che erano condannati a morte, e sentì un rapimento dell’anima in alto; a guisa di aquila, che turbata od offesa, va a nascondersi tra le nubi. La scena, rimasta silenziosa un poco, fu mutata da un suon di tamburo; la folla fuori la fortezza ondeggiò commossa da quel suono; i soldati fecero un gran moto di braccia e d’armi; le sentinelle uscite dai casotti degli spalti si atteggiarono a rispetto: qualche cavaliere corse su e giù, dall’uno all’altro dei gruppi pomposi di pennacchi [p. 227 modifica]fluttuanti; poi il silenzio tornò lugubre. Allora un ufficiale s’appressò ai due condannati; si vide all’atto che strappava ad essi le assise, mentre un altro a cavallo pareva leggere un foglio, forse una sentenza: quindi s’allontanarono e rimasero i preti, i quali bendarono gli occhi agli infelici, poi se ne staccarono anch’essi; e allora s’udì un fragore di molti tamburi e uno squillar di trombe, un nembo di fumo avvolse per un istante quei due; e subito dissipato dal vento, li lasciò vedere a Giuliano distesi a terra...... Si levò dalla finestra collo scompiglio nell’animo; e quasi senza avvedersene, sbattè le imposte e gli scurini in faccia alla luce, che non gli entrasse in camera; adesso che aveva rischiarato l’orribile scena. Poi si buttò sul letto bocconi, e colla faccia contro il guanciale, stette tribolandosi in abissi di fantasmi, di luci stranissime, di deformità chimeriche. Indi a poco, irrequieto come per bevanda che lo turbasse, si levò da giacere, riaperse la finestra, provò un altro desiderio; uscire, andare a una lunga passeggiata, fuori la città: andare, andare dove che fosse, anco lontano fin dove il vento arrivava a soffiare.

Uscì col fare d’un uomo che preso il broncio in famiglia, vada a gironzare per isvagarsi; e discendendo trovò per le scale un tale, che aveva rondinato sulla via, mentre egli era alla finestra a guardare la scena descritta quassù. Costui soffermatosi a fargli largo, si scoperse il capo rispettosamente, e domandollo del suo nome.

«Giuliano.... da D....» rispose il giovane che non badava ad andare sconosciuto; e si fermò anch’egli a figurare quell’uomo, il quale inchinatosi un’altra volta gli disse:

«S’è tanto mutata, da quando non l’ho più riveduta, che penava a ravvisarla. Come vede dalla mia livrea, io servo la eccellentissima marchesa di G...., la quale mi manda a cercare di lei da parecchi giorni, e questa sera la vuole nel suo palazzo. [p. 228 modifica]

«Ditele in mio nome, che non dimenticherò di venire.»

Il servitore fece la sua terza riverenza e s’accommiatò. Giuliano gli tenne dietro, strologando sull’avventura, e su quello che la marchesa di G.... poteva volere da lui; non tornato più a rivederla dalla prima volta ch’era venuto a Torino, due anni innanzi: e come fu sulla via, si lasciò portare dalle gambe, senza por mente verso dove.

Per chi sa quali varchi, che a noi non importa conoscere, riuscì di là del Po; dove i margini del fiume reale, le colline, il monte dei Cappuccini, gli parlarono delle rive modeste ed amene della sua Bormida, e del castello di D...., al quale il monte ed il convento somigliavano un poco per le conformità e per la postura. Ma, non sapendo neanch’egli qual fosse, desiderio suo, o invito che venisse dall’aria; pigliò la via che saliva lassù, e pareva quella che a D...., per l’erta del colle, menava al presbiterio di don Apollinare. L’acciottolato, l’erba delle prode, l’ombra delle quercie, tutto v’era come a D...; senonchè là si abbatteva in frati che discendevano, in divote brigate che montavano; il colle pareva un luogo santo di pellegrinaggio: al castello di D.... in cambio, salvo i dì di festa, non si vedevano mai che le stesse persone, i signorotti della terra, che menavano vita allegra e sconclusionata.

