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Malombra/Parte prima/VI

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Una partita a scacchi

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CAPITOLO VI.


Una partita a scacchi.


— Sì, il Cristianesimo, lo capisco bene — disse il conte, pigliando in mano un alfiere e guardandolo attentamente. — Non so chi sia la bestia che vuol tenerci così al buio.

Le imposte erano socchiuse e le tendine calate. Silla si alzò per fare un po’ di luce.

— No. Vi prego; vengano loro, questa gente! Volete aver la compiacenza di suonare? Lì, presso alla porta, quel bottone, due volte. Il Cristianesimo! Oh, io non Vi propongo di scrivere contro il Cristianesimo. Voi mi dite che finalmente il principio d’eguaglianza è stato portato nel mondo dal Cristianesimo. Cosa volete dire con questo? Che prima del Cristianesimo non vi fossero democrazie? Io intendo che il nostro libro consideri il principio di eguaglianza dov’è più mostruoso, ossia nel campo politico: e fra gli altri pregiudizi da fare in polvere vi sarà anche il pregiudizio che l’autore di questa brutale eguaglianza politica sia stato Cristo. Del resto, sentite; uguali davanti a Dio sarà benissimo, quello è un punto di vista molto lontano; ma uguali tra di noi! Ci vuole una grande durezza, una grande miopia fisica e intellettuale per sostenere che siamo uguali tra di noi. Se vi è qualche cosa che colpisce gli uomini è la loro disuguaglianza naturale nel corpo e nell’anima. Il mio [p. 107 modifica]cuore è molto più simile ad Annibale e a Scipione Africano di un gorilla, ma non è loro eguale; e tutti i retori dell’89 e gli ambiziosi leccapopolo di poi non lo faranno diventare tale. Scacco al re.

— Non si può. Ma, scusi, ci son pure negli uomini i grandi caratteri fondamentali comuni che tutti conoscono e tante altre uniformità più nascoste. Io credo che gli uomini si rassomiglino moralmente assai più di quel che pare. E queste uniformità non devono essere riconosciute dalle leggi, non giustificano il principio di eguaglianza e le sue applicazioni ragionevoli? C’erano democrazie anche prima del Cristianesimo, sì; tutti i principii del Cristianesimo c’erano, si può dire, anche prima; ma esso ha loro fornito, volere o non volere, una base, uno stimolo e un ideale. Guardi l’immensa importanza attribuita a qualunque anima; guardi il precetto dell’amore tra gli uomini; nulla uguaglia più potentemente dell’amore!

— Scusatemi, vi è ancor molto fumo di gioventù in questo che dite. Lasciamo stare che la democrazia moderna è fatta di cupidigia e di superbia, non di amore: io vi dico che l’amore tende a mantenere la ineguaglianza! io vi dico che più un servo ama il suo padrone, più un soldato ama il suo generale, più una donna ama un uomo, più un debole ama un forte, più un piccolo ama un grande, più queste disuguaglianze sono rispettate. È la cupidigia, è la superbia che tende a distruggerle.

— Ma Lei suppone l’amore da una parte sola — esclamò Silla — dalla parte dell’inferiore. Lo supponga un po’ anche dall’altra.

— Sicuramente lo suppongo. Volete voi dirmi che Dio per amore si è fatto uomo? Io non entro in questo campo. Io dico che chi ama, se è intelligente, non si spoglia, non può nè deve spogliarsi della funzione sociale che gli spetta. Io dico che la vostra religione, se aiuta [p. 108 modifica]a far rispettare le disuguaglianze create dalla legge umana, molto più deve far rispettare le altre che portano la impronta di una volontà superiore. Ha ben altro a fare il vostro amor del prossimo che impastare repubbliche democratiche, predicar l’eguaglianza fra i pedoni e gli altri pezzi, perchè son tutti di legno e abitano un solo scacchiere! Mio caro, è mezz’ora che vi ho detto: scacco al re.

— Non si può: c’è il cavaliere.

Il conte chinò sullo scacchiere il suo testone selvoso.

— Già! — diss’egli. — Non ci si vede. Ma guardate un po’ s’è venuto nessuno! No, non voglio che apriate voi.

Si alzò e suonò egli stesso.

— Mi perdoni, — disse Silla — è necessario che io Le faccia una domanda.

— Fate.

— Secondo Lei, è anche la nascita... fra le disuguaglianze da rispettare?

