Lettere (Sarpi)/Vol. I/92

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XCII. — Al signor De l’Isle Groslot

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XCII. — Al signor De l’Isle Groslot
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XCII. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Da quella di V.S. delli 18 agosto, veggo che le cose di Cleves vanno a via d’esser ridotte [p. 302 modifica]nell’arbitrio del re,2 dove pare che tutti li negozi del mondo si riferiscano. Dio gli doni grazia di ricomporre li moti di Germania, come ha composti quelli d’Italia.

Già il negozio dell’Abbazia è finito; e se qualche reliquia delle cose passate rimane, tutto terminerà in bene per opera di Sua Maestà, e delli suoi ministri, che ha uno a Roma e l’altro in questa città.

Io resto con ammirazione come li Spagnuoli tacciano: essi procedono con somma modestia e stanno a vedere. Udii una volta narrare l’astuzia del lupo, che se è per assaltare un mulo, nel principio sta un poco lontano, e lo lascia tirare sinchè si stanchi. D’una tal cosa dubito; e se gli uomini procedono con le solite maniere, credo averne buona ragione. Sin tanto che Dio non voglia mutar le cose, conviene in questo caso dire di non saper più oltre.

Quanto al successore di Champigny, intendo dall’altra parte ch’egli continuerà ancora per cinque anni; e certo, nessun potrebbe fare il servizio del re meglio che lui. La via di Bergamo per aver i libri non è troppo buona. Per quella mi sono state inviate le raccolte di monsieur Gillot e di monsieur Bocchello, e per ancora non le ho ricevute. Quella di mare ancora non è troppo buona, attesi li rispetti di sanità, per i quali le robe vanno al lazzeretto, e passano per diverse mani e occhi. Credo che per questo sia per ora necessario soprassedere, aspettando miglior comodità e occasione.

Io veggo un periodo e rivolta di ruota molto favorevole alli Gesuiti. Non vi basta d’averli padroni in Francia, che li volete in Italia. Dio vi dia [p. 303 modifica]lume di conoscere quanto male fate agli altri, e peggio a voi stessi, e non molto bene ad essi Padri; poichè, se già furono abborriti come troppo Spagnuoli, comincieranno ad esserlo come troppo Francesi.

Son trascorso nello scrivere: supplico V.S. di perdonarmi; che se la partita del corriere non instasse, io vorrei prolungar la presente per trattar con più pertinenza.

Non so se avrà inteso il grande incendio di Costantinopoli; dove uno schiavo, per vendicarsi contro il suo padrone, ha posto fuoco in casa, il quale da quella passato in altre, e così aumentato, vi ha abbruciato tre miglia di terreno, tutto abitato; e il danno, senza iperbole, è di tre milioni di valuta.3

Dell’ambasciatore persiano andato a Roma per ricever la benedizione del papa a nome del suo re, e baciarli li piedi, credo che V.S. avrà già avuto nuova. Egli non ha altro negozio, se non sollecitare la guerra contro il Turco; ma la stagione non lo dà. Il mondo è vòlto alla pace; la quale prego Dio che doni anco alle coscienze nostre, e cumuli V.S. delli suoi santi doni. Alla quale bacio la mano.

Di Venezia, il 15 settembre 1609.




Note

  1. Edita in Ginevra ec., pag. 192.
  2. Vale a dire, del re Enrico di Francia.
  3. Gl’incendi, come dimostrazioni di ribellione, o piuttosto le ribellioni sotto forma d’incendio, erano cominciate in Costantinopoli sino dal 1589, quando con ciò cagionavasi un danno calcolato a quindici milioni di scudi d’oro; e (maggior male di tutti) la prepotenza soldatesca, per l’ottenutane impunità, diventò irrefrenabile. D’allora in poi non furono se non troppo frequenti, nella città dei Sultani, le calamità di tal fatta.