Giunto in cima, dove chi s’affaccia al muricciuolo che cinge il sagrato, può secondo la natura sua accontentarsi di guardare la città sottoposta; o per quanto gli vale l’occhio, ammirare la vista sterminata di pianure, di colli, d’acque e d’Alpi, che fantasia umana non saprebbe trovare più bella; si arrestò, crollò il capo, diede di volta senza pur badare a quello spettacolo, in cui l’animo suo si sarebbe ricreato altra volta lungamente. Tornò a valle, infilò la via lungo la riva destra del fiume, verso Superga; andò su e giù un poco come smemorato; poi trovato un navicellaio, scese nel burchio e [p. 229 modifica]si fece traghettare all’altra sponda. Di là per campi e per vie traverse, andò a porsi in un’osteria campestre, vi mangiò vi bevè; s’allontanò quindi nè tristo nè lieto più di quello che fosse stato tutto il giorno; e per altra porta da quella che aveva passato ad uscire, tornò in città che il sole andava sotto.

Ridottosi in camera, si pose in gamba le meglio brache del suo corredo; indossò un panciotto ed un giubboncello di seta, ornati assai bene di sopragitti lungo le occhiellature, alle pettine, ai paramani; calzò un paio di scarpini leggeri; e tornato fuori prese la via verso il palazzo della Marchesa. Là trovo una turba di servi a terreno, una turba su per le scale; e in cima a queste gli si fece incontro quel domestico, che era stato il mattino ad invitarlo. Costui lo mise dentro ad una vasta sala, illuminata che meglio non poteva essere se vi fosse stato il sole; popolata come una chiesa in tempo d’uffici; e lo accompagnò coll’annunzio del suo nome alto e sonoro.

Giuliano si fermò sulla soglia un poco, e le orecchie gli fischiarono come ad uno che rompendo improvviso in una battaglia, capitasse nel più fitto grandinare delle palle. Tutti quei crocchi, tutte quelle teste bianche che non si lasciavano scernere le giovani dalle vecchie quegli occhi di donne, che si socchiudevano per isbirciare lui; gli fecero un senso tale, che per poco non diede di volta frettoloso. Ma la gentildonna padrona di casa gli mosse incontro, lo prese per una mano, lo trasse in mezzo a quelle beate amicizie; le quali tutte accennarono garbatamente di non disgradirlo; poi se lo fece sedere allato, e mentre i crocchi ripigliavano i loro parlari, essa si mise a discorrere con lui.

Egli era preso in fra due: da una parte lo splendore dei doppieri, la magnificenza delle arazzerie e delle supellettili, in cui era sfoggiato lo stile di non so quale Luigi; dall’altra le parole della gentildonna, che lo assaliva con una procella di domande, e di rimproveri, [p. 230 modifica]sul non essersi egli fatto vivo, da quella prima volta di due anni innanzi; sicchè essa aveva creduto ch’egli stancatosi di stare a Torino, e tornato a D...., non fosse più rivenuto. Giuliano a trovar scuse, a darle contezza di sè, de’ propri studi, di D..., di tutto quello che la marchesa menzionava; e intanto i discorsi dei crocchi si facevano più caldi, più confusi, più alti, sul fatto seguito quel giorno nella fortezza, e sulla morte meritata dal cavaliere di Sant’Amore, e da Mesmer; i quali comandando l’uno la fortezza di Saorgio nell’Alpi marittime, l’altro quella di Mirabocco dalla banda di Savoia, le avevano date in mano ai Francesi. Moschettati per traditori, tutta Torino aveva parlato di loro; ma adesso in casa alla marchesa se ne parlava ancora, come tra persone che nelle faccende dello Stato avevano molto a ridire.

