Malombra/Parte prima/VII

Da Wikisource.
Conversazioni

../VI ../VIII IncludiIntestazione 1 aprile 2015 100% Da definire

Parte prima - VI Parte prima - VIII
[p. 119 modifica]

CAPITOLO VII.


Conversazioni.


Quel giorno la gentildonna veneziana di Palma il Vecchio fu scherzosamente pregata di uscire dalla sua cornice e di sedere a pranzo. La bella donna rispose col solito sorriso. Benchè la mensa brillasse di argenti, di cristalli e di fiori, non valeva ad allettare lei, cresciuta fra magnificenze orientali. E poi, quale squallida comitiva di adoratori a’ suoi piedi! Chi la pregava di scendere era il comm. Finotti, deputato al Parlamento, prossimo alla sessantina, con gli occhi tutti fuoco e il resto tutto cenere. C’era pure il comm. Vezza, letterato, aspirante al Consiglio superiore d’istruzione pubblica e al Senato, piccolo, tondo, imbottito di dottrina e di spirito, caro a molte signore ma non a quella lì, che non era letterata nè ipocrita e rideva di quegli occhiali d’oro, di quel carnierino grigio corto, di quelle forme da soldatino di gomma. C’era il prof. cav. ing. Ferrieri: fisonomia nervosa, occhio intelligente, sorriso scettico, cervello e cranio perfettamente lucidi. Neppure costui poteva allettare la bella veneziana. Ella era troppo del XVI secolo e lui troppo del XIX. Nato con una scintilla di poeta e d’artista, la avea convertita in agente meccanico. C’era l’avvocatino Bianchi, giovinotto elegante, timido, con un’aria di sposina imbarazzata, tutto tepido ancora del nido di famiglia. Anche di lui [p. 120 modifica]sorrideva dall’alto la esperta dama. Altre facce nuove non c’erano, perchè non poteva contarsi fra queste la trista figura del dottore, sdrucciolato, senz'invito nella sala da pranzo.

Chi aveva portato quegli ospiti al Palazzo era stato il solitario fiumicello ch’esce dal lago a ponente, fra i pioppi. Alcuni capitalisti di Milano avevano incaricato il prof. Ferrieri di recarsi a visitare l’emissario del piccolo lago di... e a studiare se ci fosse forza bastante per una grande cartiera. Il professore doveva schizzare un progetto sommario, tastare il Municipio di R... per la costruzione di un tronco di strada e fors’anche per la cessione gratuita di un fondo comunale. Egli era un ingegnere di molta fama; quattro sgorbi col suo nome avrebbero fatto piovere gli azionisti. Aveva portato con sè suo nipote avvocato per la parte legale dell’affare. Il commendatore politico e il commendatore letterato, vecchi amici del conte Cesare e dell’ingegnere, si erano accompagnati a questo per fare al Palazzo una visita promessa fino dal 1859.

Il pranzo fu eccellente e largamente inaffiato di spirito. I motti dell’onorevole deputato si urtavano con le freddure dell’uomo di lettere, con gli epigrammi incisivi dell’ingegnere professore. Il vocione del conte copriva spesso le altre voci, il tintinnìo delle posate e dei cristalli, il cozzo sguaiato dei piatti e tutto quanto. Il giovane avvocato taceva, mangiava poco, beveva acqua e guardava Marina. Steinegge e il dottore bisbigliavano insieme, scambiavano qualche rara parola con Silla. Questi, distratto, assorto in altri pensieri, tante volte non rispondeva loro nemmeno, o rispondeva a sproposito.

Marina pure era taciturna.

I due commendatori suoi vicini chiedevano aiuto alla Natura, all’Arte, al cielo e alla terra per farla parlare e non riuscivano a trarle di bocca che radi monosillabi. Però il suo viso, il suo sguardo, che non si rivolse mai [p. 121 modifica]a Silla, non esprimeva preoccupazione alcuna. Il commendator Vezza, che aveva la manìa di saper tutto, le domandò, per ultimo tentativo, se conoscesse un certo punto di ricamo di nuova introduzione, che a Milano tutte imparavano. Ella gli rispose con una sommessa esclamazione di meraviglia sdegnosa che turbò molto il dotto uomo e lo spinse a buttarsi subito fra i discorsi degli altri. Si parlava della futura cartiera. L’ingegnere vantava le nuove macchine che si sarebbero introdotte per fare e adoperare la pasta di legno. Steinegge si stupiva che la pasta di legno fosse una novità per l’Italia; secondo lui l’uso n’era divulgatissimo in Sassonia. Il Vezza osservò che in Italia usavano gli azionisti di pasta di legno e le azioni di cenci; fece poi dei commenti agrodolci su questo germanismo industriale tanto riprensibile, secondo lui, quanto il germanismo letterario. La discussione s’infervorò subito. Il Finotti sosteneva il Vezza; l’ingegnere lo combatteva. Steinegge, rosso rosso, fremeva in silenzio, versava Sassella, versava Barolo sulle piaghe del suo amor proprio nazionale.

