Lettera a Melitta (16 marzo 1909)

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Mario Rapisardi

1909 Lettere letteratura Lettera a Melitta Intestazione 4 maggio 2008 75% Lettere

16 marzo 1909

Io vengo su dalla bassa forza, cara signora:

Alto e illustre io non vanto ordine d'avi.

I miei nonni erano sarti, e forse per questo io non manco di una certa bravura nel maneggiare le forbici.

Mio padre era un semplice procuratore legale, patrocinatore, come allor si diceva, o padre genitore, come lo chiamavano i clienti del contado, dimostrando con uno sproposito il sentimento di gratitudine verso un uomo che strenuamente li difendeva contro le baronate dei ricchi: sentimento che faceva spesso le veci dell'onorario.

Mio padre aveva ingegno e cultura, superiori alla sua classe: liberale di sentimenti, era stato amico intimo dei rivoluzionari del '37: del Pittà, del Pennetti, dello Sgroi , che furono, dopo il loro generoso tentativo di mutar lo Statuto, fucilati solennemente dal Del Carretto; ma mio padre era timidissimo, amava più che altro la pace, ed ebbe sempre la prudenza di vivere, non estraneo col pensiero, ma appartato dalle turbolenze civili.

Le prime ispirazioni poetiche mi vennero dall'amor della patria e dalla religione.

Cominciai la mia carriera con un'ode a S. Agata, alla quale, io quattordicenne, sotto il paterno regime del Borbone, osavo raccomandare la libertà della patria.

La lettura dei romanzi del Guerrazzi, dell'«Assedio di Firenze» particolarmente, e della «Rigenerazione della Grecia» del Pocqueville, mi fece scaturire molte schiere di patriottici decasillabi che a mio padre facevano venire i brividi, e, non avendo egli il cuore di darli alle fiamme, li andava nascondendo negli angoli più reconditi della casa.

Le mie poetiche ascandescenze, gli urli, i pianti, che accompagnavano la lettura dei libri proibiti, la mia indomabile irrequietezza, la mancanza assoluta di adattamento alle condizioni della mia famiglia, la resistenza e la ribellione alla patria potestà, che voleva farmi avvocato ad ogni costo, facevano temere ai miei genitori che io divenissi come lo ziu Puddu.

Questo ziu Puddu, fratello di mio nonno paterno, era tessitore.

Avendo ucciso un macellaio che malmenava una povera vecchia, riuscì a fuggire a Malta; militò con Napoleone fino a Mosca, senza gloria, ma non senza valore, a giudicare dalle ferite onde aveva «cincischiato» il petto e la faccia.

Mia madre, che lo conobbe nei primi anni dal suo matrimonio, lo rammentava con raccapriccio: alto, magro, rugoso, con una sconcia cicatrice alla fronte, con una voce cavernosa che egli, parlando, addolciva alla meglio, con un terribile aggrottar di sopraciglia e uno spesso balenio di sguardi, metteva paura.

Io non crebbi molto simile a codesto tipo; ma la irruenza bellicosa dell'indole mia nel difendere gli umili oppressi, e l'odio invincibile per ogni forma di tirannia civile e domestica, li ereditai probabilmente da lui.

Certo io sentiva in me un impulse irresistibile all'azione, ma una terribile malattia mortificò di buon'ora i miei bollenti spiriti: l'emottisi, con la bella prospettiva della tubercolosi, mi tenne sei lunghi anni tra la vita e la morte.

Divenni contemplativo, e scrissi la Palingenesi: tra uno sbocco e l'altro di sangue ebbi il cuore di incominciare l'opera mia di demolizione e di liberazione.

Dall'Italia non sono mai uscito.

Ebbi più volte il desiderio di «sconfinare»; ma tra la poca salute e i pochi quattrini e le attrattive, che per me erano irresistibili, della Toscana, io non ebbi mai il coraggio di allontanarmi da Firenze, dove mi recavo tutti gli anni e dove conobbi i migliori uomini d'Italia, dai quali ebbi incoraggiamenti e prove di stima e di affetto.

Il Prati, il Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Andrea Maffei, il Regaldi, Erminia ed Arnaldo Fusinato, il Dall'Ongaro, il Mamiani e altri illustri e buoni, come ora non usa, li incontrai tutti a Firenze.

Il Prati, a cui la « Palingenesi » era sembrata troppo seria per un giovine imberbe, presentandomi ad un comm. Franceschi: «Ecco il Rapisardi — gli disse — un fanciullo vecchio». Ed io di rimando: «Ecco il Prati, un vecchio fanciullo». «Birbante!» ei bofonchiò battendomi sulla spalla, con quel ghigno che gli era caratteristico e mordendo la cicca che teneva costantemente fra i denti... Quelli erano uomini grandi davvero!

Ascensione o decadenza della poesia italiana?

Decadenza, cara signora, decadenza.... La poesia italiana sbucata in classico paludamento dalle fucine barbaresche, trascorrendo poi per qualche tempo in veste succinta, dalla taverna alla suburra, precipita ora maledettamente, a scavezzacollo, verso il manicomio.

Il verso libero? È il luogo comodo della scioperataggine pretenziosa.

Dal Kahn, che ne è l'apostolo fervente, si potrebbe chiamare verso kanino.

Il Futurismo?

Ah, non me ne parli!

Io deploro sinceramente che tanti giovani d'ingegno e non privi di coltura, si perdono dietro a tali follie.

