Le supplici (Euripide)/Terzo episodio

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Terzo episodio

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Euripide - Le supplici (423 a.C. / 421 a. C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Terzo episodio
Secondo stasimo Terzo stasimo
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Giunge un messaggero.
messaggero
Donne, vi reco assai grate novelle.
Primo, libero io son: ché prigioniero
fui nella guerra che le sette schiere
dei re defunti combatteron presso
l’acque di Dirce1. La vittoria annuncio
poi di Tesèo. Non far lunghe dimande.
Di Capanèo, dal fulmine di Giove
incenerito, un dei famigli io sono.
coro
Lieto è ciò che di te dici, o carissimo,
e di Teseo! Se salvo è pur l’esercito
d’Atene, in tutto il tuo messaggio è lieto.
messaggero
È salvo. E ciò che Adrasto dovea compiere
con gli Argivi, quand’ei mosse dall’Inaco
contro i valli di Tebe, esso ha compiuto.

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coro
Or, come a Giove un trofeo tale il figlio
d’Egèo levò, con gli alleati? Tu
ch’eri presente, chi non c’era allegra.
messaggero
Del sole i raggi scintillanti, indizi
certi dell’ora, già colpían la terra;
ed io, sovra una torre eccelsa, presso
le porte Elettre, asceso ero, e miravo.
E tre falangi a guerra armate io vidi.
In alto, sino al poggio Ismenio, come
lo udii chiamare, si stendeva tutta
la schiera degli opliti: all’ala destra,
lo stesso re, d’Egèo l’illustre figlio,
e intorno a lui, gli abitatori antichi
della terra cecropia. Ed i Paralî2,
di lance armati, presso il fonte d’Are.
Stavano i cavalieri ai lati estremi
schierati, uguali in numero; ed i carri,
d’Anfíone presso al venerando tumulo.
L’esercito di Cadmo era schierato
dinanzi ai valli, i cavalieri contro
i cavalieri, e i carri contro i carri.
E disse a tutti di Tesèo l’araldo:
«Tacete, o genti! O schiere dei Cadmèi,
udite: noi per dar sepolcro ai morti
venimmo qui, perché rispetto avesse
una legge comune a tutti gli Èlleni,
non per brama di strage.» E nulla a questi

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detti Creonte replicò, ma stette
muto, chiuso nell’armi. Incominciarono
la zuffa i guidator’ delle quadrighe.
Spingono i carri, le due file passano
una oltre l’altra, e i combattenti posano,
che s’incontrino, a terra: i ferri incrociano
questi, e gli aurighi presso a loro spingono
nuovamente i puledri, alla battaglia.
Forbante allor, che ai cavalieri d’Attica
era preposto, e quelli che guidavano
lo stuol di Cadmo equestre, appena videro
il tumulto dei carri, s’impegnarono
nella battaglia anch’essi, or vincitori
ed ora vinti. Ed io tutto vedevo,
udivo tutto: ch’ero presso dove
s’azzuffavano i carri e i duci loro.
Ma degli orrori molti ch’io là scorsi,
non so qual prima io debba dire. Forse
la polvere, che al cielo in fitti vortici
si sollevava? O i corpi nelle redini
avvincigliati, e tratti qua e là,
e i rivoli del sangue, e chi cadeva,
e chi piombava, franto il carro, a guisa
di palombaro, con la testa in giú
al suol, con urto vïolento, e qui
fra i rottami del carro uscia di vita?
Come Creonte i cavalier’ d’Atene
prevaler vide, lo scudo imbracciò,
e alla pugna balzò, pria che languisse
il coraggio nei suoi. Né, d’altra parte,
nell’inerzia poltrí Tesèo, ma súbito,
strette l’armi lucenti, s’avventò.
Ed era un cozzo sol tutto l’esercito,