— Quella è la miglior poesia italiana, non è vero? — gli disse ridendo l’ingegnere.

Steinegge giunse le mani, soffiò e alzò gli occhi al cielo senza parlare, come un vecchio serafino estatico. — Ben detto, signor Steinegge, bravo, — gridò l’onorevole deputato. — Cesare, tra poco ci capita la Giunta di R..., non è vero, per conferire qui con Ferrieri sotto i tuoi auspici. Bisogna inzupparmela di questo Barolo. Per quanto siano duri quei signori, l’amico se li mangerà facilmente, uno dopo l’altro.

— Oh, non li conosci, — rispose il conte. — Essi berranno il mio vino e le ragioni del signor professore, loderanno tutto e non si decideranno a niente. Questa gente, più la si accarezza, meno si fida. E non ha poi tutti i torti.

Già! Timeo! Ma intanto lui, il professore, non [p. 122 modifica]porta nessun dono, e poi, per fortuna, ha un profilo così poco greco! Non le pare, marchesina?

Marina rispose asciutto che non si occupava di greco.

— E lui son quarant’anni che va dimenticando di essersene occupato male — disse il professore. — Non gli dia retta. Del resto, non sono greco ma ho il Pattolo in tasca. Duecentocinquanta fra operai e operaie, una dozzina d’impiegati tecnici ed amministrativi, l’esempio, sopratutto l’esempio! Sapete quanti opifici si potranno piantare con quell’acqua lì! Dopo verrà la necessità d’una ferrovia.

— Prova generale — sussurrò il commendator Vezza.

— Insomma il Municipio di R... mi deve buttare ai piedi la strada, il terreno e il diploma della sua cittadinanza.

— Castelli di carta. Ah, una trota, salmo pharius. Rossa, di fiume. Queste ce le guasterai di sicuro con la tua carta.

Ciò detto, il comm. Vezza impegnò con il conte, l’ingegnere e Steinegge un dialogo assai vivo sulle trote d’ogni razza e paese, sulle reti, sugli ami, sulla piscicoltura. Intanto l’uomo politico trovò modo di avviarne uno più intimo col dottore, suo vicino, intorno a Corrado Silla; ne raccolse con voluttà le maldicenze che correvano sulla origine del giovane. Quando poteva mettere il dito sopra una debolezza umana di quel genere, una debolezza di puritano, inaspettata, curiosa, era felice.

— Dunque — diceva il comm. Vezza — per le trote di fiume s’infilza sull’amo una mosca... o un lombrico...

— O un poeta tedesco — suggerì l’ingegnere.

— No, chi ne mangia? Neppure un ingegnere. Gli è per pigliare i sindaci lacustri che s’infilza sull’amo un pezzo grosso dell’Università incartato in un progetto...

Qui il commendatore si cacciò in fretta una mano sulla bocca, perchè, annunciati dal cameriere, entravano il Sindaco e la Giunta di R...

[p. 123 modifica]Movimento generale, strepito di sedie, presentazioni cerimoniose, silenzio, tintinnìo di tazze, brindisi eloquente del commendator Vezza alla futura prosperità del Comune di R... così degnamente e sapientemente rappresentato. — Dell’amo non parlò. Il Sindaco e la Giunta lo guardavano trasognati, con la vaga inquietudine di chi sente farsi gran lodi e non sa perchè, e teme d’esser caduto in qualche imbroglio. Poi tutti si alzarono. Il conte, l’ingegnere, l’avvocatino e la Giunta si strinsero a conferire insieme.

