Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Niccolò Aretino

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Niccolò Aretino

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Iacopo della Quercia Dello

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VITA DI NICCOLÒ ARETINO SCULTORE

Fu ne’ medesimi tempi e nella medesima facultà della scultura e quasi della medesima bontà nell’arte Niccolò di Piero, cittadino aretino, al quale quanto fu la natura liberale delle doti sue, cioè d’ingegno e di vivacità d’animo, tanto fu avara la fortuna de’ suoi beni. Costui dunque, per essere povero compagno e per avere alcuna ingiuria ricevuta dai suoi più prossimi nella patria, si partì, per venirsene a Firenze, d’Arezzo, dove sotto la disciplina di maestro Moccio scultore sanese, il quale, come si è detto altrove, lavorò alcune cose in Arezzo, aveva con molto frutto atteso alla scultura, come che non fusse [p. 254 modifica]detto maestro Moccio molto eccellente. E così arrivato Niccolò a Firenze, da prima lavorò per molti mesi qualunche cosa gli venne alle mani, sì perchè la povertà et il bisogno l’assassinavano e sì per la concorrenza d’alcuni giovani che con molto studio e fatica, gareggiando virtuosamente, nella scultura s’esercitavano. Finalmente, essendo dopo molte fatiche riuscito Niccolò assai buono scultore, gli furono fatte fare da gl’Operai di Santa Maria del Fiore, per lo campanile, due statue, le quali essendo in quello poste verso la canonica, mettono in mezzo quelle che fece poi Donato; e furono tenute, per non si essere veduto di tondo rilievo meglio, ragionevoli. Partito poi di Firenze per la peste dell’anno 1383, se n’andò alla patria; dove, trovando che per la detta peste gl’uomini della Fraternità di Santa Maria della Misericordia, della quale si è di sopra ragionato, avevano molti beni acquistato per molti lasci stati fatti da diverse persone della città, per la divozione che avevano a quel luogo pio et agl’uomini di quello, che senza tema di niuno pericolo, in tutte le pestilenze governano gl’infermi e sotterrano i morti, e che per ciò volevano fare la facciata di quel luogo di pietra bigia, per non avere commodità di marmi, tolse a fare quel luogo stato cominciato inanzi d’ordine tedesco, e lo condusse, aiutato da molti scarpellini da Settignano, a fine perfettamente, facendo di sua mano, nel mezzo tondo della facciata, una Madonna col Figliuolo in braccio, e certi Angeli che le tengono aperto il manto, sotto il quale pare che si riposi il popolo di quella città, per lo quale intercedono da basso in ginocchioni San Laurentino e Pergentino. In due nicchie, poi, che sono dalle bande, fece due statue di tre braccia l’una; cioè San Gregorio papa e San Donato vescovo e protettore di quella città, con buona grazia e ragionevole maniera. E per quanto si vede, aveva, quando fece queste opere, già fatto in sua giovanezza sopra la porta del Vescovado, tre figure grandi di terra cotta che oggi sono in gran parte state consumate dal ghiaccio; sì come è ancora un San Luca di macigno stato fatto dal medesimo mentre era giovanetto, e posto nella facciata del detto Vescovado. Fece similmente in Pieve, alla Capella di San Biagio, la figura di detto Santo di terra cotta, bellissima; e nella chiesa di S. Antonio, lo stesso Santo pur di rilievo, e di terra cotta, et un altro Santo a sedere sopra la porta dello spedale di detto luogo. Mentre faceva queste et alcune altre opere simili, rovinando per un terremuoto le mura del Borgo a San Sepolcro, fu mandato per Niccolò, acciò facesse, sì come fece con buon giudizio, il disegno di quella muraglia che riuscì molto meglio e più forte che la prima. E così, continuando di lavorare quando in Arezzo, quando ne’ luoghi convicini, si stava Niccolò assai quietamente et agiato nella patria, quando la guerra, capital nimica di queste arti, fu cagione che se ne partì; perchè essendo cacciati da Pietra Mala i figliuoli di Piero Saccone et il castello rovinato insino ai fondamenti, era la città d’Arezzo et il contado tutto