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Lezioni e racconti per i bambini/Chiacchiere/La carta

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Chiacchiere
La carta

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Chiacchiere Chiacchiere - La spugna


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La carta.


Giorni sono, sul finir della scuola, mi avvidi che l’Ernestina aveva gli occhi rossi: gli occhi rossi, in una bambina, sono sempre indizi di pianto recente. Che cosa aveva avuto l’Ernestina? Chi aveva potuto farla piangere? Era d’un carattere così quieto, d’un fare così dolce, che nessuna delle sue compagne si sarebbe sentita il coraggio di molestarla. Dunque? Dunque... ve lo devo dire? la povera bambina era gelosa, era gelosa delle carezze che io faceva alla sua piccola amica Argene: e un giorno la udii lagnarsi in questi termini: «— Pare impossibile che la signora maestra, che è sempre così buona e imparziale, faccia tante carezze all’Argene; non dico che quella bambina sia cattiva: tutt’altro; ha anzi buon cuore, ingegno aperto, umore sempre allegro: ma non le si può stare accanto, tanto è vivace, turbolenta e chiacchierina. Chiacchierina poi!... Non [p. 148 modifica]è contenta fino a che non ha saputo il perchè di tutte le cose, e perfino quando legge s’interromperà cento volte per fare ora una domanda, ora un’altra. Ma a me, invece, che sto sempre zitta, che non mi muovo, che non alzo i miei occhi dal libro o dal lavoro, la signora maestra non pensa mai: e tutti i complimenti e le lodi sono per l’Argene!»

Ah povera Ernestina! Nessuno, più di me, sa apprezzare le tue buone qualità, la tua dolce indole, i tuoi modi gentili: ma tu non mostri alcun desiderio di sapere: ma tu resti insensibile alle bellezze della natura, ma tu, quando leggi, studi, o lavori, non chiedi mai la spiegazione di ciò che non intendi. Preferisci accumolare errore sopra errore, negligenza sopra negligenza, e taci, taci sempre. Invece l’Argene è tutt’altra cosa. Buona anch’essa come te, ha però il desiderio d’imparare, di trar profitto dai suoi studi: Non la trattiene la falsa vergogna di sembrare ignorante: essa sa che a scuola non ci vanno i dottori, e si lascia guidare dalla sua insaziabile curiosità. Dunque, mia cara Ernestina, invece di esser gelosa dell’Argene, procura d’imitarla. Domanda, domanda sempre spiegazione di quel che non sai o di quel che non intendi: Noi maestre vogliamo trattenerci con delle bambine, con de’ ragazzi vivaci e svelti, non con dei pezzi di legno. Siamo intesi? Lo spero. [p. 149 modifica]Intanto vi farò sapere che l’Argene, colle sue domande insistenti, mi ha dato occasione di far quattro chiacchiere sopra argomenti, i quali non potranno far a meno di stuzzicare anche la vostra curiosità. Mi rifarò dal più importante. Noi tutti, grandi e piccini, dotti e ignoranti, ricchi e poveri, adopriamo la carta. Il poeta ci scrive i suoi canti, lo scolaro le sue lezioni, il filosofo le sue dimostrazioni, l’ignorante i suoi spropositi, il ricco le sue rendite, il povero i suoi dolori: Voi tutti sapete che questa carta preziosa si fa con stracci di lino o di cotone: ma lo sapete, non già per averci pensato o riflettuto; bensì per averlo sentito dire a qualcuno o per averlo ripetuto cento volte a pappagallo. Il ripetere ciò che si sente dire non è imparare. Bisogna che l’apprendimento di certe verità ci costi un po’ d’attenzione e spesso un po’ di fatica. Non date retta a chi vi dice che i fanciulli possono studiare giocando: si educano così i pappagalli e le scimmie, non i bambini. Ma torniamo alla carta. Credete voi che la carta ci sia stata sempre? No, cari. La carta, come tante altre utili cose di cui oggi non sapremmo fare a meno, è una invenzione quasi moderna.

Gli antichi popoli d’Egitto si servivano, per imprimere la loro scrittura, delle fibre d’una pianta acquatica detta papyrus, papiro, da cui, forse, [p. 150 modifica]saranno derivate le voci francesi e inglesi papier e paper, che vogliono dir carta. Gli Egiziani trasmisero ai Romani le preparazioni che permettevano di trasformar le fibre vegetali del papiro in superfici pulite, bianche, pieghevoli. A quei tempi risale l’uso della pergamena, specie di carta fatta con pelli di capra e di montone e detta così per essere stata inventata a Pergamo, città antichissima, di cui non restano neppure le rovine.

Memorie non indegne di fede ci assicurano che verso l’anno 95 di G. C. si cominciava nella Cina a fabbricar carta con stracci di seta: ed ecco che la scoperta della carta di stracci sarebbe passata dalla China in Europa. Comunque vada la cosa, è certo che la cartiera più antica d’Europa fosse eretta da un certo Pace da Fabriano nella Marca d’Ancona. Dopo l’invenzione della stampa, le cartiere si moltiplicarono rapidamente.

