Le vie del peccato/Sull'Oceano, sotto la luna

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Sull’Oceano, sotto la luna

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Le vie del peccato La colpa degli altri

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SULL’OCEANO, SOTTO LA LUNA.

A W. Steed.

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Sull’Oceano, sotto la luna


— Gl’italiani sono troppo scettici. Non so perchè le nostre amiche, quando ci imbarchiamo per l’Europa, ci ripetano con tanta ostinazione che voi italiani siete pericolosi perchè siete troppo appassionati.

Questa definizione era data con molta flemma sul ponte del Kaiser Wilhelm a non so più che grado di latitudine e di longitudine, una sera del settembre scorso, da una piccola americana che aveva freddo e che sdraiata su la lunga sedia di vimini, fasciata da una coperta gialletta soppannata di turchino, col cappuccio della cappa sui capelli biondi, con le braccia conserte sotto la cappa chiusa, parlava fissando la luna. Aveva una [p. 4 modifica]voce calda e lenta, appena appena nasale, con certi punteggiamenti d’energia su le prime sillabe delle parole sdrucciole che compensavano l’immobilità delle mani e degli occhi. Io però conoscevo bene le sue mani e i suoi occhi perchè glieli avevo già baciati qualche volta nell’ozio dei quattro giorni d’oceano, dopo aver salpato dallo scalo di Oboken. Le mani erano piccole ed esangui, gli occhi erano grandi e cilestri. E le labbra? Le labbra erano esili e rosee, e, a vederle, crudeli.

— È stupido l’amore con gli scettici. Non si riesce a farli soffrire.

La luna faceva un gran tremare su la quieta acqua infinita e nel cielo spegneva quasi tutte le stelle.

— Ma quanti italiani avete conosciuti, per sentenziare così? — domandai io con prudenza.

— Quanti bastano, — mi rispose la bionda, invisibile immobile sibillina.

Anch’io fissai la luna e le lanciai contro ritmicamente il fumo della mia sigaretta perchè anche questo gioco d’illusione piace all’uomo — di velar le bellezze con un poco di fumo per goderle meglio quando tornano chiare.

Fritz, il deck-stewart, passò presso la fila delle sedie lunghe delle quali molte erano già vuote, a [p. 5 modifica]mostrarci un pesce volante preso dagli emigranti sotto il castello di prua, sventrato, impagliato e inchiodato a pinne aperte sopra una tavoletta bianca. Miss Ellyn non si mosse. Lo stewart chiuse le lampadine elettriche, una sì, una no. Nella sala del pianoforte qualcuno — forse la figliola minore della messicana coi capelli tinti — tormentava la Serenata di Schubert.

Poco dopo la luna toccò la linea dell’orizzonte. La via d’argento si spalancò a ventaglio. Per cinque minuti fu tutto un fremere di piccole onde a miriadi, e noi navigammo in un mare di luce candida. Poi il mare divenne nero; le stelle, senza l’emula, tornarono a splendere.

E Miss Ellyn riaprì bocca:

— Voi non mi volete dar ragione solo perchè temete che io creda scettico anche voi. Ma di voi, non m’importa se siate scettico o no.

Viaggiando in America o vivendo con donne americane, non bisogna adombrarsi a certe crudezze. Tant’è vero che, avendo io insinuato una mano sotto la coperta e sotto la cappa per prender la sua, ella me la lasciò accarezzare, placidamente.

— Vi dirò una mia esperienza italiana, e giudicherete. Voi sapete che questa è la quinta volta [p. 6 modifica]che «passo il fosso», cioè questa sarà la mia terza visita all’Italia. La prima volta avevo diciannove anni. A Roma mia madre ed io prendemmo un piccolo appartamento alle Quattro Fontane. L’inverno era una primavera, e avevamo una terrazza che da un lato guardava la villa Barberini e dall’altro, oltre certi orribili muraglioni gialli, i giardini del Quirinale. Io suonavo il pianoforte. Per far pratica, da non so più quale amica mi fu presentato un giovane pianista meridionale, che aveva due grandi occhi neri e una ondulata capellatura precocemente grigia. Suonava bene e mi piacque. Un giorno mi portò un mazzo di violette doppie. A quel vasello pieno di viole odorose su l’alto del pianoforte, mentre suonavamo a quattro mani, convergevano i nostri occhi: e fu un primo legame. Una amica mia di Norwich aveva avuto in Francia un amoruccio squisito con un pianista. Me lo rammentai in quel punto, e guardai il mio compagno. Egli, pur tenendo gli occhi su le mani e su la tastiera, sentì che il mio sguardo era diverso dal solito, più curioso, direi quasi interrogativo. – Would you accept a little flirt with your american pupil, would you not? Accettereste un piccolo flirt con la vostra scolara americana? – Questo domandava lo sguardo. Egli, [p. 7 modifica]finalmente, a un tratto lasciò di suonare, mi guardò negli occhi. Capì. Oh voi italiani certe cose le capite, le sentite subito! Questo, lo ammetto. E subito trovate il miglior modo e il più prudente per cominciare: un atto, un gesto per cui non possiamo offenderci, che dobbiamo accettare, ma che, se vogliamo, possiamo interpretare come un invito e come una dichiarazione. Prese alcune viole dal vasello di cristallo veneziano e mi disse che dovevo portarle alla cintola, e, non facendo io alcuna resistenza, egli stesso ve le insinuò. Poi mi baciò una mano e, poichè io sorridevo, me le baciò tutte e due, e poichè io sorridevo ancora, mi baciò su le labbra, forse per non farmi sorridere più. Da allora, ci occupammo più poco del pianoforte.

