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Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Guglielmo da Marcilla

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Guglielmo da Marcilla

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Raffaello d'Urbino Cronaca

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Vita di Guglielmo da Marcilla Pit. Franzese,
e Maestro di Finestre invetriate


N questi medesimi tempi, dotati da Dio di quella maggior felicità che possino aver l’arti nostre, fiorì Guglielmo da Marcilla franzese, il quale, per la ferma abitazione et affezione che e’ portò alla città d’Arezzo, si può dire se la eleggesse per patria, che da tutti fussi reputato e chiamato aretino. E veramente de’ benefizii che si cavano della virtù è uno, che sia pure di che strana e lontana regione o barbara et incognita nazione quale uomo si voglia, pure che egli abbia lo animo ornato di virtù e con le mani faccia alcuno esercizio ingegnoso, nello apparir nuovo in ogni città dove e’ camina, mostrando il valor suo, tanta forza ha l’opera virtuosa che di lingua in lingua in poco spazio gli fa nome e le qualità di lui diventano pregiatissime et onoratissime. E spesso avviene a infiniti, che di lontano hanno lasciato le patrie loro, nel dare d’intoppo in nazioni che siano amiche delle virtù e de’ forestieri per buono uso di costumi, trovarsi accarezzati e riconosciuti sì fattamente, ch’e’ si scordano il loro nido natìo et un altro nuovo s’eleggono per ultimo riposo; come per ultimo suo nido elesse Arezzo, Guglielmo, il quale nella sua giovanezza attese in Francia all’arte del disegno et insieme con quello diede opera alle finestre di vetro, nelle quali faceva figure di colorito non meno unite che se elle fossero d’una vaghissima et unitissima pittura a olio. Costui ne’ suoi paesi, persuaso da’ prieghi d’alcuni amici suoi, si ritrovò alla morte d’un loro inimico, per la qual cosa fu sforzato nella Religione di San Domenico in Francia pigliare l’abito di frate, per essere libero dalla corte e da la giustizia. E se bene egli dimorò nella religione, non però mai abbandonò gli studi dell’arte, anzi continuando gli condusse ad ottima perfezzione. Fu per ordine di papa Giulio II dato commissione a Bramante da Urbino di far fare in palazzo molte finestre di vetro, perché nel domandare che egli fece de’ più eccellenti, fra gli altri, che di tal mestiero lavoravano, gli fu dato notizia d’alcuni che facevano in Francia cose maravigliose, e ne vide il saggio per lo ambasciator francese che negoziava allora appresso Sua Santità, il quale aveva in un telaro, per finestra dello studio, una figura lavorata in un pezzo di vetro bianco con infinito numero di colori sopra il vetro lavorati a fuoco; onde per ordine di Bramante fu scritto in Francia che venissero a Roma, offerendogli buone provisioni. Laonde maestro Claudio Franzese, capo di questa arte, avuto tal nuova, sapendo l’eccellenza di Guglielmo, con buone promesse e danari, fece sì che non gli fu difficile trarlo fuor de’ frati, avendo egli per le discortesie usategli e per le invidie, che son di continuo fra loro, più voglia di partirsi che maestro Claudio bisogno di trarlo fuora. Vennero dunque a Roma, e lo abito di San Domenico si mutò in quello di San Piero. Aveva Bramante fatto fare allora due fenestre di trevertino nel palazzo del papa, le quali erano nella sala dinanzi alla cappella, oggi abbellita di fabbrica in volta per Antonio da San Gallo, e di stucchi mirabili per le mani di Perino del Vaga fiorentino, [p. 91 modifica]le quali fenestre da maestro Claudio e da Guglielmo furono lavorate, ancora che poi per il sacco spezzate per trarne i piombi per le palle degli archibusi, le quali erano certamente maravigliose. Oltra queste ne fecero per le camere papali infinite, delle quali il medesimo avvenne che dell’altre due. Et oggi ancora se ne vede una nella camera del fuoco di Raffaello