Ma ora che conosciamo qualche particolare circa l’invenzione della carta, vediamo un po’ come si fa a fabbricarla.

I cenci arrivano alla cartiera sudici e mescolati insieme. Dunque, prima di tutto, bisogna fare una scelta: buttar via gli stracci di seta e di lana, che non sono buoni per la fabbricazione della carta, e metter da parte quelli di canapa, di lino, e di cotone. Ma anche questi bisogna classificarli in vecchi [p. 151 modifica]o nuovi, in bianchi o colorati: e ad ogni diversa specie di cenci, corrisponderà, a lavoro finito, una diversa specie di carta. Nel mentre si attende a questa classificazione di cenci, bisogna scucirli, tagliar loro gli orli, le costure e staccare i bottoni. Questi lavori che richiedono molta pazienza e poca fatica, vengono generalmente affidati alle donne. Compiuta la separazione, i cenci son fatti bollire in un bucato di soda, che fa scomparire certi colori, scioglie le sostanze grasse appiccicate ai cenci e li purga: dopo si risciacquano nell’acqua pura.

Purificati in tal modo i cenci, bisogna disfarne i tessuti, disunire le fibre vegetali e mescolarle in modo da ricavarne una specie di pasta. A tal fine si ammontano i cenci in una gran vasca detta marcitoio, nella quale sono mantenuti sempre fradici, affinchè si decompongano.

Questa decomposizione si compie in un intervallo dai dieci ai venti giorni, secondo la temperatura del luogo, lo stato degli stracci ed il genere di carta più o meno bella che si vuole ottenere: in quel tempo il mucchio di cenci si è trasformato in poltiglia fetida: ora bisogna ridurla in una pasta atta a fornire la carta. A tal uopo, si tolgono i cenci dal marcitoio e si collocano in pile di pietra piene d’acqua, che si dicono pile a cenci. Ciascuna [p. 152 modifica]di queste pile è guarnita di tre o più mazze ferrate poste di fronte e messe in moto da un cilindro orizzontale, munito di altrettante sporgenze, che, girando continuamente, solleva e lascia poi ricadere alternativamente quelle mazze ferrate. Questa successione di cadute squassa fortemente i cenci, li riduce in pasta vie più assottigliata e li imbianca.

Abbiamo trasformato i cenci in pasta, ci resta da fare il meglio: trasformare la pasta in carta1. Questa meravigliosa trasformazione fu narrata egregiamente da un nostro grande poeta, Giuseppe Giusti, quando andò a vedere le cartiere del Cini a San Marcello, nella montagna pistoiese. Uditelo:

«...Noi arrivammo stracchi e affamati, e a farla apposta in quel momento la macchina non andava; ma il ministro della cartiera, che è un buon modenese, ci usò la cortesia di farla allestire, sebbene noi, aggiunta alla stanchezza e all’appetito anche la noia dell’aspettare, volessimo andar via a tutti i patti. Ed ecco, puliti i cilindri e ammannito il tutto, la macchina comincia a muoversi: vedere quello spettacolo e cessare la stanchezza fu tutt’una. Immagina due grandi stanze unite da più archi a rottura, l’una di solaio più alta che l’altra: [p. 153 modifica]nella superiore, vedi cinque grandi pile di pietra, nelle quali i cilindri triturano continuamente il cencio, e non ce ne vogliono di meno, perchè la macchina va con tanta rapidità, che una pila o due non basterebbero ad alimentarla. Triturato che è il cencio, e ridotto a una pasta liquida come un latte denso, passa per un canale nello stanzone più basso, ed è raccolto in due grandi tini, nei quali gira continuamente col moto generale dell’edifizio un ferro chiamato agitatore, acciò la pasta lasciata ferma non faccia presa. Sbocca da tino e si spande sopra una gran lastra di ferro, larga appunto quanto deve essere il telo della carta, e da quella lastra passa sulla tela d’ottone, che si ripiega continuamente in sè stessa, ed ha un moto ondulatorio. Dalla tela d’ottone è raccolta da un cilindro foderato di feltro, e quindi da altri due cilindri parimente foderati di feltro, che la strizzano e ne fanno scolare ogni umidità, e da questi passa per altri quattro o sei, sotto i quali vi è il vapore per asciugarla; scaturisce da questi, e passa bell’e asciutta e croccante, sopra due grandi cilindri a guisa d’aspo che la dipanano, e di là in una gran tavola a guisa di vassoio, sulla quale via via si taglia e si trasporta nei magazzini. Tutta questa operazione è l’affare di un minuto e mezzo o di due. Quella che stamane alle [p. 154 modifica]sette era un cencio, oggi alle quattro è una lettera bell’e impostata.»

Che ne dite, o figliuoli? Vi pare che la curiosità dell’Argene fosse giustificata? E vi pare, ditemi, un bell’atto di gratitudine verso i grandi lavoratori delle cartiere, quello di sciupar la carta continuamente, come fate voi?

Si alzi l’Ernestina e mi ripeta quanto ho raccontato fin qui.

Note

  1. Besso. Le grandi invenzioni.