La libidine del nuovo ha fatto perder la testa alla gioventù.

Ma è aberrazione che durerà poco, e lascerà, come la nebbia, il tempo che trova. Abolire i musei, le accademie, le scuole, fare un falò delle biblioteche?

Non cade un cencio! E perchè, poi? Per fondare una scuola nuova con l'intento generoso di celebrare il pugno, lo schiaffo, il salto mortale! Non Le pare, gentile signora, di assistere agli esercizi di un circo equestre?

Un rinnovamento della critica?

E quale, di grazia?

La critica letteraria, storica ed estetica al tempo istesso, come deve essere, fu in Italia fondata da Ugo Foscolo.

Il De Sanctis, il Trezza, lo Zumbini ne svilupparono alcune parti genialmente; il Carducci la consolidò su le basi foscoliane, non senza mescolarla di chiazze verdastre, segni non dubbi della epatite alcoolica che gli corrompeva il sangue e gli offuscava il giudizio.

Il Graf la va ora lumeggiando con profonda e varia dottrina letteraria e scientifica, con sentimento storico ed artistico ammirevole.

Razzolatori di materia fecale hegeliana, eruditonzoli fegatosi, che si atteggiano a riformatori della critica, non ne mancano, la Dio mercè; ma costoro, egregia signora, per quanto si facciano sonare intorno i pifferi e le gran casse, non riesciranno a fondare e a diffondere altro che la loro nomea di grafomani burbanzosi e di critici disonesti.

Futurismo, rinnovamento, modernismo! paroloni sono, cara signora, paroloni!

Parlano di modernismo... sì, purchè non lo si scambi col figurino di Parigi!

Nessuno più di me ha rappresentato con amore e con maggior rispetto dell'arte, e con maggior fede nel perfezionamento umano, le forme, le lotte, i problemi della moderna civiltà.

Idealista intransigente ed impaziente, io, se di molte cose e di molti uomini contemporanei mi rammarico, e ne dico male con la veemenza propria dell'indole mia, spero che ne sarò perdonato in grazia degli intenti ideali a cui ho sempre mirato con passione sincera e con entusiasmo ardente, non intiepidito nè dagli anni nè dai malanni!

Ho fede incrollabile nel trionfo della pace e della fratellanza dei popoli: essa e fondata solidamente sulla legge universale dell'utilità; e quando gli uomini si persuaderanno che l'esser buoni torna più conto che l'esser cattivi, quando i popoli capiranno che per aver la pace è necessario disfarsi di tutte quelle istituzioni, le quali, basate sul privilegio e sulla violenza, han bisogno, per vivere, della discordia e della guerra, oh! allora, solo allora, il regno della giustizia e della libertà non sarà più un sogno e una illusione!

E a tal fine io credo che possa e debba concorrere l'arte, e specialmente la letteratura. Le arti tutte, a parer mio, hanno un ufficio sociale, una santa missione da compiere a beneficio dell'umanità.

E veda, cara signora, non solo ho fede nel trionfo della giustizia e della pace, ma credo che la razza umana sia in una perpetua ascensione, da carne a spirito.

Come è mai possibile pensare che le infinite forze della natura si siano esaurite nella creazione dell'uomo?

Mi sembra invece logico che la razza umana ascenda sempre a più alte e complesse forme di vita intellettuale e morale, e come dal piteco e dall'antropoide siamo giunti all'homo sapiens, così all'uomo succederà il superuomo, una razza cioè superiore alla nostra, a cui la conoscenza di molte novità a noi sconosciute e la soluzione di molti problemi che ora ci sembrano insolubili, daranno la forza necessaria di penetrare sempre meglio negli abissi della vita e di indagare e di comprendere il come e il perchè delle cose, e le origini e il fine dell'universo.

Verrà: per quel poter che l'infinita
Mole perpetuamente urge e trasforma,
Sacra all'Idea che i novi animi informa,
Veduta dal pensier, dal cor sentita,
Una specie verrà, che dalla torma
Nostra, dagli anni e dal dolor contrita,
A più alti destini, a miglior forma
Divinamente inalzerà la Vita.
A te, stirpe sovrana, i ferrei nodi
Sciorran gli Enimmi, onde sì fiera in noi
Lasciò la Sfinge i freddi artigli infissi;
Sveleran le Cagioni ultime ai tuoi
Sguardi il semplice ordito, e in nuovi modi
Regnerai con amor cieli ed abissi.

Delle mie opere non rifiuto nessuna, perchè tutte ispirate da una brama ardente di giustizia e di libertà.

Per l'arte preferisco a tutte le altre il «Giobbe», «Le Poesie religiose» e i «Poemetti».

A un amico che mi consigliava di fare una scelta, perchè avec un gros bagage on ne va pas a la postèritè, risposi col sonetto che Le trascrivo, orgoglioso ma sincero:

Precipita la notte, infuria il mare,
Lontano è il lido, e frale, ahimè, la barca,
Di merci no, ma di chimere carca,
Molte odiose altrui, tutte a me care.
Orsù, gridan le ciurme, il legno scarca:
Scegli fra tante forme or le più chiare
Con sottile giudicio e con man parca:
Gitta l'altre animoso all'onde avare.
Tacito sulla prua l'onda mugghiante
Diritto io solco, e forse a nuova aurora
Afferrerò dell'alta Isola il porto;
E forse tu, se già dal ciel m'hai scorto,
Sorriderai benignamente allora,
Navigator dell'infinito, o Dante.