Medea (Euripide - Romagnoli)/Quinto episodio

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Quinto episodio

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Euripide - Medea (431 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Quinto episodio
Quarto stasimo Quinto stasimo
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Entra l’aio coi due bambini.

aio

Sono dal bando liberi, o signora,
questi fanciulli: di sua mano accolse
la regia sposa i doni, e si compiacque.
Pace, da questa parte, hanno i tuoi figli.

medea

Ahimè!

aio

La ventura t’arride, e sei sconvolta?

medea

Ahimè!

aio

Con le mie nuove il tuo lagno discorda.

medea

Anche una volta, ahimè!

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aio

                                   Qualche sciagura,
senza saperlo, t’annunciai? Fu falsa
l’idea che un buon messaggio io ti recassi?

medea

Fu quel che fu, l’annuncio: io non lo biasimo.

aio

Ché dunque il volto abbassi, e versi lagrime?

medea

Non mi posso frenar, vecchio: tal danno
i Numi, ed a me stessa io stessa macchino.

aio

Fa’ cuor: qui tornerai, grazie ai tuoi figli.

medea

Ma saprò far che prima altri ne partano.

aio

Non sei la sola tu, che separarsi
debba dai figli: chi mortale nacque,
in pace sopportar deve gli affanni.

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medea

Cosí farò. Tu entra, e ai figli appresta
quanto per oggi ad essi occorre. O figli,
o figli, a voi non manca né città
né casa, dove, della madre orbati,
abiterete eternamente; ed io
andrò fuggiasca ad altra terra, prima
ch’abbia di voi gioito, abbia la vostra
felicità veduta, ad una sposa
v’abbia congiunti, e il talamo di nozze
adornato, e levate alte le fiaccole.
Ahi, tristo frutto dell’orgoglio mio!
Invano, o figli, v’ho nutriti, invano
in fatiche mi strussi, e m’affannai,
doglie crudeli soffrendo nei parti.
Misera! E un dí tanto sperai che voi
curata avreste la vecchiezza mia,
che con le vostre man’ curato avreste
il mio corpo defunto, ch’è tra gli uomini
invidiato ufficio. Adesso, è spenta
la soave speranza; e, di voi priva,
trista sarà per me, sarà dogliosa
tutta la vita. E gli occhi vostri piú
la madre, o figli, non vedranno: ad altra
forma di vita passerete. Ahi, ahi!
Le pupille su me perché levate?
Perché ridete il vostro ultimo riso?
Ahi, che farò? Mi manca il cuore, o donne,
se fisso gli occhi dei miei figli fulgidi.
No, ch’io mai non potrò! Vadano spersi
tutti i disegni di poc’anzi: i figli
miei, condurrò lontan da questa terra.

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Per dare cruccio al padre lor, dovrei
procacciare a me stessa un danno duplice?
No, certo: spersi i miei disegni vadano.
Eppure, no: che faccio? I miei nemici
impuniti lasciar devo, ed oggetto
essere a lor di riso? Ardire occorre.
Oh mia viltà, che profferisce detti
degni d’un cuore imbelle. Entrate in casa,
o figli miei. Se assistere al mio scempio
sembra iniquo a talun, quei non v’assista:
non perciò fiacca la mia man sarà.
Ahimè!
No, no, cuor mio, non compiere lo scempio!
Lasciali, o trista, i figli non uccidere.
Forse laggiú, con me vivendo, gioia
darmi potranno? Oh, per le Furie inferne
d’Averno, non sarà che i figli lasci
dei nemici all’oltraggio. Inevitabile
destino è questo, e sfuggirgli non posso.
Già cinta al capo ha la ghirlanda, già
chiusa nel peplo, ben lo so, la sposa
regal perisce. E, poi ch’io per miserrimo
tramite i pie’ volgere devo, i figli
salutar bramo. O figli miei, porgete
la vostra mano, alla madre porgetela,
in tenero commiato. O dilettissima
mano, o sembiante, o capo dilettissimo
dei figli, o nobil volto, a voi sorrida
fortuna; ma laggiú: ché tutto il padre
quassú v’ha tolto. O abbracci soavissimi,
morbida cute, ed alito soave
dei figli! Andate, andate! Io non ho forza

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di piú guardarvi, e son vinta dai mali.
Intendo ben che scempio son per compiere;
ma piú che il senno può la passïone,
che di gran mali pei mortali è causa.