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era un colpire, un cadere, un rivolgere
l’uno all’altro grandi urla eccitatrici:
«Picchia sodo! La lancia appunta contro
la gente d’Erettèo!» — Salde alla lotta
eran le schiere dei guerrieri nati
dai denti del dragone3; e l’ala manca
nostra, piegava già: quelli cedevano
invece a dritta; e ugual pendeva l’esito.
E qui degno di lode il duce fu:
ché non ristette solamente a cogliere
della vittoria i frutti; ove cedevano
le sue schiere, si spinse, e un urlo alzò,
alto cosí, che n’echeggiò la terra.
«Figli, se non reggete di questi uomini
nati d’un drago all’aspra asta, è finita
la fortuna di Palla». In cuore ai nati
dalla roccia, cosí coraggio infuse.
Ed egli stesso, l’arma d’Epidauro4,
la terribile clava in pugno stretta,
come una fionda la vibrava in giro
su le cervici e su le teste, e gli elmi
falciava, al par di spighe, al par di canne.
Furono infine, a stento, in fuga volti.
Ed io battei le mani, e grida alzai
di vittoria, e danzai. Quelli fuggirono
verso la porta. E in tutta la città
suonavan pianti ed ululi di giovani
e di vegliardi; e tutti lo sgomento
addensava nei templi. E i muri facile
era varcar; ma i suoi contenne Tèseo,
ché non ad espugnar Tebe, diceva,
ma le salme a cercare era venuto.
Un tale duce eleggere bisogna,

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che nei perigli è valoroso, e aborre
il vulgo senza fren, che, quando prospera
volge la sorte, per brama d’ascendere
ai sommi gradi della scala, strugge
anche quel bene onde gioir poteva.
coro
Or che, contro ogni speme, un tal dí vidi,
ai Numi credo; e poi che il fio pagarono
quei crudi, men la sorte mia m’ambascia.
adrasto
O Giove, e come il senno proprio vantano
i miseri mortali? Essi dipendono
da te, l’opere loro tu determini.
Argo era nostra, rocca inespugnabile,
molti eravamo, e giovani e gagliardi
le braccia. E quando ci propose Etèocle
un giusto accordo, noi lo respingemmo;
e quindi venne la rovina nostra.
E poi, lo stolto popolo di Cadmo,
appena trionfò, simile al povero,
che, di colpo arricchito, insolentisce,
oltraggiò la giustizia; ed a sua volta
cadde in rovina. Oh dissennata gente,
che troppo l’arco tendi, e assai dolori
poi Giustizia v’infligge, ed agli amici
negate fede, e sol credete ai fatti!
E voi, città che i vostri guai potreste

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con le parole superare, e invece
non le parole, ma le stragi usate
a sciogliere i contrasti! Ora però
ciò non importa. Come ti salvasti
narrami prima, e poi ti chiedo il resto.
messaggero
Quando il tumulto della guerra invase
la città, dalle porte ove irrompeva
l’esercito fuggiasco, uscii da Tebe.
adrasto
Le salme onde la pugna arse, recate?
messaggero
Sí, delle sette illustri schiere i duci.
adrasto
Come? E la turba ov’è degli altri estinti?
messaggero
Del Citeron presso alle valli giacciono.
adrasto
Da quale parte? E chi scavò le fosse?

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messaggero
Tesèo, dove ombre effonde il Sasso Elèutero.
adrasto
E dove i non sepolti hai tu lasciati?
messaggero
Presso: ché presso chi s’affretta è ognora.
adrasto
Penâr, dal sangue a raccattarli, i servi?
messaggero
Non attese alcun servo a tal travaglio.
adrasto
Ebbe cura di ciò Tesèo medesimo?
messaggero
Con quanto amore, dir lo può chi vide.
adrasto
Dunque le piaghe egli lavò dei miseri?

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messaggero
E i corpi ricoprí, distese i letti.
adrasto
Dura bisogna e repugnante fu.
messaggero
Perché? Miserie son comuni agli uomini.
adrasto
Ahimè! Fossi con loro anch’io caduto!
messaggero
Vano è il tuo lagno; e queste al pianto provochi.
adrasto
Esse, mi sembra, a me ne son maestre.
Ma via, la man protendo ora, per fare
onore ai morti, e i lagrimosi carmi
d’Averno intono, a salutar gli amici
onde fui privo, e solo ora li lagrimo.
Ché questo bene sol non si recupera,
quando perduto fu: l’anima umana.
Le ricchezze, c’è via che si ristorino.

Note

  1. [p. 300 modifica]Presso l’acque di Dirce, cioè presso Tebe.
  2. [p. 300 modifica]I Parali, gli abitanti della Paralia, regione litorale dell’Attica.
  3. [p. 300 modifica]I guerrieri nati dai denti del dragone, sono, come è noto, i Tebani.
  4. [p. 300 modifica]L’arma di Epidauro è la clava.