Il comm. Finotti diede il braccio a donna Marina sussurrandole alcune parole francesi e sorridendo, probabilmente all’indirizzo delle autorità che spandevano un disgustoso odore di fustagno. Si respirava uscendo da quel caldo nell’ombra fresca della loggia, dove veniva su dal cortile un soave odore di rhynchospermum fiorito. Anche il lago davanti al Palazzo taceva per un gran tratto nell’ombra. Le montagne in faccia e l’acqua in cui si specchiavano eran dorate. Il ponente splendeva, sereno. A levante l’Alpe dei Fiori, infocata, toccava il cielo nero, tempestoso.

— Bello! — disse il comm. Finotti appoggiandosi alla balaustrata; — bello, ma troppo deserto. Come Le passa il tempo in quest’èremo, marchesina?

— Non passa del tutto — rispose Marina.

— Ci sarà però nei dintorni qualche essere umano lavato e pettinato da poter dire due parole.

— Ce n’è uno dipinto.

Accennò il dottore che stava presso l’entrata della loggia ascoltando a bocca aperta un vivacissimo dialogo tra il Vezza e Steinegge. Silla si teneva in disparte, guardava il getto d’acqua nel cortile.

— Ma Cesare — insistè il Finotti — ha sempre ospiti. Anche adesso, mi pare... — soggiunse con una voce piena di domande sottintese, guardando la giovane signora, che sporse il labbro inferiore senza rispondere.

[p. 124 modifica]— Come mai è l'amico di Cesare? — disse il commendatore sottovoce.

— Non lo so.

— Io però lo invidio.

— Perchè?

— Viver vicino a Lei!

— Può essere assai poco piacevole agli altri se non garbano a me — disse Marina con l’accento e l’atto di chi vuol troncare un discorso.

— Vezza! — gridò forte il Finotti, — come puoi star a parlare di trote, perchè tu già parli di trote o di granchi, dove c’è una dama? Vedo che al mio garbatissimo amico dottore ci fai una pessima impressione.

Il garbatissimo amico si sviscerò in proteste.

— Marchesina — disse il Vezza avvicinandosi — oda come si ricompensa l’abnegazione di un amico che vi cede il primo posto!

— L’aveva Lei? — rispose Marina con uno dei suoi sorrisi; e senz’attender la replica, si rivolse a Steinegge.

— Tre sedie — diss’ella.

V’erano cinque persone in loggia e neppur una sedia.

— Quando una signorina ordina — rispose Steinegge dopo un momento di silenzio, — un capitano di cavalleria può portarne trenta.

Il commendatore Finotti osservò Silla. Era pallido e guardava Marina con fuoco sì sdegnoso che parve sospetto a quel dilettante di psicologia pratica.

— Tutti in piedi? — disse il conte affacciandosi in quel punto alla loggia con l’ingegnere, l’avvocato e le Autorità. — Caro Steinegge, abbia la bontà di dire che portino delle sedie. Il professore desidera vedere se e come si potrebbe stabilire un barraggio regolatore delle piene del lago; se occorra qualche altra operazione alla soglia dell’emissario. Io lo accompagno. Questi signori preferiscono rimanere.

— Noi leveremo l’incomodo — disse uno degli assessori.

[p. 125 modifica]— Che diavolo!— replicò il conte.— Bisogna far visita a mia nipote, adesso. Quando crede, professore...

Il professore distribuì in fretta sorrisi e strette di mano ai cinque dignitosi municipali e partì col conte.

— Noi faremo ballare gli orsi— sussurrò il commendator Finotti a donna Marina.

Ma gli orsi non erano tanto orsi quanto s’immaginava lui. Tre di essi, gli assessori supplenti e il sindaco, si conoscevano abbastanza per non aprir bocca mai. Gli altri due, gli assessori effettivi, potevano dar dei punti, per furberia, al signor commendatore. Per scioltezza di scilinguagnolo non gli stavano troppo al disotto, posto ch’erano contadini; grassi se si vuole, ma contadini da gerla e da zappa. — Siamo poveri alfabeti di campagna — diceva uno di loro. Avevano finissimo il fiuto della canzonatura.

Si parlò, naturalmente, della cartiera. Il Finotti fece una pittura, a gran tratti di scopa, delle meraviglie industriali che si sarebbero vedute, dei favolosi guadagni che avrebbe fatto il paese. I due approvavano col capo a più potere, fregandosi i ginocchi con le mani.

— Com’è diventato aguzzo il mondo!— disse il più vecchio.