— Per Dio! Lo credo bene. Vi regalo delle centinaie di gentiluomicciattoli d’adesso per un quattrino al paio, ma non capite che la disuguaglianza degl’individui crea la disuguaglianza delle famiglie e che le grandi famiglie sorte per un potente impulso e tenute alte lungo i secoli, hanno una funzione organica nella società umana, sono in certo modo esseri superiori che vivono quattro, cinque, seicento anni e dispongono perciò di una forza assai più grande della comune, possono conservare lungamente molte buone abitudini, contrapporre l’interesse della patria a quello di una generazione passeggiera, acquistare in pro dello Stato una esperienza straordinariamente lunga, servire di guida e di esempio al popolo?

— Ha suonato? — disse il cameriere entrando.

— Chi diavolo vi ha detto — esclamò il conte — di tener le finestre chiuse a questo modo?

— Non sono io che ho chiuso; deve essere stata la signora Fanny.

Il conte calò un pugno sul tavolo.

[p. 109 modifica]— Dov’è questa signora Fanny?

— Credo che sia giù lì nel cortile.

— A far che, nel cortile?

Il cameriere esitò un momento.

— Non lo so — diss’egli.

Il conte si alzò, andò ad aprire bruscamente la finestra, guardò giù, brontolò un’esclamazione piemontese e disse al cameriere:

— Vengano su tutt’e due.

Il cameriere s’inchinò.

— Ah, non lo sapevate! — esclamò il conte.

Quegli, mogio mogio, uscì.

— Pare impossibile! — disse il conte. — Quell’asino di dottore che fa la ruota intorno alla cameriera di mia nipote. In giardino come due colombi!

Un minuto dopo entrò il pittòr tutto rosso, ed esclamando — Che combinazione! che combinazione! — disse di essere giusta venuto per fare una partitina...

— Con Fanny — interruppe il conte.

Il dottore rise molto e disse che il conte aveva voglia di ridere. Non pareva, però, a guardarlo; e il dottore, ridendo di meno, lo guardava sempre.

Disse poi che la signora Fanny non aveva volsuto venire perchè era stata chiamata dalla sua padrona.

— Cedo il mio posto al dottore — disse Silla, alzandosi. Il dottore protestò che non voleva assolutamente, che gli bastava di stare a vedere e che già il conte a giuocar con lui non si divertiva. Ma Silla insistette; temeva una scena e non gli garbava di assistervi.

— Tornerò — diss’egli — ripiglierò la partita più tardi.

Uscito lui, Fanny, tutta imbronciata, porse il viso per la porta e disse:

— Cosa comanda?

— Che veniate avanti.

Fanny aperse l’uscio un po’ di più, ma non si mosse.

[p. 110 modifica]— Che veniate avanti! — gridò il conte.

Ella fece un passo.

— E che non v’immischiate di aprire nè di chiudere imposte nelle mie camere! E che non perdiate tanto tempo in giardino dove non c’è niente per voi!

Il povero dottore, sulle spine, aveva insinuata la punta del naso fra il Re e la Regina, e fissava fieramente il pedone avanzato del Re nemico.

— È la marchesina... — cominciò Fanny provocante, facendo girar la maniglia dell’uscio.

— Dite alla marchesina di venir qua — interruppe il conte.

Fanny se ne andò battendo l’uscio e brontolando.

— Sciocca! — disse il conte, ritirando la sua Regina dalla seconda casa dell’alfiere del Re avversario, dove l’aveva portata senza avvedersi che un cavaliere la minacciava.

Fece un’altra mossa e soggiunse:

— Non le pare, dottore?

— È magari un po’ leggerina, sì, già — rispose vigliaccamente il pittòr, spingendo due passi il pedone della Regina e offendendo il pedone del Re avversario.

— Tenga bene a mente, caro dottore — disse il conte — non si perda colle pedine, specialmente quando giuoca in casa mia; non le tornerebbe conto davvero.

Il dottore fece fare al suo cavaliere un salto fantastico.

— Cosa fa? — disse il conte.

Quegli si battè la fronte, ritirò il pezzo e disse ch’era ottuso per il gran caldo, ch’era partito di casa alle undici e aveva fatto quattro o cinque visite sotto il sole bruciante.

— Oh! — esclamò il conte trasalendo e guardando l’orologio. — E io che dimenticavo! Debbo andar a incontrare alcuni amici.

Al dottore non parve vero di poter troncare quella partita penosa.

[p. 111 modifica]— Tralasciamo, tralasciamo — diss’egli — verrò bene un’altra volta.

Ed ecco da capo Fanny.

— La signora marchesina desidera sapere — disse ella — cosa il signor conte vuole da lei.

— Ditele che la prego di voler finire, in vece mia, una partita a scacchi con il signor dottore.

— Ah Signore — esclamò questi — che non si disturbi mica per me!