Ormai eravamo soli sul ponte. Uno dei viaggiatori venne a offrirmi di far da quarto nel solito poker serale e rifiutai. Dopo una pausa, avendo io ripreso possesso della mano di Miss Ellyn, la narrazione seguitò:

— Voi capite, mi pare, che cosa sia un flirt. Si andò attorno insieme per tutta Roma, per tutte le chiese e per tutti i giardini. Un giorno andai anche a casa di lui...

— Come si chiamava? [p. 8 modifica]

— Paolo, di primo nome. Di cognome Martini, ma non rammento più esattamente come fosse scritto. Dunque: andai a casa di lui, per vedere il suo pianoforte che era un vecchio Erard sonoro come un organo. Egli mi guardava in estasi e soffriva perchè non gli permettevo da principio di chiamarmi Ellyn tout court.

— Come parlavate?

— In inglese. Egli sapeva un po’ di inglese, senza acca, e ne imparava rapidamente ogni giorno, ogni giorno di più. Voi italiani siete come i russi per le lingue.

— Non fate complimenti e non vi distraete. Pensate a Paolo.

Ella diceva Paulo, costringendo il dittongo in una sola vocale ambigua e brevissima.

— Povero Paolo! È tanto tempo! Dunque un bel giorno a casa sua, mi disse, così, all’improvviso: – Io voglio sposarvi. – Io scoppiai in una risata. Ve lo potete immaginare! Già egli non aveva un soldo e anche di lezioni poche e, da quando conosceva me, per andare a passeggio, ne faceva anche meno. E poi l’io voglio sposarvi era addirittura allegro, per me, con quell’io che escludeva ogni consenso mio a priori, e quel voglio così italianamente dispotico. E poi ancora, appena [p. 9 modifica]egli ebbe detto la grande frase in atto tragico tenendomi le due mani e fissandomi come per ipnotizzarmi, mi ricordai di un’amica la quale prima di partire mi aveva avvertita appunto che tutti gli italiani domandano di sposarvi, a primo acchito.

— Dunque non sono scettici.

— Altro che! O lo fanno per darvi fiducia su l’onestà dei loro propositi, o lo fanno perchè vi credono ricca. Per tornare a Paolo, egli si allontanò di un passo, tacque un secondo, aspettò che io dicessi non so più che cosa per spiegare o mitigare la mia impertinenza e poi scosse le spalle mormorando: – Me lo dovevo aspettare! — E non me ne parlò mai più. Ma non mi abbandonava mai. Quando dette il suo concerto in una sala vicino alla Fontana di Trevi, rammento, saremo stati trenta, o quaranta ascoltatori soltanto. Io che lo avevo fatto dalla mamma invitare a cena per la sera, m’ero preparata tutto un bel frasario per confortarlo. Non gli ho mai voluto bene come quella sera. Anzi quella sera non era flirt, vi assicuro, e flirt da americana. Era vero amore: un po’ di pietà e un po’ di ribellione contro il pubblico che lo aveva disprezzato. Noi americane soltanto siamo capaci di sentir ciò. [p. 10 modifica]

Poichè io tacevo, si volse verso me:

— Non è vero?

— Non so. Sarà vero. Ma se conoscete gli italiani, non mi direte di conoscere anche le italiane.

Ed essendo la sua faccia molto vicina e ormai tutte le lampadine elettriche spente, la baciai, nel silenzio e nel buio. Ella riprese il racconto, americanamente imperturbabile per un gesto così semplice.

— Orbene, credereste voi che quello scettico che non s’era commosso alla mia risata tanto tempo prima fosse commosso dal suo fiasco quella sera? Niente affatto. Entrò sereno; finchè fummo soli mi parlò con la fremente passione di tutti i giorni, ormai; discusse su la musica suonata. Del pubblico, nemmeno una parola. Io rimasi gelata. Osai domandargli la ragione della sua indifferenza, ed egli mi rispose: – Ma se ho il vostro amore, che m’importa del resto? – E il resto era la sua carriera, il suo guadagno, his own business, la sua arte!

— Ciò significava che vi voleva bene.