Giuliano teneva un orecchio alla gentildonna, l’altro a quei discorsi: e ad ogni poco il cuore gli si accapricciava. La disputa era venuta innanzi così calda che già si cominciava a chiedere d’un arbitro, che sentenziasse fra le due parti; delle quali chi s’accontentava della morte data col piombo ai due sciagurati, pur che fossero stati moschettati nelle schiere; chi avrebbe voluto che gli avessero appiccati alle forche, a guisa di coloro che assassinavano alle strade. Provò d’essere là dentro uno sgomento indicibile; tutto quello splendore d’arredi, di vesti, di vezzi scintillanti dalle gole e dai polsi delle dame, gli parve una cosa tetra; e quando una voce chiamò giudice lui, quasi per fargli capire che egli solo non essendo nobile, poteva mostrarsi imparziale; purchè parlasse col dovuto rispetto, e guardando da sotto in su; egli rispose:

«Di quel che corra tra i diversi modi di morte io non so giudicare: questo so che sino a quando la morte sarà data in pena a chi fa il male, essa parrà agli uomini se non una cosa turpe, almeno il maggiore dei mali. Così se ne oltraggia la santità, si allevano gli uomini codardi; e si fa della morte quel che si è fatto di tante cose [p. 231 modifica]santissime...! E poi uno sia reo quanto si vuole...; più della colpa mi stupisce questo, che i più caldi a volerlo morto, sono coloro che credono esservi un luogo nell’altra vita, dove lo spirito nostro si purga: ora se là, perchè non si potrà diventare migliori anche qui...?»

A queste parole si levò un bisbiglio, somigliante al ronzio che farebbe uno sciame d’api, turbato improvvisamente nella sua pastura: e fu uno scontento, un volgersi di teste, uno scuotersi di code, uno scarpiccio irrequieto, da non potersi dire. Giuliano da qual parte mirasse, vedeva nasi agricciati, menti sporti, sorrisetti schifiltosi; ma non uno degnò di rimbeccare, come avrebbe meritato, quel plebeo; il quale aveva osato entrare là con in capo certi pensieri; su per giù come un villano, che vi fosse venuto colle scarpe inzaccherate.

Egli semplice nell’atto, sereno in viso, e nulla maravigliato, stette un poco a quella sorta di temporale: poi rivoltosi alla marchesa le disse, che se nulla avesse a comandargli, gli bisognava partire; e si levò in piedi. La gentildonna accennò col capo, si levò anch’essa, gli dette a toccare la punta delle sue dita sottili e fredde; lo guardò bene, quasi per accertarsi se egli fosse davvero quel Giuliano, di cui le parlava la lettera di don Marco; e avuto l’ultimo inchino, lo lasciò che andasse.

I servi stupirono di vederlo partire così in fretta, ed egli quando fu sulla via, diede una grande rifiatatona. La notte era molto innanzi; la luce dei fanali pallida e poca; l’aria quieta. Si sentì allora, come un pesce che sguisciato di mano al pescatore, dà due o tre saltelloni sulla spiaggia e si rituffa nell’acqua: andò a zonzo una pezza, e si ritirò che era la mezzanotte. A vedere le pareti della sua camera, sciolte e senza ornamenti salvo che di alcuni quadri di santi, effigiati per modo da parere più alla tortura che fra le gioie del paradiso; fece paragone di quella sua abitazione con la sontuosissima della marchesa; e coi soffittoni, dove il popolo della città, allora come oggi, nasceva e moriva, sopra poca [p. 232 modifica]paglia, coll’orcio dell’acqua, e il lumicino sepolcrale, in capo al giaciglio. Gli parve d’essere agiato sin troppo, e pensando a D...., e alla propria casa, che si poteva stimare una cosa di mezzo tra un palazzo e una catapecchia plebea; più che ad abellirla, si sentì tirato a farla modesta. Disegnando su questo a seconda dei pensieri che gli frullavano pel capo, si coricò; per destarsi l’indomani a ripigliare la sua vita di studio, di solitudine, di sogni d’amore: ma in casa la marchesa non tornò più. Nè questa se ne dolse a lui per imbasciata, o in altra guisa; solo volle tenerlo guardato per uno dei servi più fidi; vogliosa di far servizio a quella buona signora Maddalena e a don Marco. Seppe che nello studio, proseguiva ad essere riputato dei migliori, sebbene menasse vita selvatica e da uomo di sua testa; ma le dolse chiarire come nei libri della polizia, il nome di lui fosse notato assai nero: di che stette tutta occhi, perchè da quella parte non gli seguisse niun male. Egli poi, nulla sapendo delle cure che la gentildonna pigliava di lui; diventava ogni dì più assiduo ai ritrovi misteriosi, che ho rammentato; e cogli uomini, che di quel tempo erano tenuti in sospetto, di voler un giorno dar dentro a rivoltare il mondo, stringeva amicizia, ricambiava promesse; attirando sopra sè stesso i tanti pericoli, da cui coloro erano minacciati.

