Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Iacopo della Quercia

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Iacopo della Quercia

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Proemio della seconda parte delle Vite Niccolò Aretino
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VITA DI IACOPO DALLA QUERCIA SCULTORE SANESE

Fu adunque Iacopo di maestro Piero di Filippo dalla Quercia, luogo del contado di Siena, scultore, il primo dopo Andrea Pisano, l’Orgagna e gl’altri di sopra nominati, che operando nella scultura con maggior studio e diligenza, cominciasse a mostrare che si poteva appressare alla natura, et il primo che desse animo e speranza agl’altri di poterla, in un certo modo, pareggiare. Le prime opere sue da mettere in conto, furono da lui fatte in Siena, essendo d’anni XIX, con questa occasione. Avendo i Sanesi l’essercito fuori contra i Fiorentini, sotto Gian Tedesco, nipote di Saccone da Pietramala, e Giovanni d’Azzo Ubaldini capitani, ammalò in campo Giovanni d’Azzo, onde, portato a Siena, vi si morì; per che, dispiacendo la sua morte ai Sanesi, gli feciono fare nell’essequie, che furono onoratissime, una capanna di legname a uso di piramide, e sopra quella porre di mano di Iacopo la statua di esso Giovanni a cavallo maggior del vivo, fatta con molto giudizio e con invenzione, avendo, il che non era stato fatto insino allora, trovato Iacopo, per condurre quell’opera, il modo di fare l’ossa del cavallo e della figura di pezzi di legno e di piane confitti insieme, e fasciati poi di fieno e di stoppa, e con funi legato ogni cosa strettamente insieme, e sopra messo terra mescolata con cimatura di panno lino, pasta e colla. Il qual modo di far fu veramente et è il miglior di tutti gl’altri per simili cose; perchè, se bene l’opere, che in questo modo si fanno, sono in apparenza gravi, riescono nondimeno, poi che son fatte e secche, leggere e coperte di bianco, simili al marmo e molto vaghe all’occhio, sì come fu la detta opera di Iacopo. Al che si aggiugne, che le statue fatte a questo modo e con le dette mescolanze, non si fendono, come farebbono se fussero di terra schietta solamente. Et in questa maniera si fanno oggi i modelli delle sculture con grandissimo comodo degl’artefici che, mediante quelle, hanno sempre l’essempio inanzi e le giuste misure delle sculture che fanno; di che si deve avere non piccolo obligo a Iacopo che, secondo si dice, ne fu inventore. Fece Iacopo dopo questa opera in Siena due tavole di legno di tiglio, intagliando in quelle le figure, le barbe et i capegli, con tanta pacienza, che fu a vederle una maraviglia. E dopo queste tavole, che furono messe in Duomo, fece di marmo alcuni profeti non molto grandi che sono nella facciata del detto Duomo; nell’opera del quale avrebbe continuato di lavorare, se la peste, la fame e le discordie cittadine de’ Sanesi, dopo aver più volte tumultuato, non avessero mal condotta quella città e cacciatone Orlando Malevolti, col favore del quale era Iacopo con riputazione adoperato nella patria. Partito dunque da Siena, si condusse, per mezzo d’alcuni amici, a Lucca, e quivi a Paulo Guinigi, che n’era signore, fece per la moglie che poco inanzi era morta, nella chiesa di S. Martino una sepoltura, nel basamento della quale condusse alcuni putti di marmo che reggono un festone tanto pulitamente che parevano di carne, e nella cassa posta sopra [p. 250 modifica]il detto basamento fece con infinita diligenza l’immagine della moglie d’esso Paulo Guinigi che dentro vi fu sepolta, e a’ piedi d’essa fece nel medesimo sasso un cane di tondo rilievo, per la fede da lei portata al marito. La qual cassa, partito o più tosto cacciato che fu Paulo l’anno 1429 di Lucca, e che la città rimase libera, fu levata di quel luogo, e per l’odio che alla memoria del Guinigio portavano i Lucchesi, quasi del tutto rovinata. Pure la reverenza, che portarono alla bellezza della figura e di tanti ornamenti gli ratenne, e fu cagione che poco appresso la cassa e la figura furono con diligenza all’entrata della porta della sagrestia collocate, dove al presente sono e la capella del Guinigio fatta della comunità. Iacopo intanto, avendo inteso che in Fiorenza l’Arte de’ Mercatanti di Calimara voleva dare a far di bronzo una delle porte del tempio di S. Giovanni, dove aveva la prima lavorato, come si è detto, Andrea Pisano, se n’era venuto a Fiorenza per farsi conoscere, atteso massimamente che cotale lavoro si doveva allogare a chi nel fare una di quelle storie di bronzo, avesse dato di sè e della virtù sua miglior saggio. Venuto dunque a Fiorenza, fece non pur il modello, ma diede finita del tutto e pulita una molto ben condotta storia, la