sopra torre Borgia, nelle quali sono Angeli che tengono l’arme di Leon X. Fecero ancora in S. Maria del Popolo due fenestre nella capella di dietro alla Madonna con le storie della vita di lei, le quali di quel mestiero furono lodatissime. E queste opere non meno gli acquistarono fama e nome che comodità alla vita. Ma maestro Claudio disordinando molto nel mangiare e bere, come è costume di quella nazione, cosa pestifera all’aria di Roma, ammalò d’una febbre sì grave che in sei giorni passò a l’altra vita. Per che Guglielmo, rimanendo solo e quasi perduto senza il compagno, da sé dipinse una fenestra in Santa Maria de Anima, chiesa de’ Tedeschi in Roma, pur di vetro, la quale fu cagione che Silvio cardinale di Cortona gli fece offerte e convenne seco perché in Cortona sua patria alcune fenestre et altre opere gli facesse, onde seco in Cortona lo condusse a abitare. E la prima opera che facesse fu la facciata di casa sua, che è volta su la piazza, la quale dipinse di chiaro oscuro e dentro vi fece Crotone e gli altri primi fondatori di quella città. Laonde il cardinale, conoscendo Guglielmo non meno buona persona che ottimo maestro di quella arte, gli fece fare nella Pieve di Cortona la fenestra della cappella maggiore; nella quale fece la Natività di Cristo et i Magi che l’adorano. Aveva Guglielmo bello spirito, ingegno e grandissima pratica nel maneggiare i vetri, e massimamente nel dispensare in modo i colori che i chiari venissero nelle prime figure et i più oscuri, di mano in mano, in quelle che andavano più lontane; et in questa parte fu raro e veramente eccellente. Ebbe poi nel dipignergli ottimo giudizio, onde conduceva le figure tanto unite che elle si allontanavano a poco a poco, per modo che non si apiccavano, né con i casamenti, né con i paesi, e parevano dipinte in una tavola o più tosto di rilievo. Ebbe invenzione e varietà nella composizione delle storie e le fece ricche e molto accomodate, agevolando il modo di fare quelle pitture che vanno commesse di pezzi di vetri, il che pareva et è veramente, a chi non ha questa pratica e destrezza, difficilissimo. Disegnò costui le sue pitture per le finestre con tanto buon modo et ordine, che le commettiture de’ piombi e de’ ferri che attraversano in certi luoghi l’accomodarono di maniera nelle congiunture delle figure e nelle pieghe de’ panni, che non si conoscano, anzi davano tanta grazia che più non arebbe fatto il pennello e così seppe fare della necessità virtù. Adoprava Guglielmo solamente di due sorti colori per ombrare que’ vetri che voleva reggessino al fuoco: l’uno fu scaglia di ferro e l’altro scaglia di rame. Quella di ferro nera gl’ombrava i panni, i capelli et i casamenti, e l’altra, cioè quella di rame, che fa tané, le carnagioni. Si serviva anco assai d’una pietra dura, che viene di Fiandra e di Francia, che oggi si chiama lapis amotica, che è di colore rosso e serve molto per brunire l’oro; e pesta prima in un mortaio di bronzo e poi con un macinello di ferro sopra una piastra di rame o d’ottone e temperata a gomma, in sul vetro fa divinamente. Non aveva Guglielmo, quando [p. 92 modifica]prima arivò a Roma, se bene era pratico nell’altre cose, molto disegno, ma conosciuto il bisogno, se bene era in là con gl’anni, si diede a disegnare e studiare, e così a poco a poco le migliorò, quanto si vide poi nelle finestre che fece nel palazzo del detto cardinale in Cortona et in quell’altro di fuori et in un occhio, che è nella detta pieve sopra la facciata dinanzi a man ritta entrando in chiesa, dove è l’arme di papa Leone X, e parimente in due finestre piccole che sono nella Compagnia del Gesù; in una delle quali è un Cristo e nell’altra un Santo Onofrio, le quali opere sono assai differenti e molto migliori delle prime. Dimorando dunque, come si è detto, costui in Cortona, morì in Arezzo Fabiano di Stagio Sassoli aretino, stato bonissimo maestro di fare finestre grande. Onde