Di questo andare entravano giugno e luglio, colle loro giornate noiose e mai più finite; e Giuliano si vide di più di manco, alla vigilia di fare i fardelli, per tornarsi medico a quel suo D.... sospirato. Di sua madre ebbe in quel tempo due lettere, mute su Bianca, e però di cattivo presagio. Se ne doleva, fantasticando su quel silenzio; ma ne scusava la madre, come donna prudente, che non voleva mandar attorno il nome della fanciulla, confidato alla carta: e gli erano di qualche conforto le notizie che essa gli dava di sè, della vita che menava rassegnata, dello spasso preso in quelle sue lezioni date a Tecla, della quale diceva, come se la fosse tirata in casa, [p. 233 modifica]e quanto ne fosse lieta, crescendo questa di gentilezza ogni giorno, sicchè egli nel tornare non l’avrebbe più ravvisata. Queste cose piacevano al giovane, perchè s’accordavano coi suoi pensieri; e perchè Tecla gli era sempre paruta degna di vita men dura di quella, che pel suo stato, doveva condurre: faceva conto di assecondare quel pietoso lavoro di sua madre, una volta che avesse sposato Bianca; e godeva, al pensiero di poterle dare questa villanella, che se la tenesse per compagna, e proseguisse a tirarla su creanzata.

Venuto così in sugli ultimi di quel luglio, tornava una sera per chiudersi a studiare e prepararsi all’esame; e sulla porta della casa dove abitava, trovò uno staffiere che teneva pronto un cavallo bellissimo, vigoroso, sellato, come in attesa di chi v’avesse a montar su, per qualche viaggio non corto. Appena Giuliano gli fu accosto, lo staffiere si scoperse, e gli diede un biglietto della marchesa di G..., cui il giovane lesse in un baleno, facendosi in viso come un panno lavato.

«Vostra madre è morente; — diceva la scrittura — partite su questo cavallo, ma subito: alla mia villa di B.... troverete altri cavalli. Servitevi, partite, chi sa se farete a tempo....

«Un momento! sclamò Giuliano col cuore alla gola; e volato in camera, si pose in gamba un paio di stivali armati di sproni; poi così com’era, senza badare a robe, a libri, a nulla di quel che lasciava; discese e montò in sella.

«Badi — gli disse lo staffiere — appena fuori B.... a man destra, in quella palazzina, troverà il gastaldo della signora marchesa....

«Mi rammenterò di voi — rispose egli mettendo in mano a colui qualche moneta: dite alla signora marchesa che io terrò la vita per lei: addio.»

E spronando dalla parte di mezzogiorno, trovò la via del suo destino, e si mise su quella di trotto chiuso.

Lo staffiere pensando alle spalle riquadre, al corpo [p. 234 modifica]snello, alle gambe di ferro del giovane; tornò a casa la marchesa, a dirle che questi era partito come un razzo; e la gentildonna, ringraziò il cielo, e pregò che Dio tenesse la sua santa mano sul capo a Giuliano, per tutta la via.