— Gli piacevo, ecco tutto; ma bene non me ne voleva perchè quello che avrebbe potuto innalzarlo a me, quello che avrebbe potuto indurmi [p. 11 modifica]ad amarlo, magari ad accettare la sua proposta di matrimonio, cioè l’arte sua, egli la disprezzava.

— Veramente voi siete di un altro mondo. Andate innanzi.

— Oh c’è più poco. Partimmo, passammo l’estate in Francia a Trouville, in Baviera a Kissingen. Non tornammo a Roma che in dicembre. Non v’ho detto che Paolo da due anni scriveva un’opera sopra un libretto che non mi piaceva, un libretto strano, favoloso, non fatto davvero per piacere al pubblico. Io gli avevo detto ciò francamente, ed egli scettico aveva sorriso. Quando fui a Roma gli scrissi del mio arrivo, invitandolo a venire. Solo dopo quattro giorni ricevetti una sua lettera non so più se da Siena o da Lucca, dove con l’aiuto di un amico ricco egli era andato a mettere in scena la sua opera.

— Vi andaste?

— Ci pensai. Ma avevamo già da vedere tanti amici a Roma, avevo da pensare ai vestiti da sera, che certo non avevo potuto comprare in Baviera... E, alla fine, non potei. Gli scrissi, gli telegrafai i nostri augurii. E la conclusione fu che l’opera, come il concerto, cadde malamente, e anche qualche giornale, tra i maggiori, ne disse male. Per mezzo mese non seppi più nulla di lui e me ne [p. 12 modifica]addoloravo, un poco. Lontano da Roma, ormai aveva perduto ogni possibilità di trovar qualche buona lezione per l’inverno. E, nell’abbattimento della sconfitta come sarebbe vissuto? Discussi anche con la mamma e con una mia amica sul modo più cortese per fargli accettare un qualche aiuto, se fosse venuto. Inaspettatamente, una mattina lo incontrai pel Babuino. Era pallido, gli occhi erano più grandi che mai, e le mani, senza guanti, più belle, più bianche e più nervose che mai. Vi giuro — e non ci crederete, scettico come siete! — che mi piacque davvero, davvero, davvero.

Adesso ella non stava più sdraiata. S’era liberata dalla cappa e parlava, gestendo, con ardore. Io vedevo gli occhi e i denti e le gemme degli anelli luccicare fievolmente nella penombra.

— Noi americane siamo sincere. Lo pregai di venire. Egli corse da me lo stesso pomeriggio. Lo rivedo come fosse ora. Entrò dentro, mi gettò le braccia al collo, mi strinse freneticamente, mi coprì tutta di baci, ripetendo: – Ma dunque è vero, è vero che voi mi amate ancora? – Io lo calmavo. Ero così contenta di vederlo così appassionato, così acceso per me, dopo tanto tempo di lontananza in cui non s’era fatto vivo, indifferente com’era stato sempre. Osai finalmente domandare: [p. 13 modifica]— E a Siena? – Mi guardò come non capisse, e ciò mi irritò perchè allora vidi che fingeva. — A Siena! La nuova opera vostra! — Ah la mia opera! Ah la mia opera! Che me ne importa, Ellyn, una volta che ho il vostro amore? Che me ne importa!

— E questo lo chiamate uno scettico?

— E che altro era? Un uomo che fingeva di non ricordarsi della sua opera caduta, uno che non credeva più in sè stesso, nell’arte sua, nell’avvenire suo, e solo cercava di illudere me.... per sposarmi!

Io mi alzai.

— E come finì?

— Finì che non volli più vederlo.

— E non soffriste?

— Altro se soffrii! Vedete che ancora non l’ho dimenticato. A casa, a Norwich, talvolta risuonando certi pezzi che ho suonati con lui, ripenso e ripenso... Una sera, la scorsa primavera, tornando da New Haven, travidi alla stazione uno che gli assomigliava, che gli aveva i suoi occhi, e ne stetti turbata per due ore.

La lasciai col pretesto di raggiungere i giocatori di poker. Tutto il martirio di quel povero artista misconosciuto, forse mediocre ma appassionato, [p. 14 modifica]tutto il suo improvviso sogno di vero amore, forse di ricchezza e di quiete, tutto l’equivoco di due coscienze amorose diverse, sorte da morali diverse, da desiderii diversi, da un diverso scopo proposto alla vita, mi angustiarono la notte.

La mattina dopo da un passeggero lì a bordo seppi che Miss Ellyn era fidanzata a un elettricista da cinque anni e che attendeva, viaggiando, il momento in cui egli avesse raggiunto nei suoi affari il preciso valore di mezzo milione di dollari. E non era lontano.

A Roma, pochi giorni fa, domandavo a un pianista celebre notizie di un tal Paolo Martini, dai grandi occhi neri, dalle belle mani, dalla capellatura ondulata e già grigia....

— Non se ne sa più nulla, da due anni. Qualcuno mi ha detto che sia andato in America. Chi sa, poi, perchè!