avendo gl’Operai del vescovado allogato tre finestre, che sono nella cappella principale di venti braccia l’una, a Stagio figliuolo del detto Fabiano et a Domenico Pecori pittore, quando furono finite e poste ai luoghi loro, non molto sodisfecero agl’Aretini, ancora che fossero assai buone e più tosto lodevoli che no. Ora avvenne che, andando in quel tempo Messer Lodovico Bellichini, medico eccellente e de’ primi che governasse la città d’Arezzo, a medicare in Cortona la madre del detto cardinale, egli si dimesticò assai col detto Guglielmo, col quale, quando tempo gl’avanzava, ragionava molto volentieri e Guglielmo parimente, che allora si chiamava il priore, per avere di que’ giorni avuto il beneficio d’una prioria, pose affezzione al detto medico; il quale un giorno domandò Guglielmo se con buona grazia del cardinale anderebbe a fare in Arezzo alcune finestre; et avendogli promesso, con licenza e buona grazia del cardinale, là si condusse. Stagio dunque, del quale si è ragionato di sopra, avendo divisa la compagnia con Domenico, raccettò in casa sua Guglielmo; il quale per la prima opera in una finestra di Santa Lucia, cappella degl’Albergotti nel Vescovado d’Arezzo, fece essa Santa et un S. Salvestro, tanto bene che questa opera può dirsi veramente fatta di vivissime figure e non di vetri colorati e trasparenti o, almeno, pittura lodata e maravigliosa perché, oltre al magisterio delle carni, sono squagliati i vetri, cioè levata in alcun luogo la prima pelle e poi colorita d’altro colore, come sarebbe a dire posto in sul vetro rosso squagliato opera gialla et in su l’azzurro bianca e verde lavorata, la qual cosa in questo mestiero è difficile e miracolosa. Il vero, dunque, e primo colorato viene tutto da uno de’ lati, come dire il colore rosso, azzurro o verde, e l’altra parte, che è grossa quanto il taglio d’un coltello o poco più, bianca. Molti per paura di non spezzare i vetri, per non avere gran pratica nel maneggiargli, non adoperano punta di ferro per squagliarli, ma in quel cambio, per più sicurtà, vanno incavando i detti vetri con una ruota di rame in cima un ferro, e così a poco a poco tanto fanno con lo smeriglio che lasciano la pelle sola del vetro bianco, il quale viene molto netto. Quando poi sopra detto vetro rimaso bianco si vuol fare di colore giallo, allora si dà, quando si vuole metter a fuoco a punto per cuocerlo, con un pennello, d’argento calcinato che è un colore simile al bolo, ma un poco grosso e questo al fuoco si fonde sopra il vetro e fa che scorrendo si attacca, penetrando a detto vetro, e fa un bellissimo giallo, i quali modi di fare niuno adoperò meglio, né con più artificio et ingegno del priore Guglielmo; et in queste cose consiste la difficultà, perché il tignere di colori a [p. 93 modifica]olio o in altro modo è poco o niente, e che sia diaffano e trasparente non è cosa di molto momento, ma il cuocergli a fuoco e fare che regghino alle percosse dell’acqua e si conservino sempre, è ben fatica degna di lode. Onde questo eccellente maestro merita lode grandissima, per non essere chi in questa professione di disegno, d’invenzione, di colore e di bontà abbia mai fatto tanto. Fece poi l’occhio grande di detta chiesa dentrovi la veduta dello Spirito Santo e così il battesimo di Cristo, per San Giovanni, dove egli fece Cristo nel Giordano che aspetta San Giovanni, il quale ha preso una tazza d’acqua per battezarlo, mentre che un vecchio nudo si scalza e certi Angeli preparano la veste per Cristo, e sopra è il Padre, che manda lo Spirito Santo al Figliuolo. Questa finestra è sopra il battesimo in detto Duomo, nel quale ancora lavorò la finestra della resurrezione di Lazzaro quattriduano, dove è impossibile mettere in sì poco spazio tante figure, nelle quali si conosce lo spavento e lo stupire di quel popolo et il fetore del corpo di Lazaro, il quale fa piangere et insieme rallegrare le due sorelle della sua