quale piacque tanto, che se non avesse avuto per concorrenti gli eccellentissimi Donatello e Filippo Brunelleschi, i quali in verità nei loro saggi lo superarono, sarebbe tocco a lui a far quel lavoro di tanta importanza. Ma essendo andata la bisogna altramente, egli se n’andò a Bologna, dove, col favore di Giovanni Bentivogli, gli fu dato a fare di marmo dagl’Operai di San Petronio, la porta principale di quella chiesa, la quale egli seguitò di lavorare d’ordine tedesco, per non alterare il modo, che già era stato cominciato, riempiendo dove mancava l’ordine de’ pilastri che reggono la cornice e l’arco, di storie lavorate con infinito amore nello spazio di dodici anni che egli mise in quell’opera, dove fece di sua mano tutti i fogliami e l’ornamento di detta porta, con quella maggiore diligenza e studio che gli fu possibile. Nei pilastri che reggono l’architrave, la cornice e l’arco, sono cinque storie per pilastro e cinque nell’architrave, che in tutto son quindici. Nelle quali tutte intagliò di basso rilievo istorie del Testamento Vecchio, cioè da che Dio creò l’uomo insino al Diluvio e l’Arca di Noè, facendo grandissimo giovamento alla scultura, perchè dagl’antichi insino allora non era stato chi avesse lavorato di basso rilievo alcuna cosa, onde era quel modo di fare più tosto perduto che smarrito. Nell’arco di questa porta fece tre figure di marmo, grandi quanto il vivo e tutte tonde, cioè una Nostra Donna, col Putto in collo, molto bella, San Petronio et un altro Santo molto ben disposti e con belle attitudini, onde i Bolognesi, che non pensavano che si potesse fare opera di marmo, non che migliore, eguale a quella che Agostino et Agnolo sanesi avevano fatto di maniera vecchia in San Francesco all’altar maggiore nella loro città, restarono ingannati vedendo questa di gran lunga più bella. Dopo la quale, essendo ricerco Iacopo di ritornare a Lucca, vi andò ben volentieri, e vi fece in San Friano, per Federigo di Maestro Trenta del Veglia, in una tavola di marmo, una Vergine col Figliuolo in braccio, San Bastiano, Santa Lucia, San Ieronimo e San Gismondo con buona maniera, grazia e disegno, e da basso nella predella di mezzo rilievo, sotto ciascun Santo alcuna storia della vita di quello, il che fu cosa molto [p. 251 modifica]vaga e piacevole, avendo Iacopo con bella arte fatto sfuggire le figure in su’ piani, e nel diminuire più basse. Similmente diede molto animo agl’altri d’acquistare alle loro opere grazia e bellezza con nuovi modi, avendo in due lapide grandi, fatte di basso rilievo per due sepolture, ritratto di naturale Federigo padrone dell’opera e la moglie. Nelle quali lapide sono queste parole: "Hoc opus fecit Iacobus Magistri Petri de Senis 1422". Venendo poi Iacopo a Firenze, gl’Operai di Santa Maria del Fiore, per la buona relazione avuta di lui, gli diedero a fare di marmo il frontespizio, che è sopra la porta di quella chiesa la quale va alla Nunziata; dove egli fece in una mandorla la Madonna, la quale da un coro d’Angeli è portata, sonando eglino e cantando, in cielo con le più belle movenze e con le più belle attitudini, vedendosi che hanno moto e fierezza nel volare, che fussero insino allora state fatte mai. Similmente la Madonna è vestita con tanta grazia et onestà, che non si può immaginare meglio, essendo il girare delle pieghe molto bello e morbido, e vedendosi ne’ lembi de’ panni, che e’ vanno accompagnando l’ignudo di quella figura, che scuopre coprendo ogni svoltare di membra. Sotto la quale Madonna è un San Tommaso che riceve la cintola. Insomma questa opera fu condotta in quattro anni da Iacopo con tutta quella maggior perfezione che a lui fu possibile, perciò che oltre al disiderio che aveva naturalmente di far bene, la concorrenza di Donato, di Filippo e di Lorenzo di Bartolo, de’ quali già si vedevano alcune opere molto lodate, lo sforzarono anco da vantaggio a fare quello che fece; il che fu tanto, che anco oggi è dai moderni artefici guardata questa opera come cosa rarissima. Dall’altra banda della Madonna, dirimpetto a San Tomaso, fece Iacopo un orso che monta in sur un pero, sopra il quale capriccio, come si disse allora molte cose, così se ne potrebbe anco da noi dire alcune altre, ma le tacerò per lasciare a ognuno sopra cotale invenzione credere e pensare a suo modo. Disiderando dopo ciò Iacopo di rivedere la patria, se ne tornò a Siena, dove, arrivato che fu, se gli porse, secondo il desiderio suo, occasione di lasciare in quella di sè qualche onorata memoria. Perciò che la Signoria di Siena, risoluta di fare un ornamento ricchissimo di marmi all’acqua che in sulla piazza avevano condotta Agnolo et Agostino Sanesi l’anno 1343, allogarono quell’opera a Iacopo per