— E noi restiamo sempre tondi — rispose l’altro. — Almeno se non ci piallano un poco.

— Comune ricco, già— disse il Finotti.

— Sì, quattro sterpi e un paio di viaggi d’erba, su quelle croste là in faccia, dove tutti si servono. Quando li avremo mangiati per far la strada della cartiera, allora diventeremo ricchi; ma per adesso... Allora sì. Sarà forse per quel vino che ci ha favorito, per sua grazia, il signor conte, allora mi pare che abbiamo da diventar signori bene. È un gran vino; ma sarà mica traditore? Cosa ne dice Lei, signor tedesco, che lo vedo qualche volta dalla Cecchina gobba?

— Ah! Ah!— soffiò Steinegge senza capir bene.

[p. 126 modifica]— Ehi! — esclamò il Vezza accorgendosi dei nuvoloni neri che ingrossavano a levante. — Vuol far temporale.

— Oh signor no — disse l’assessore che aveva parlato prima — per adesso no; stanotte, forse.

— Come si chiamano quei sassi là in alto dove batte il sole?

— Noi li chiamiamo l’Alpe dei fiori. Da ragazzo ci sono stato anch’io lassù, a far fieno. Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio.

— C’è bene, lassù, il buco del diavolo — disse l’altro assessore.

— Ah, c’è un buco del diavolo? — disse Silla — E perchè lo chiamano così?

— Ma, io non saprei mica, vede. Bisogna domandare alle donne. Loro contano un sacco di storie!

— Per esempio, dicono che per quel buco si va all’inferno, che è un piacere, dritti come i, e che i beniamini del diavolo piglian tutti quella strada là. Ci fanno anche il nome a tre o quattro che ci son passati.

— Ah sì? — disse il commendator Finotti. — Sentiamo.

— Proprio non mi ricordo, sa...

— Gente del paese, già?

— Del paese e mica del paese. Non mi ricordo.

Qui l’onorevole Sindaco uscì, in mal punto, dal suo prudente silenzio.

— Pare impossibile, Pietro — diss’egli — pare impossibile che non vi ricordiate. La matta!...

— Che asino! — mormorò fra i denti il poco riverente assessore, e non disse altro.

— Bravo Sindaco. A Lei! Lei deve ben sapere da che parte vanno all’inferno i Suoi sudditi, diavolo! Racconti dunque! Non sarà mica un segreto d’ufficio, spero.

Il Sindaco, accortosi troppo tardi di aver posto un piede in fallo, si andava contorcendo sulla sedia.

— Ouf, seicento! Non saranno neanche sessanta — disse un altro municipale che fino allora era stato zitto.

[p. 127 modifica]— Bene, bene, sessanta o seicento, è sempre una storia vecchia, e qui ai signori può interessar poco.

Ma il povero Sindaco, preso alle strette, non trovò modo di schermirsi; e, per non aver più quel peso sullo stomaco, lo buttò fuori a un tratto.

— Ecco, questa matta era la prima moglie del povero conte vecchio, qui del Palazzo; una genovese, che ha scappucciato, pare, un tantino, e suo marito l’ha condotta qui, l’ha tenuta come in castigo, ed è stato qui anche lui finchè è morta; la gente dice che il diavolo se l’è portata a casa per di là.

Mentr’egli parlava, Marina si alzò, gli voltò le spalle. I suoi colleghi gli fecero gesti di rimprovero. Il Vezza disse a caso:

— È la barca di Cesare quella là?

— Bei tempi!— esclamò Silla con voce sonora.

Tutti, tranne Marina, lo guardarono sorpresi.

— Tempi di forza morale — proseguì senza badare a quelle occhiate. — Di forza morale organica. Adesso si hanno le convulsioni, gl’impeti di passione sfrenata, e, in fondo, egoista. Se una donna tradisce, la si ammazza o la si scaccia. Vendicarsi e liberarsi; ecco lo scopo. Allora no. Allora vi era qualche gentiluomo capace di seppellirsi con la colpevole in un deserto e di dividere la espiazione senz’aver divisa la colpa, rompendo tutti i vincoli del mondo, per rispetto a un vincolo sacro, benchè doloroso.

Marina, senza voltarsi, sfrondò nervosamente con la destra un ramo di passiflora.

— Può essere stata una vendetta atroce — disse il Finotti— un omicidio lento e legale. Che ne sa Lei?