E in verità il giovane ne aveva bisogno, perchè egli spronava di maniera, che quanti s’imbattevano in lui, fossero a cavallo o a piedi, penavano a scansarsi, e gli davano dietro di basilisco e di peggio. E forse avrà trovato di tali, cui sarebbe piaciuto movergli contesa per quella furia; ma la bellezza del cavallo, dava a pensare all’alto stato del cavaliere; e di quei tempi si avevano in grande reverenza i signori e le loro soperchierie. Fu soltanto in un piccolo borgo, che si udì gridar dietro: «fermatelo! fermatelo!» ma una voce aveva quetato la folla, dicendo che forse egli era una staffetta del Re, e le grida erano cessate. Oh s’egli avesse potuto conoscere colui che con quelle parole l’aveva salvato, se non da altro, dall’essere fermato, indugiato, sì che forse non sarebbe più stato padrone di sè, per correre dove lo chiamavano le ultime voci materne! L’avrebbe ringraziato in ginocchio; avrebbe chiesto perdono a quel popolo d’essere passato fendendo l’aria come una saetta, risicando schiacciargli i bambini; ma con tutto questo non rimise dal correre, e buon per lui, che fattasi notte, potè tirare innanzi senz’altri incontri.

Giunse a B.... a mezza via tra Torino ed Alba, che rompeva l’aurora; e ai coloni che già a quell’ora si avviavano ai campi, chiese del gastaldo della marchesa per mutare il cavallo. Quello che aveva sotto non poteva più reggere. Gli fu additato una sorta di maniero, lontano pochi passi dalla via maestra, dove un uomo stava sulla soglia, quasi avesse saputo di dovervi aspettare qualcuno. Costui era appunto il gastaldo, il quale ravvisando il cavallo, si fece incontro al cavaliero; e mentre guardava con occhio pietoso la povera bestia com’era conciata; udiva da Giuliano che gli aveva [p. 235 modifica]a dare un’altra cavalcatura. Smontare, togliere l’arnese di dosso al cavallo stanco, e sellarne un altro, zaino, accapucciato, di collo scarico e all’aspetto buon corridore; fu lavoro di poco tempo. I due animali barattarono tra loro un nitrito, come se il nuovo chiedesse allo stanco, se il cavaliero fosse forte in arcioni; Giuliano già in sella spronò, e forse senza salutare il gastaldo, ripigliò la via.

E tornò a traversare borghi e castelli, non provando molestia di fame o di stanchezza. Più camminava più gli pareva di diventar forte e fresco; al sole non badava nè al polverio, nè ad altro: arrivare a D.... ecco lo sprone che gli si era fitto nell’anima, più acuto, più tormentoso di quello, con cui egli insanguinava i fianchi al cavallo; il quale se gli fosse bastata la lena, quel giorno di certo non avrebbe odorato biada nè fieno, prima d’essere a D.... Ma alla fine se non la compassione del cavaliero, potè la stanchezza; e il povero animale rallentò da sè la gran corsa. Allora Giuliano si trovò come riscosso da un sogno, che stesse facendo; e alzato il capo si vide in faccia e poco discoste le torri di Alba. La voce del Tanaro gli suonò all’orecchio, come quella d’un amico che gli parlasse, con dialetto somigliante a quello dei suoi monti; e guardando la propria ombra sulla via, gli parve sì corta, che stimò il mezzogiorno molto vicino. Passando il ponte di legno che metteva nella città, pensò come quelle acque verdastre, spumanti, rumorose contro le barche; sarebbero scese più basso, a mescolarsi con quelle della sua Bormida; sentì l’aria della sua terra; diede un’ultima occhiata dietro di sè alla pianura, all’Alpi lontane, in quell’ora non tinte come a sera, di colori che paiono dell’altro mondo; poi messosi dentro, badò innanzi la via per dove andava.