— Andate — disse il conte.

Gli occhi del dottore, poi che rimase solo, brillarono.

— Ah che non mi perda con le pedine? — disse egli tra sè, fregandosi le mani. — Per la tua bella faccia! Togli su.

Aveva poc’anzi ottenuto da Fanny un appuntamento per quella notte alla cappelletta, un luogo solitario, a riva del lago, poco discosto dal Palazzo. Fanny avea promesso che vi sarebbe venuta con la lancia dopo mezzanotte. Era irrequieto, girava pel salotto, cercava uno specchio per vedersi felice e farsi delle congratulazioni. Non c’erano specchi là, non c’erano che i vetri aperti della finestra, dove gli riuscì d’intravvedere una languida immagine del suo viso beato. Guardò giù nel cortile dove era stato visto dal conte a colloquio con Fanny, e mormorò:

— Maledetta finestra!

Il conte attraversava il cortile e saliva imperterrito la scalinata arsa dal sole, fra le grandi ombre ferme dei cipressi, lo stormire, il luccicar delle vigne corse dal vento meridiano. Il dottore gli diede un’occhiata e, sicuro del fatto suo, se la svignò in cerca di Fanny.

Intanto il pedone della Regina bianca e il pedone del Re nero, stretti corpo a corpo per obliquo e immobili, si domandavano se vi fosse pace o armistizio o Consiglio di guerra. Ma nè loro nè altri in tutto il campo [p. 112 modifica]ne sapeva nulla. Si diceva bensì, tra i neri come tra i bianchi, che la campagna era male condotta, senza energia, e che l’azione militare era subordinata a una azione diplomatica molto varia, molto estesa, a cui prendevano parte successivamente, per diversi scopi, parecchie potenze. Infatti la era una partita come quelle che i venti giuocavano qualche volta sul piccolo lago, sfiorandolo appena, facendovi correr su le veloci, da opposte parti, piccole macchie brune, mentre la guerra grossa urlava in alto, sopra le cime delle montagne fra i nuvoloni pieni di mistero e di inimicizie.

— Son qua — disse Silla entrando, e si fermò sui due piedi. Come mai non c’era nessuno? Si accostò allo scacchiere. La partita non era terminata: tutt’altro; dopo che l’aveva lasciata lui non s’erano fatte che due mosse. Si guardò attorno e, visti sopra una sedia il cappello e la mazza del dottore, suppose che almeno costui sarebbe tornato presto e si mise alla finestra.

Pensò alle parole del conte sulla uguaglianza politica, sui privilegi della nascita. Era una fosca nube che sorgeva davanti a lui. Veramente, non aveva studi speciali in questi argomenti, ma dall’Università in poi era stato nutrito d’idee opposte a quelle del conte, avea respirato la vibrata aria democratica della società moderna e ora non credeva quasi possibile che un repubblicano come il conte avesse simili convinzioni. Adesso intendeva certe frasi, discorsi precedenti del conte di cui, a prima giunta, non aveva potuto afferrare il senso e rimproverava se stesso di aver troppo leggermente accondisceso a farsi suo collaboratore.

Quando il conte gli aveva manifestato il tema del lavoro che aveva in animo di affidargli e a cui proponeva questo titolo: Principii di politica positiva, Silla avea bene espresso le sue riserve sulla questione che vi si dibattesse fra la repubblica e la monarchia, ma non aveva pensato a quest’altro dissidio. Il conte aveva [p. 113 modifica]subito accettate queste riserve, dichiarando che mai, in nessun caso, gli avrebbe proposto di sacrificare le proprie opinioni; che forse, trattando l’argomento in generale e con principii positivi, avrebbero potuto accordarsi molto più facilmente di quanto paresse probabile; che ad ogni modo avrebbero discusso tutto. E s’eran posti immediatamente all’opera incominciando con una esposizione rapida delle vicissitudini della scienza dai Greci in poi. Ma ora Silla sentiva aprirsi un dissenso molto più profondo. Che fare? Accettare una discussione nella quale potrebbe rimaner vinto per mancanza di studi? Era un pericolo grave. D’altra parte, quale fierezza e quale audacia nelle idee del conte, quale disprezzo delle opinioni volgari e della corrente umana! Sarebbe stata un’umiliazione inesprimibile ritirarsi senza lotta, riconfondersi con la moltitudine, lasciando solo quest’uomo nell’attitudine così nobile di uno contro tutti. No, bisogna stare a fronte con lui, e non a fianco delle passioni, dei pregiudizi democratici; sostenere la nobiltà e la grandezza del principio di eguaglianza, con l’aiuto di quello stesso spiritualismo religioso che deve poi regolarne l’applicazione, secondo un ideale elevatissimo di fraternità; ammettere di buon grado gli errori, le ingiustizie, la cecità, le insopportabili pretese del sentimento democratico moderno; ma poi combattere; combattere sopratutto l’orgoglio aristocratico, i privilegi della nascita. In quest’ultimo pensiero il sangue di Silla si veniva riscaldando, il cuore gli batteva sempre più rapido, buttava fuoco dal petto e fiere parole di passione che non erano dirette al conte.