resurressione. Et in questa opera sono squagliamenti infiniti di colore sopra colore nel vetro e vivissima certo pare ogni minima cosa nel suo genere. E chi vuol vedere quanto abbia in questa arte potuto la mano del priore nella finestra di San Matteo sopra la cappella di esso Apostolo, guardi la mirabile invenzione di questa istoria e vedrà vivo Cristo chiamare Matteo dal banco, che lo seguiti, il quale aprendo le braccia per riceverlo in sé, abbandona le acquistate ricchezze e tesori. Et in questo mentre uno Apostolo, addormentato appiè di certe scale, si vede essere svegliato da un altro con prontezza grandissima, e nel medesimo modo vi si vede ancora un S. Piero favellare con San Giovanni, sì belli l’uno e l’altro che veramente paiono divini; in questa finestra medesima sono i tempi di prospettiva, le scale e le figure talmente composte, et i paesi sì proprii fatti che mai non si penserà che sien vetri, ma cosa piovuta da cielo a consolazione degli uomini. Fece in detto luogo la finestra di Santo Antonio e di San Niccolò bellissime e due altre, dentrovi nella una la storia quando Cristo caccia i vendenti del tempio e nell’altra l’adultera, opere veramente tutte tenute egregie e maravigliose. E talmente furono di lode, di carezze e di premii le fatiche e le virtù del priore dagli Aretini riconosciute et egli di tal cosa tanto contento e sodisfatto, che si risolvette eleggere quella città per patria, e di Franzese che era diventare Aretino. Appresso, considerando seco medesimo l’arte de’ vetri essere poco eterna per le rovine che nascono ognora in tali opre, gli venne desiderio di darsi alla pittura e così dagli Operai di quel Vescovo prese a fare tre grandissime volte a fresco, pensando lasciar di sé memoria. E gli Aretini in ricompensa, gli fecero dare un podere, ch’era della Fraternità di Santa Maria della Misericordia, vicino alla terra, con bonissime case a godimento della vita sua. E volsero che, finita tale opera, fosse stimato per uno egregio artefice il valor di quella e che gli Operai di ciò gli facessino buono il tutto. Perché egli si mise in animo di farsi in ciò valere et alla similitudine delle cose della cappella di Michelagnolo, fece le figure per la altezza grandissime. E poté in lui talmente la voglia di farsi eccellente in tale arte, che ancora che ei fosse di età di [p. 94 modifica]cinquanta anni, migliorò di cosa in cosa di modo che mostrò non meno conoscere et intendere il bello, che in opera dilettarsi contrafare il buono. Figurò i principi del Testamento Nuovo, come nelle tre grandi il principio del Vecchio aveva fatto. Onde per questa cagione voglio credere che ogni ingegno che abbia volontà di pervenire a la perfezzione, possa passare (volendo affaticarsi) il termine d’ogni scienza. Egli si spaurì bene nel principio di quelle per la grandezza e per non aver più fatto. Il che fu cagione ch’egli mandò a Roma per maestro Giovanni Franzese miniatore, il quale, venendo in Arezzo, fece in fresco sopra Santo Antonio uno arco con un Cristo e nella Compagnia il segno che si porta a processione, che gli furono fatti lavorare dal priore. Et egli molto diligentemente gli condusse. In questo medesimo tempo fece alla chiesa di San Francesco l’occhio della chiesa nella facciata dinanzi, opera grande, nel quale finse il papa nel consistoro e la residenza de’ cardinali, dove San Francesco porta le rose di gennaio e per la confermazione della Regola va a Roma. Nella quale opera mostrò quanto egli de’ componimenti s’intendesse, che veramente si può dire lui esser nato per quello essercizio. Quivi non pensi artefice alcuno, di bellezza, di copia di figure, né di grazia già mai paragonarlo. Sono infinite opere di finestre per quella città tutte bellissime e nella Madonna delle Lagrime l’occhio grande con l’Assunzione della Madonna et Apostoli et una d’una Annunziata bellissima. Un occhio con lo Sponsalizio et un altro dentrovi un San Girolamo