Sott’essi i porticati, che in Alba, come in quasi tutte le cittadette di quelle parti, sembrano essere stati fatti apposta per i signori; stavano i maggiorenti aspettando [p. 236 modifica]l’ora del desinare; altri in brigatelle allegre passeggiando, altri gomitoni sugli sporti delle officine a chiacchierarsela cogli artieri alla buona. L’aspetto della città, era allora più severo, e le torri brune parevano stare là ritte, quasi per ammonire i cittadini, che dove non avessero atteso a procacciarsi ogni anno miglior ventura e vivere più civile; il passato con tutto il diavolio di baroni, di bravi, e di foderi medioevali, avrebbe rifatto capolino dalle loro balestriere, e dai loro merli, sto per dire, imbronciati.

Giuliano attraversò la città, e andò a smontare all’altro capo di essa, a quell’osteria chiamata una volta dello scudo di Francia, adesso dei tre Re; quasi per far le cilecche ai francesi, che l’anno prima n’avevano tolto uno dal mondo.

«Questo cavallo ha fatto più di venti miglia!» sclamò lo stalliere cui Giuliano diede le briglie, smontando nel cortile dell’osteria.

«Potete dire anche trenta — rispose questi — abbiategli cura» e lasciando a colui l’animale, passò dal cortile ad una sala terrena, dove si dava da mangiare ai viaggiatori.

Di quei tempi era un bel vivere! dicono i vecchi; e in verità in quelle cittadette mezze nascoste, e quasi dimenticate si stava in apolline. Si desinava nelle osterie semplici e disadorne: e se il viandante, seduto a mensa, levando il capo di sul piatto, non dava dell’occhio in ampio specchio, a vedervi sè stesso sfigurato dai moti plebei del biascicare; in cambio di queste magnificenze, gli era messo in tavola gran bene di Dio, per poca moneta. I vigneti fruttavano a dovizia; e se avesse usato lavare i piedi agli ospiti in sull’arrivare, come ai tempi antichi; lo si avrebbe potuto fare col vino, tanto ve n’era d’avanzo. I prati nudrivano le fienaie, per modo che carne e pane, stavano tra loro a spesa poco diversa; epperò lo osterie erano formicai di gente paesana e di viandanti, sui quali l’occhio materno [p. 237 modifica]dell’ostessa seduta al focolare, spandeva il dolce ricordo domestico; e l’ospite si stimava in casa sua.

Giuliano andò diritto all’oste, il quale era un ometto tondo della persona, lucente nelle guance, e tenuto in sussiego da tre o quattro giogaie, che dal mento gli si digradavano alla sommità del petto; donde tra lo sparato della camicia, uscivano petulanti velli grigi, a guisa di gale. Nelle sue pupille pareva vi fossero due birri appiattati; a mirarne il naso vergolato di mille venuzze accovate sulla punta, si sarebbe detto che da uomo di coscienza, ei non lasciasse uscire dalle sue botti un bicchiero di vino, senza averlo assaggiato. Del rimanente era uomo avvisato molto, ma da mettersi a brani per fare servigio.

«Oste, — gli disse il giovane — la marchesa di G.... ha poderi qua in Alba?

«Poderoni! — sclamò l’oste, maravigliando come altri avesse mestieri di chiedere cosa, che doveva essere nota a mezzo il mondo.

«Ebbene — soggiunse Giuliano — ho un suo cavallo, che voi, se vi fa comodo, manderete al suo gastaldo, appena sia riposato nelle vostre stalle: poi se me ne troverete uno per un paio di giorni, saremo d’accordo sul prezzo con pochi discorsi.

«L’oste dei tre Re serve chi lo comanda; e pel signorino ci ho un cavallo morello, sfacciato, con quattro gambe da cervo...

«Appunto quello che mi occorre tra mezz’ora. Adesso vorrei mangiare....

«Vuol salire di sopra...?

«No..., starò qui.»

L’oste s’inchinò, affilando l’uno contro l’altro due coltellacci da affettare le carni; e Giuliano andò a sedersi ad un deschetto, nell’angolo più solitario di quella sala.