No, Silla, poco a poco, involontariamente, s’immaginava di fronte a donna Marina, la vedeva passare con la sua indifferenza altera, tanto più pungente quanto più la persona era delicata e graziosa, con il suo freddo sguardo che scintillava solo talvolta incontrando quello del conte. A lei Silla dirigeva mentalmente la sua [p. 114 modifica]eloquenza. Non ne aveva ottenute tre parole in venti giorni; anche senza parlare ella gli aveva ben fatto intendere che non lo stimava degno nè di cortesia nè di attenzione. Almeno Silla credeva così, e fino dai primi giorni si era regolato con lei secondo questa idea, opponendo alterezza ad alterezza, non senza soffrirne però, non senza una specie di voluttà amara che in presenza di lei gli stringeva forte il cuore. E ora gli pareva di attraversarle il cammino, di fermarla, volesse o no, di chiederle cosa credesse mai...

— Dunque, dottore? — disse una voce dietro a lui.

Silla si voltò in fretta. Era ben lei, donna Marina, seduta davanti allo scacchiere.

— Io prendo il nero — diss’ella, guardando attentamente i pezzi.

Ell’era dunque venuta leggiera come una fata, o Silla si era ben lasciato affondare nei suoi pensieri!

Egli non si mosse.

— Dottore! — disse Marina con accento di sorpresa. Alzò la testa e vide Silla.

Aggrottò un istante le sopracciglia, tornò a guardare attentamente lo scacchiere, e disse con la sua voce gelida:

— Dov’è il dottore?

— Non lo so, signorina.

— Avvicini un poco le imposte — soggiunse Marina quasi sottovoce, senza guardarlo.

Silla finse di non aver inteso, si staccò dalla finestra e passò dietro a lei, per uscire. Ella non alzò il capo, ma quando Silla fu presso all’uscio, gli disse, sempre sullo stesso tono:

— La prego, avvicini un poco le imposte.

Silla tornò indietro silenziosamente, senz’affrettarsi, avvicinò le imposte e si avviò da capo alla porta.

— Sa giuocare? — disse donna Marina.

Silla si fermò, sorpreso.

Ell’aveva alzata la testa, finalmente; ma adesso faceva [p. 115 modifica]scuro nella camera e non si poteva vedere l’espressione del suo sguardo. La voce suonava tuttavia di fredda indolenza. Silla s’inchinò.

Donna Marina aspettava forse che si offrisse per finire la partita con lei; ma questa offerta non veniva. Accennò allora la sedia vuota in faccia a lei con un gesto della mano destra, senza muovere affatto la testa. Evidentemente quella mano non aveva detto « prego » ma « permetto ».

Silla si sentì vile. Era forse la sottile fragranza entrata nella camera, la stessa fragranza sentita il giorno del suo arrivo nella galleria dei paesaggi, che ora gli ammorbidiva l’orgoglio, gli diceva, a nome di Marina, tante cose blande. Voleva rifiutare e non poteva.

— Ha paura? — disse donna Marina.

Silla prese la sedia vuota.

— Di vincere, signorina — rispose.

Ella alzò gli occhi in viso. Adesso Silla poteva quasi sentire il tepore di quel viso; adesso vedeva bene i grandi occhi freddi che lo interrogavano insieme con le labbra.

— Perchè di vincere?

— Perchè non so farmi inferiore se non lo sono.

Ella alzò impercettibilmente le sopracciglia come altri avrebbe alzato le spalle, guardò lo scacchiere tenendo l’indice arcuato sul mento, e disse:

— Movo io.

Porse la mano, la tenne un momento sospesa sui pezzi.

La lama di luce che entrava fra le imposte socchiuse le batteva sui capelli capricciosi, sulla guancia pallida, sull’orecchio delicatissimo, sulla piccola mano bianca sospesa in aria, lumeggiata, nell’ombra, di trasparenze rosee, mostrava una bella figura tranquilla, intenta al giuoco. Silla non era così tranquillo, pensava involontariamente, guardandola, che l’avrebbe baciata e morsa. Donna Marina prese il pedone della regina bianca e lo gettò nel bossolo.