per gli Spadari. Similmente giù per la chiesa tre altre finestre e nella chiesa di San Girolamo un occhio, con la Natività di Cristo, bellissimo, et ancora un altro in San Rocco. Mandonne eziandio in diversi luoghi come a Castiglion del Lago et a Fiorenza a Lodovico Capponi una per in Santa Felicita, dove è la tavola di Iacopo da Puntormo, pittore eccellentissimo, e la cappella lavorata da lui a olio in muro et in fresco et in tavola, la quale finestra venne nelle mani de’ frati Gesuati, che in Fiorenza lavorano di tal mestiere, et essi la scommessero tutta per vedere i modi di quello e molti pezzi per saggi ne levarono e di nuovo vi rimessero, e finalmente la mutarono di quel ch’ella era. Volse ancora colorire a olio e fece in San Francesco d’Arezzo alla cappella della Concezzione una tavola, nella quale sono alcune vestimenta molto ben condotte e molte teste vivissime e tanto belle che egli ne restò onorato per sempre, essendo questa la prima opera che egli avese mai fatta ad olio. Era il priore persona molto onorevole e si dilettava cultivare et acconciare, onde, avendo compero un bellissimo casamento, fece in quello infiniti bonificamenti. E come uomo religioso tenne di continuo costumi bonissimi et il rimorso della conscienza, per la partita che fece da’ frati, lo teneva molto aggravato. Per il che a San Domenico d’Arezzo, convento della sua Religione, fece una finestra alla cappella dell’altar maggiore bellissima, nella quale fece una vite ch’esce di corpo a San Domenico e fa infiniti santi frati i quali fanno lo albero della Religione et a sommo è la Nostra Donna e Cristo che sposa Santa Caterina sanese, cosa molto lodata e di gran maestria della quale non volse premio, parendoli avere molto obligo a quella Religione. Mandò a Perugia in San Lorenzo una bellissima finestra et altre infinite in molti luoghi intorno ad Arezzo. E perché era molto vago delle cose d’architettura, [p. 95 modifica]fece per quella terra a’ cittadini assai disegni di fabbriche e di ornamenti per la città, le due porte di San Rocco di pietra e lo ornamento di macigno che si mise alla tavola di maestro Luca in San Girolamo. Nella Badia a Cipriano d’Anghiari ne fece uno e nella Compagnia della Trinità alla cappella del Crocifisso un altro ornamento et un lavamani ricchissimo nella sagrestia, i quali Santi Scarpellino condusse in opera perfettamente. Laonde egli, che di lavorare sempre aveva diletto, continuando il verno e la state il lavoro del muro, il quale chi è sano fa divenire infermo, prese tanta umidità che la borsa de’ granelli si gli riempié d’acqua, talmente che, foratagli da’ medici, in pochi giorni rese l’anima a chi gliene aveva donata. E come buon cristiano prese i Sacramenti della chiesa e fece testamento. Appresso, avendo speziale divozione nei romiti camaldolesi, i quali vicino ad Arezzo venti miglia sul giogo d’Apennino fanno congregazione, lasciò loro l’avere et il corpo suo. Et a Pastorino da Siena suo garzone, ch’era stato seco molti anni, lasciò i vetri e le masserizie da lavorare et i suoi disegni che n’è nel nostro libro una storia, quando Faraone somerge nel Mar Rosso. Il Pastorino ha poi atteso a molte altre cose pur dell’arte et alle finestre di vetro, ancora che abbia fatto poi poche cose di quella professione. Lo seguitò anco molto un Maso Porro cortonese che valse più nel commetterle e nel cuocere i vetri che nel dipignerle. Furono suoi creati Battista Borro aretino, il quale delle fenestre molto lo va imitando et insegnò i primi principii a Benedetto Spadari et a Giorgio Vasari aretino. Visse il priore anni LXII e morì l’anno MDXXXVII. Merita infinite lodi il priore, da che per lui in Toscana è condotta l’arte del lavorare i vetri con quella maestria e sottigliezza che desiderare si puote. E perciò, sendoci stato di tanto beneficio, ancora saremo a lui d’onore e d’eterne lode amorevoli esaltandolo nella vita e nell’opere del continovo.