La quale era vasta, e vi stavano mangiando a diversi tavolini, brigate di mulattieri, dagli aspetti robusti; [p. 238 modifica]gente che soleva fare buon tempo, quando le accadeva di trovarsi sicura dai gabellieri, coi quali, su per gli alpestri confini tra il regno e la repubblica genovese, faceva sovente a chi più ne toccasse; barattando anche qualche schioppettata, per amor del danaro che guadagnava a manate.

Il giovane diede un’occhiata fra quei commensali, se ve ne fosse qualcuno del suo borgo, o delle terre vicine, per chiedergli di sua madre; ma non v’era faccia che gli tornasse nota. Stette gomitoni aspettando il suo pasto, e pensava che se egli fosse stato in quel luogo a mal fare, di cento volte novanta vi sarebbe stato un testimonio delle sue parti; quando l’oste venne oltre, portando alto un pollo lesso di tal fragranza, che avrebbe fatto gola ad uno, tornato allora allora da un pranzo di nozze. Lo mise innanzi a Giuliano, vicino ad una caraffa di vino paesano, e versatogli di questo, additandogli il bicchiere gli disse:

«Questo le parrà sulla lingua il taglio di un rasoio. Se non fossi importuno, vorrei chiederle una cosa. Ella è quel signore, smontato al mio albergo questa pasqua, o giù di lì, con un suo servitore?

«Appunto.

«Ah! lo diceva pure io, che le fisionomie dei signori i quali mi fanno onore, non le dimentico! Anzi, ricordo che il suo servitore mi disse, che lei andava a Torino per farsi medico....

«Avete buona memoria: — disse Giuliano mangiucchiando; e l’oste inchinatolo rispettoso, fece le viste di correre a un tintinnio di bicchieri, che veniva dall’altra mensa.

Ma in cambio andò a parlare con un tale, vestito a modo; che subito venuto a Giuliano lo salutò con certa dimestichezza, e facendo un segno come per farsi conoscere. Il giovane si levò da sedere, rispose cortese a quel saluto, e a quel segno; al quale ne seguirono due o tre altri barattati rapidamente; poi si strinsero la mano, si [p. 239 modifica]riconobbero per essersi visti altra volta, sedettero e cominciarono a parlare basso tra loro.

Erano già molto innanzi coi loro discorsi, ma niuno ne avrebbe potuto raccogliere parola, tanto badavano a non farsi udire: quando colui, che ai portamenti sarebbe paruto a chicchessia un vecchio amico di Giuliano, si mostrò stupito, e guardandolo negli occhi, gli disse:

«Come? Eppure da ieri in qua non si parla d’altro fra noi...! La retata di scolari e dei nostri fu fatta, o la polizia di Torino, sta per farla. — Via, pensate che io voglia rimproverarvi d’esservi posto in salvo?

«Ma io — sclamò Giuliano balzando in piedi, avvampando nel viso, a guisa d’uomo oltraggiato, per modo che tutti i mulattieri che mangiavano là dentro si volsero a guardarlo: — io non so nulla! Io partii ieri sera, e vado a D.... a vedere mia madre morente. Leggete.»

Così dicendo frugava per le tasche del giubboncello e cavato il biglietto della marchesa di G.... lo dava a leggere a quello strano amico,

«Saranno state false nuove! — disse costui, letto d’un’occhiata il foglio, e stretta la mano al giovane nel ridarglielo: — andate diritto al vostro destino; finchè uno ha la mamma non sospiri, dice il proverbio... Ma... via..., poichè non sapete nulla, nulla deve essere seguito; non vi lasciate cogliere dalla malinconia, e bevete alla salute di vostra madre.»

E gli mescè che bevesse, come fosse stato un suo ospite.