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coro

M’addentrai fra sottili argomenti
bene spesso, tra dispute gravi,
piú di quanto convien che ne cerchi
donnesca progenie.
Ché abbiamo una Musa anche noi,
che vive con noi, che c’ispira
saggezza. Non tutte; ma pure
talune (forse una fra molte
trovarne potresti)
non sono di senno inesperte.
Ora, affermo, che quanti degli uomini
son di pargoli ignari, né mai
procrearono figli, son molto
piú felici di quelli che n’ebbero.
Quei che prole non ebbero, e ignorano
se cosa dogliosa o soave
sian per gli uomini i pargoli, quando
non n'ebbero, vivono scevri
di molte sciagure.
Quelli invece che dolci germogli
in casa han di figli,
li vedo che giorno per giorno

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nei pensieri si struggono. Primo,
di bene allevarli; poi, d’onde
lasceranno sostanza ai figliuoli.
Oltre a ciò, se per buoni o per tristi
si spendan le loro fatiche,
nessuno lo sa.
E un male soggiungo, l’estremo
fra tutti, per gli uomini tutti.
Trovarono agevole copia
di vita, sia pure, pervennero
le membra dei figli a fiorente
gioventú, buoni crebbero. Ma,
se tale è il destino,
la Morte, lontano, nell’Ade
i corpi dei figli trascina.
A che giova dunque, che i Superi
sopra l’altre sciagure, ai mortali
addossino questa
dei figli, acerbissima?

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Giunge, esterrefatto, un messo.

medea

Da un bel tratto gli eventi, amiche, attendo,
l’esito spio, qual ne sarà. Ma vedo
un dei famigli di Giasone giungere:
l’affannoso respir, ben mostra ch’egli
qualche nuova sciagura annunzierà.

nunzio

O tu rea d’un iniquo orrido scempio,
fuggi, fuggi, Medea: né carro nautico
né terrestre da te non sia negletto.

medea

Per quale causa tanto urge ch’io fugga?

nunzio

Fu spenta or or la giovine regina,
pei tuoi veleni, e il padre suo Creonte.

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medea

Dolcissime parole! E d’ora innanzi
benefattore e amico io ti considero.

nunzio

Che dici? In te sei, donna, non sei folle?
Odi che il focolar dei nostri re
è distrutto, e t’allegri, e non sgomenti?

medea

Bene io saprei parole onde ribattere
le tue; ma narra senza fretta, amico,
la loro morte: se fu crudelissima
morte, due volte lieta mi farai.

nunzio

Poiché dei figli tuoi la coppia giunse
insiem col padre, e nella stanza entrò
della regina, ci allegrammo noi
servi, che pel tuo mal tristi eravamo;
e fu per il palagio un gran discorrere,
che con lo sposo tu composta avevi
l’antica lite. E chi la mano, e chi
il biondo capo dei fanciulli bacia.
E, pel piacere, anch’io, dietro ai fanciulli,
sino alle stanze delle donne entrai.
E la signora che onoriamo adesso
in vece tua, pria di veder la coppia

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dei figli tuoi, lo sguardo affettuoso
a Giasone volgea. Ma, come entrarono,
velo si fece agli occhi, e volse altrove
la bianca guancia: ché n’avea disgusto.
Ed il tuo sposo, a mitigar lo sdegno
della fanciulla, sí parlò: «Non essere
nemica ai figli miei, placa lo sdegno,
qui volgi il capo, ed abbi cari quelli
che son cari al tuo sposo, e i doni accetta,
e implora il padre tuo che dall’esilio,
per grazia mia, questi fanciulli affranchi».
Ed ella, come e veste e vezzo vide,
non resisté, ma die’ consenso a quanto
chiedea lo sposo. E, pria che dalla reggia
fossero lungi padre e figli, il peplo
variopinto prese, e lo indossò,
e sopra i ricci la corona d’oro
posta, la chioma s’acconciò davanti
ad un lucido specchio; ed alla propria
inanimata immagine sorrise.
Poscia, dal trono surse, e traversò,
sul bianchissimo pie’ molle incedendo,
la stanza; e tutto gaudio era pei doni;
e spesso e a lungo si mirò, levandosi
sugli apici dei pie’, sino al tallone.
Ciò che poscia seguí, per chi lo vide,
fu spettacolo orrendo. Essa mutò
d’improvviso colore; e, tremebonda
per ogni membro, e indietreggiando obliqua,
sopra un seggio a cader pervenne, appena
che non piombasse a terra. E delle ancelle
una piú annosa immaginò che invasa
di Pan le furie o di qualche altro Dèmone