— Non lo so; non credo che il padre del conte Cesare sia stato capace di questo. E poi, ci occupa, ci commuove la pena; ma la colpa? Chi era questa donna? Chi ci può dire?....

Donna Marina si voltò.

— E Lei — diss’ella con voce rotta dalla collera — [p. 128 modifica]chi è, Lei? Chi ci può dire neppure il Suo vero nome? S’indovina!

Aperse con impeto l’uscio che metteva nell’ala di ponente e scomparve.

Medusa non avrebbe impietrato meglio di lei quel gruppo d’uomini.

Silla sentiva di dover dire qualche cosa, e non sapeva che. Gli parve di aver toccato un gran colpo di mazza sulla testa e di barcollare. Finalmente, a stento, raccapezzò un pensiero.

— Signori — diss’egli— sento che mi si è gettata un’ingiuria: non so quale, non intendo!

Le parole no, ma l’accento, le braccia, gli occhi, dicevano: se avete inteso, parlate. I commendatori e il medico protestarono silenziosamente, col gesto, di non saper nulla, gli altri stavano a bocca aperta. Steinegge prese Silla a braccetto, lo trasse via dicendogli: — Adesso conoscete, adesso conoscete.

La Giunta di R... e il dottore si ritirarono subito.

— Bel finale! — disse il commendator Vezza, passato il primo sbalordimento. — Hai capito tu?

— Eh altro — rispose il Finotti. — È chiaro come l’acqua.

— Torbida.

— Ma che? vuoi sentire? Quel giovinotto lì, piovuto al Palazzo dalle nuvole, è un peccatuccio dell’amico Cesare. Alla damigella ci ha seccato mortalmente. Capisci, vedersi portar via sotto il naso uno zio siffatto! Ci sarebbe, per salvar tutto, la solita combinazione, e questa scommetto che è l’idea di Cesare, ma!... A Parigi o a Milano o nel mondo della luna ci deve essere un ma con un cilindro etereo e dei calzoni ideali. Sarà biondo, sarà bruno, sarà quel diavolo che vuoi: c’è sicuramente. Dunque, niente combinazione; guerra! Non è chiaro?

— Non sai niente, caro mio. Che si possa arrischiare un sigaro? — Qui il commendator Vezza si divertì ad accendere il sigaro, sciupandovi silenziosamente una [p. 129 modifica]mezza dozzina di fiammiferi. — Sì, la Mina Pernetti Silla, bella donna, bellissima donna! è stata veramente amica di Cesare, ma una amica!... — Il commendatore gittò in alto una boccata di fumo, l’accompagnò su con l’occhio e con la mano disegnando in aria degli zeri allegorici.

— Lei — proseguì— era figlia di un consigliere d’appello tirolese. Sai che Cesare fu espulso di Lombardia nel 1831? Credo che volesse liberarar l’Italia per potersi sposare poi senza scrupoli quella tirolesina bionda. Ell’avrà avuto un ventidue anni. Il papà l’avrebbe arrostita piuttosto che darla a un liberale. Lei tenne saldo, povera ragazza, a non volersi maritare, fino a ventisei anni. Suo padre, un mastino, credo che la mordesse. Un bel giorno piegò il capo e prese un figuro, un austriacante marcio che fece denari con le imprese e poi se li mangiò tutti, andò via con i tedeschi nel 59 e dev’esser morto a Leibach, credo. La Mina e Cesare non si videro mai più, ma si scrissero sempre non d’amore, veh! neppur per sogno. Quello lì? Quello lì è un giansenista che non va a messa. Ella non gli scriveva che di suo figlio, lo consultava. È morta nel 58, e tutto questo io l’ho saputo dopo, da un’amica sua. Ora domando io se è chiaro. Domando io cos’ha da temere la marchesina di Malombra, che ragioni aveva...

— Sì, sì, sarà tutto vero, vuol dire che lei non sa le cose a questo modo. Ma poi, come mi parli di ragioni in una testolina così bella? Non vedi, perdio! che occhi? Lì dentro ci sono tutte le ragioni e tutte le follie. Averla per un’ora, una donna così bella e così insolente! Si deve impazzire di piacere.

— Peuh! — disse il letterato — è troppo magra.

Ma l’onorevole deputato fece di questa censura una confutazione così scientifica che non può trovar posto in un lavoro d’arte.