sottosopra. Perciò, dunque, partitosi di quel paese, Niccolò se ne venne a Firenze, dove altre volte aveva lavorato; e fece per gl’Operai di S. Maria del Fiore una statua di braccia quattro di marmo, che poi fu posta alla porta principale di quel tempio, a man manca; nella quale statua, che è un Vangelista a sedere, mostrò Niccolò d’essere veramente valente scultore. E ne fu molto lodato non si essendo veduto insino allora, come si vide poi, alcuna cosa migliore tutta tonda e di rilievo. Essendo poi condotto a Roma di ordine di Papa Bonifazio IX, fortificò [p. 255 modifica]e diede miglior forma a Castel S. Agnolo, come migliore di tutti gl’architetti del suo tempo. E ritornato a Firenze, fece in sul canto d’Or San Michele, che è verso l’Arte della Lana, per i maestri di Zecca, due figurette di marmo, nel pilastro sopra la nicchia, dove è oggi il S. Matteo che fu fatto poi, le quali furono tanto ben fatte et in modo accomodate sopra la cima di quel tabernacolo, che furono allora e sono state sempre poi molto lodate. E parve che in quelle avanzasse Niccolò se stesso, non avendo mai fatto cosa migliore. Insomma elleno sono tali, che possono stare appetto ad ogni altra opera simile; onde n’acquistò tanto credito che meritò essere nel numero di coloro che furono in considerazione per fare le porte di bronzo di S. Giovanni; se bene, fatto il saggio, rimase a dietro e furono allogate, come si dirà al suo luogo, ad altri. Dopo queste cose, andatosene Niccolò a Milano, fu fatto capo nell’Opera del Duomo di quella città, e vi fece alcune cose di marmo che piacquero pur assai. Finalmente essendo dagl’Aretini richiamato alla patria, perchè facesse un tabernacolo pel Sagramento, nel tornarsene gli fu forza fermarsi in Bologna e fare, nel convento de’ frati Minori, la sepoltura di Papa Alessandro Quinto, che in quella città aveva finito il corso degl’anni suoi. E come che egli molto ricusasse quell’opera, non potette però non conscendere ai preghi di Messer Lionardo Bruni Aretino, che era stato molto favorito segretario di quel Pontefice. Fece dunque Niccolò il detto sepolcro, e vi ritrasse quel Papa di naturale. Ben è vero che per la incommodità de’ marmi et altre pietre, fu fatto il sepolcro e gl’ornamenti di stucchi e di pietre cotte, e similmente la statua del Papa sopra la cassa, la quale è posta dietro al coro della detta chiesa. La quale opera finita, si ammalò Niccolò gravamente, e poco appresso si morì d’anni 67 e fu nella medesima chiesa sotterrato l’anno 1417. Et il suo ritratto fu fatto da Galasso ferrarese suo amicissimo, il quale dipigneva a que’ tempi in Bologna a concorrenza di Iacopo e Simone pittori bolognesi e d’un Cristofano, non so se ferrarese, o come altri dicono, da Modena; i quali tutti dipinsono, in una chiesa, detta la Casa di Mezzo, fuor della porta di S. Mammolo, molte cose a fresco. Cristofano fece da una banda da che Dio fa Adamo insino alla morte di Moisè, e Simone et Iacopo trenta storie, da che nasce Cristo insino alla cena che fece con i discepoli. E Galasso poi fece la Passione, come si vede al nome di ciascuno che vi è scritto da basso. E queste pitture furono fatte l’anno 1404. Dopo le quali fu dipinto il resto della chiesa, da altri maestri, di storie di Davitte re assai pulitamente. E nel vero queste così fatte pitture non sono tenute, se non a ragione, in molta stima dai Bolognesi, sì perchè come vecchie sono ragionevoli, e sì perchè il lavoro essendosi mantenuto fresco e vivace, merita molta lode. Dicono alcuni che il detto Galasso lavorò anco a olio, essendo vecchissimo, ma io nè in Ferrara nè in altro luogo, ho trovato altri lavori di suo, che a fresco. Fu discepolo di Galasso, Cosmè, che dipinse in S. Domenico di Ferrara una capella e gli sportelli che serrano l’organo del Duomo e molte altre cose che sono migliori che non furono le pitture di Galasso suo maestro. Fu Niccolò buon disegnatore, come si può vedere nel nostro libro, dove è di sua mano uno Evangelista e tre teste di cavallo, disegnate bene affatto.

FINE DELLA VITA DI NICCOLÒ ARETINO, etc.