prezzo di duemiladugento scudi d’oro, onde egli, fatto un modello e fatti venire i marmi, vi mise mano e la finì di fare con molta sodisfazione de’ suoi cittadini, che non più Iacopo dalla Quercia, ma Iacopo dalla Fonte fu poi sempre chiamato. Intagliò dunque nel mezzo di questa opera la gloriosa Vergine Maria, avvocata particolare di quella città, un poco maggiore dell’altre figure, e con maniera graziosa e singolare. Intorno poi fece le sette virtù teologiche, le teste delle quali, che sono delicate e piacevoli, fece con bell’aria e con certi modi che mostrano che egli cominciò a trovare il buono (nel)le difficultà dell’arte et a dare grazia al marmo, levando via quella vecchiaia che avevano insino allora usato gli scultori, facendo le loro figure intere e senza una grazia al mondo; là dove Iacopo le fece morbide e carnose, e finì il marmo con pacienza e delicatezza. Fecevi, oltre ciò, alcune storie del Testamento Vecchio, cioè la creazione de’ primi parenti et il mangiar del pomo vietato, dove nella figura della femmina si vede un’aria nel viso sì bella, et una grazia et attitudine della persona tanto reverente verso Adamo nel porgergli il pomo, che non pare che possa ricusarlo; senza il rimanente dell’opera, che è tutta piena di bellissime considerazioni et [p. 252 modifica]adornata di bellissimi fanciulletti et altri ornamenti di leoni e di lupe, insegne della città, condotti tutti da Iacopo con amore, pratica e giudizio in ispazio di dodici anni. Sono di sua mano similmente tre storie bellissime di bronzo, della vita di San Giovanbattista, di mezzo rilievo, le quali sono intorno al battesimo di San Giovanni, sotto il Duomo; et alcune figure ancora tonde e pur di bronzo, alte un braccio, che sono fra l’una e l’altra delle dette istorie, le quali sono veramente belle e degne di lode. Per queste opere, adunque, come eccellente e per la bontà della vita come costumato, meritò Iacopo essere dalla Signoria di Siena fatto cavaliere, e poco dopo Operaio del Duomo. Il quale uffizio esercitò di maniera che nè prima nè poi fu quell’opera meglio governata, avendo egli in quel Duomo, se bene non visse, poi che ebbe cotal carico avuto, se non tre anni, fatto molti acconcimi utili et onorevoli. E se bene Iacopo fu solamente scultore, disegnò nondimeno ragionevolmente, come ne dimostrano alcune carte da lui disegnate che sono nel nostro libro, le quali paiono più tosto di mano d’un miniatore che d’uno scultore. Et il ritratto suo, fatto come quello che di sopra si vede, ho avuto da maestro Domenico Beccafumi pittore sanese, il quale mi ha assai cose raccontato della virtù, bontà e gentilezza di Iacopo, il quale, stracco dalle fatiche e dal continuo lavorare, si morì finalmente di anni sessantaquattro et in Siena sua patria fu dagl’amici suoi e parenti, anzi da tutta la città pianto et onoratamente sotterrato. E nel vero non fu se non buona fortuna la sua, che tanta virtù fusse nella sua patria riconosciuta; poichè rade volte adiviene che i virtuosi uomini siano nella patria universalmente amati et onorati. Fu discepolo di Iacopo Matteo, scultore lucchese, che nella sua città fece l’anno 1444 per Domenico Galigano lucchese, nella chiesa di San Martino, il tempietto a otto facce di marmo, dove è l’imagine di Santa Croce, scultura stata miracolosamente, secondo che si dice, lavorata da Niccodemo, uno de’ settantadue discepoli del Salvatore; il quale tempio non è veramente se non molto bello e proporzionato. Fece il medesimo di scultura una figura d’un San Bastiano di marmo tutto tondo di braccia tre, molto bello, per essere stato fatto con buon disegno, con bella attitudine e lavorato pulitamente. È di sua mano ancora una tavola, dove in tre nicchie sono tre figure belle affatto, nella chiesa dove si dice essere il corpo di S. Regolo, e la tavola similmente che è in S. Michele, dove sono tre figure di marmo, e la statua parimente che è in sul canto della medesima chiesa dalla banda di fuori, cioè una Nostra Donna, che mostra che Matteo andò sforzandosi di paragonare Iacopo suo maestro. Niccolò Bolognese ancora fu discepolo di Iacopo e condusse a fine, essendo imperfetta, divinamente fra l’altre cose, l’arca di marmo piena di storie e figure che già fece Nicola Pisano a Bologna, dove è il corpo di S. Domenico e ne riportò, oltre l’utile, questo nome d’onore, che fu poi sempre chiamato maestro Niccolò dell’Arca. Finì costui quell’opera l’anno 1460, e fece poi nella facciata del palazzo dove sta oggi il Legato di Bologna, una Nostra Donna di bronzo alta quattro braccia, e la pose su l’anno 1478. Insomma fu costui valente maestro e degno discepolo di Iacopo dalla Quercia sanese.

FINE DELLA VITA DI IACOPO SCULTORE SANESE