Giuliano posto da quella novità, in gran pensiero, non bevve nè parlò. La sua persona sedeva a quel desco, ma l’anima sua, lo si vedeva chiaro dalla pupilla che pareva spenta, era altrove. Forse a Torino, forse a D...; forse pensava a tornare addietro, chiarirsi se davvero tanti giovani fossero stati carcerati come colui diceva; e poi rifar la via una terza volta, per correre al suo borgo nativo. E la marchesa di G..., e la brigata che le aveva visto in casa, e quel biglietto, [p. 240 modifica]e sua madre morente e forse già morta; erano immagini accozzate nella sua mente, a dargli un travaglio da non potersi patire. In somiglianti scompigli dell’animo, l’uomo si lascia governare dal consiglio dell’amicizia, docile come destriero generoso in mezzo alla mischia, che risponde ad ogni cenno del cavaliero: e Giuliano si mostrò pronto a dar retta al suo vicino, tosto che questi ripigliò, parlando basso più di prima:

«Animo, amico, la sventura è madre dei forti; se vi è cara la libertà, se vostra madre volete vederla ancora una volta, su a cavallo! e via in buona ventura.

«Sì, — rispose il giovane levandosi con piglio risoluto — a cavallo! Oste...»

L’oste accorse, ebbe lo scotto, e il nolo che volle del cavallo; e Giuliano uscì, accompagnato nel cortile dall’amico. Dette con lui altre poche parole di congedo, montò in sella; e mentre partiva udissi dire, con voce impressa d’affetto:

«Tornando, rammentate che la casa di Ranza è casa vostra. Addio!»

Codesto Ranza, era della città d’Alba, caldo amatore di libertà e delle cose di Francia, e molto addentro nelle cospirazioni, che si formavano di quella stagione. Egli si scoprì di là ad un paio d’anni, quando i repubblicani condotti da Buonaparte, furono nelle valli della Bormida e del Tanaro, dopo aver vinto a Montenotte e a Cosseria; e diede lena a molti di chiarirsi contro il re. Di lui fa cenno il Botta nelle sue storie, e sebbene lo stimi cervello disordinato, e capace del pari di far perire la realtà per la ribellione, e la libertà per l’anarchia; è giusto alla sua memoria; lo chiama uomo dabbene nè senza lettere; e di certo non disse troppo.

Giuliano l’aveva incontrato a Torino alcune volte, a quei convegni notturni; ai quali di quando in quando, si recavano gli amici delle città piemontesi, a fare accordi, a pigliar novelle, a conoscere nuovi compagni. Ora cavalcando e divorando colla mente, quelle altre sei od [p. 241 modifica]otto ore di cammino, che gli rimanevano a fare per giungere a D...; sentendo in cuore la voce di Ranza suonare con qualcosa di paterno; credeva che per tutta la vallata fossero uomini di quella sorta e di quel pensare. Sicchè l’aria gli pareva piena di spiriti generosi; tutto gli tornava più bello a vedersi in quei luoghi noti: e sin quel dolore domestico, verso il quale correva, gli si faceva più mite.

Man mano che s’avvicinava a’ suoi monti; l’aspetto della campagna, era come se la mano dell’uomo avesse affrettato l’opera della natura. I fieni erano stati falciati; la mietitura fatta anco nei luoghi, ove le messi solevano venire più tardive; dovunque era un casolare, s’udiva un rumore di correggiati, si vedeva un ventolar di biade, e nugoli di pula che andavano all’aria lontani. Appariva, per tutto, la furia di tirarsi in casa i raccolti, anco immaturi; dalla tema dei Francesi, dei quali si diceva che usassero predare, incendiare, struggere ogni cosa. Chiese novelle del paese, e di grosse come quelle che gli davano i montanari, non ne aveva inteso mai. Seppe che di quei giorni erano arrivati in Val di Bormida molti Alemanni, dicevano più di centomila, ma che i Francesi erano molti più. Taluno osava chiedere a lui dove andasse; e sentito che a D..., compiangeva il povero signorino, perchè i repubblicani erano di là a poche miglia. Giuliano non badava a quelle rustiche paure, e tirava innanzi bevendo a petto pieno l’aria delle montagne native.