[p. 116 modifica]— Crede proprio di non essere inferiore? — disse ella.

— Non so come Lei giuochi — rispose Silla movendo un alfiere.

Ella mise un breve riso metallico guardando l’alfiere nemico, e disse:

— Vede, io so invece come giuoca Lei. Lei giuoca prudente. Ha paura di perdere, non di vincere.

A questo punto il dottore spinse l’uscio, e vista la partita impegnata, si fermò. Marina parve non vederlo. Quegli richiuse l’uscio pian piano.

— Cosa fa adesso? — proseguì Marina con accento più vibrante. — Perchè non esce fuori con la Regina? Perchè non attacca sinceramente?

— Io non attacco. Mi basta difendermi, e Le assicuro, marchesina, che lo posso fare abbastanza bene. Perchè vorrebbe Lei che attaccassi?

— Perchè allora la finirei più presto.

— Secondo.

— Si provi — disse Marina.

Silla chinò la testa, con intensa attenzione, sullo scacchiere.

Donna Marina fece un atto d’impazienza e si alzò in piedi.

— È inutile che studi tanto — diss’ella. — Le assicuro che non vincerà. Non vincerà— ripetè scompigliando con la mano e rovesciando i pezzi. — Io non ho giuocato contro di Lei altra partita che questa, e credo che non ne giuocherò più.

— Meglio per Lei.

— Oh, nè meglio nè peggio.

— Sicuro — diss’ella con accento sarcastico. — Ella non è qui per giuocare contro di me; è qui per fare degli studi profondi con il conte Cesare, non è vero? Che studi sono?

Silla godeva di sentirla irritata; era una vittoria.

— Di nessun interesse per Lei, signorina — rispose.

[p. 117 modifica]Ella restò un momento pensierosa e poi tornò a sedere.

Quali dubbi, quali pensieri di conciliazione le passavano pel capo? Recò ambedue le mani a una crocettina d’oro che le pendeva dal collo tra l’abito aperto e giocherellò con essa piegando il mento al seno, scoprendo un po’ delle braccia tornite.

— Molto bassi questi studi, dunque — diss’ella.

— Oh, no.

— Ah. Lei crede allora che sieno troppo alti per me?

— Non ho detto questo.

— Vediamo; è matematica?

— No.

— Metafisica?

— No.

— Scienze occulte forse? Il conte ha bene dello stregone; non trova, signor... signor... Come si chiama Lei?

— Silla.

— Non trova, signor Silla?

— No, signorina.

— Molto reciso, Lei.

Seguì un momento di silenzio. Si udì la voce del conte mista ad altre voci di persone che scendevano per la scalinata.

Silla si alzò in piedi.

— Aspetti un poco — diss’ella bruscamente. — Non voglio sfingi davanti a me. Cosa scrive Lei con mio zio?

— Un libro noioso.

— Capisco; ma di che tratta?

— Di scienza politica.

— Ella è uomo di Stato?

— Qualche cosa di meglio; sono artista.

— Di canto?

— La marchesina ha un grande spirito!

— E Lei è molto orgoglioso!

— Forse.

— E con quale diritto?

[p. 118 modifica]Dicendo queste parole Marina sorrise di un sorriso enigmatico di cui Silla non capì il veleno.

— Di rappresaglia — rispose.

— Oh! — esclamò Marina. Un lampo di sdegno le passò negli occhi.

L’uno e l’altro pensarono in quel momento a un predisposto legame, fosse pure d’antagonismo, d’inimicizia, nel loro futuro destino.

— È dunque vero — disse Marina sottovoce — che Lei giuoca un’altra partita qui al Palazzo?

— Io? — rispose Silla, sorpreso. — Non so cosa Lei voglia dire.

— Oh, lo sa! Ma Lei giuoca prudente, giuoca coperto, non ha ancora mosso la Regina. Povero orgoglio il Suo! E parla di rappresaglie! Non mi conosce, Lei. Mi hanno scritto poco tempo fa che sono superba, che vorrei vivere in una stella di madreperla, e che in questo pianeta borghese, in questo sudicio astro di mala fama, non c’è posto, per me, di posare il piede. Risponderò che il posto l’ho trovato e...

— Ecco mia nipote — disse il conte entrando con alcune persone.

Silla non si mosse. Guardava Marina con gli occhi sbarrati. La sua corrispondente, Cecilia, lei!

— Il signor Corrado Silla, mio buon amico — soggiunse il conte, — il quale ha ancora la testa negli scacchi, a quanto pare.