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l’avessero; e gridò, sinché non vide
candida spuma dalla bocca scorrere,
e lei stravolger le pupille, e il sangue
dalla pelle sparito; e un urlo alzò,
ben differente, di cordoglio. E súbito
alla reggia del padre una volò,
un’altra al nuovo sposo, e la sventura
narrâr della fanciulla; e d’un accorrere
fitto, sonora fu tutta la casa.
E tanto tempo era già corso, in quanto
un veloce pedon, doppiando il braccio
d’una lizza di sei plettri,1 tornato
al termine sarebbe; e la tapina
dal muto e cieco stato si destò,
grida levando orribili: ché duplice
spasimo aveva le sue fibre invase:
dal serto d’oro al capo attorno cinto,
d’arcano fuoco un rivolo sprizzava
divoratore; ed il fin peplo, dono
dei figli tuoi, le carni divorava
dell’infelice. E, balzando dal trono,
s’avventa, in fiamme, squassando qua e là
e chioma e capo, per gittare il serto.
Ma dell’oro ben salda era la presa;
e il foco, quanto piú scotea la chioma,
tanto piú sfolgorava. E a terra cadde,
dallo spasimo affranta; e riconoscerla,
niun, tranne il padre suo, potuto avrebbe:
ché ben distinta la forma degli occhi
non era piú, né ben formato il viso;
e sangue giú dal vertice del capo,
misto a sangue, stillava, e, lungo l'ossa,
le carni, pari a lagrime di pino,

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scorrevano. Guardarla, era un orrore;
e la salma toccar, tutti temevano:
ch’era stato l’evento a noi maestro.
Ma della sorte ignaro, il padre misero,
nella stanza improvviso irruppe; e súbito
leva un ululo, e piomba sul cadavere,
la salma abbraccia, la bacia, le volge
la parola cosí: «Figlia infelice,
quale dei Numi a cosí sconcia fine
t’addusse? Orbo di te, chi questo vecchio,
presso alla tomba rese? Ahimè, con te,
figlia mia, fossi morto!». E quando poi
dalle querele desisté, dai gemiti,
il vecchio volle sollevarsi; e stretto
ai fini pepli si sentí, com’ellera
a cespiti d’alloro. E cominciò
un’orribile lotta: egli il ginocchio
sollevare volea; ma lo stringeva
a sé la salma; e se traeva a forza,
la vecchia carne dall’ossa strappava.
Si spense infine, l’anima esalò,
ché piú non resse alla crudel tortura.
Or, la figliuola e il vecchio padre giacciono
spenti vicini, dolce esca alle lagrime.
Dei casi tuoi, parola dir non voglio:
il mal, su chi lo fa, lo sai, ricade.
Le cose umane, poi, non è la prima
volta ch’ombre le stimo, e non mi pèrito
d’affermare che quei che saggi e acuti
di parole maestri esser presumono,
affetti da follia son piú degli altri:
ché felice non è verun degli uomini.

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Piú fortunato, quando abbia benessere,
può l’uno esser dell’altro; e niun felice.
Parte.

coro

Sembra che molti in questo giorno il Dèmone
gravi malanni su Giasone avventi.
Ma quanto, o figlia di Creonte, o misera,
la tua sciagura compiangiam; ché scendi,
grazie alle nozze con Giason, nell’Ade!

medea

Amiche, è fermo il mio disegno: i figli,
prima ch’io possa, uccidere, e lontano
fuggir da questa terra, e non concedere
che per l’indugio mio muoiano i figli
di piú nemica mano. È ch’essi muoiano
ferma necessità. Poiché bisogna,
io che li generai li ucciderò.
Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? È vile
non far ciò che bisogna, anche se orribile.
Su, sciagurata mano mia, la spada,
stringi la spada, e muovi a questo truce
termin di vita, non esser codarda,
né dei figli pensar che d’ogni cosa
ti son piú cari, e che li desti a luce.
Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,
e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,
cari sono essi, e sciagurata io sono.
Entra nella reggia.

Note

  1. [p. 335 modifica]Una lizza di sei plettri: lo stadio era formato di 6 plettri di 100 piedi ciascuno, pari a circa 184 metri.