Memorie autobiografiche/Quarto Periodo/V
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Capitolo V.
Agro Romano.
La breve campagna del 67 nell’Agro Romano fu da me preparata in una escursione sul continente italiano ed in Svizzera, ove assistetti al congresso della Lega della pace e della libertà. Io ne assumo quindi la maggior parte della responsabilità.
Generale della Repubblica romana, investito di poteri straordinari da quel governo, il più legittimo che mai abbia esistito in Italia, vivendo in un ozio che io ho sempre creduto colpevole quando tanto resta ancora da fare per il proprio paese, io mi figuravo con ragione esser giunto il tempo di dare il crollo alla baracca pontificia ed acquistar all’Italia l’illustre sua capitale.
Aspettare l’iniziativa da «chi tocca» era una speranza come quella scritta sulle porte dell’inferno. I soldati di Bonaparte non eran più a Roma e poche migliaia di mercenari, stummia di tutte le cloache europee, dovevan tenere a bada una grande nazione ed impedirle di far uso dei suoi diritti più sacri?
Io mi accinsi alla crociata, prima nel Veneto e poi nelle altre provincie nostre più vicine a Roma. I due governi di Parigi e di Firenze coi loro segugi mi tenevan dietro, com’era naturale; e se molti furono i buoni che mi coadiuvarono nell’impresa, non pochi la contrariarono, massime la mazzineria, che si dice indebitamente partito d’azione e che non tollera iniziativa emancipatrice in chicchessia.
Infine dopo d’aver girovagato per l’Italia, ed al mio ritorno dalla Svizzera credendo non dovere più indugiare, mi decisi all’azione verso settembre.
Nello stesso tempo che si preparava il moto al settentrione, chiedevasi il concorso degli amici dell’Italia meridionale per operare simultaneamente su Roma.
Io avea però fatto il conto senza l’oste; ed una bella notte, giunto a Sinalunga, ove fui gentilmente accolto ed ospitato, venni arrestato per ordine del governo italiano e condotto nella cittadella d’Alessandria.
Da Alessandria, ove mi trattennero alcuni giorni, fui condotto a Genova e di lì a Caprera, attorniando l’isola con bastimenti da guerra. Eccomi prigioniero nella mia dimora, guardato a vista e ben da vicino da corazzate, con minori piroscafi ed alcuni legni mercantili, che’ il governo avea noleggiati a tale proposito. La spinta data al movimento sul continente e ch’io stesso non avevo potuto iniziare per i motivi suddetti, non avea mancato di aver effetto sui nostri amici, che non si scoraggirono per la mia detenzione.
Il generale Fabrizi, mio capo di stato maggiore, con altri generosi formò un comitato di provvedimento a Firenze. Il generale Acerbi entrò con una colonna di volontari nel Viterbese; Menotti con altra entrò anch’esso per Corese sul territorio pontificio; e l’eroico Enrico Cairoli, con suo fratello Giovanni ed una settantina di coraggiosi, gettandosi in barca nel Tevere, portava armi ai Romani, che ne mancavano.
Dentro Roma pure il prode maggiore Cucchi con un pugno di valorosi, entrati con molto rischio della vita, organizzavano la rivoluzione interna, che, combinata cogli assalitori di fuori, doveva finalmente rovesciare quel mostruoso potere del papato, posato come un canchero nel cuore dell’infelice nostro paese. Io non ero esattamente informato d’ogni cosa nella mia prigionia di Caprera, ma, da quanto avevo lasciato, ne conoscevo lo svolgimento; e poi dai giornali e dalla voce pubblica qualche cosa si udiva, e di certo sapevo che i miei figli ed i miei amici eran sulla terra romana, alle mani coi mercenari pretini.
Lascio pensare se io potevo rimanermi ozioso mentre quei miei cari, per istigazione mia, stavan pugnando per la liberazione di Roma, il bell’ideale di tutta la mia vita! Grande era la vigilanza di coloro che avean per missione di guardarmi, e molti i bastimenti e i mezzi di cui potevan disporre; ma maggiore era il mio desiderio di compiere il mio dovere, raggiungendo i coraggiosi che pugnavano per la libertà italiana.
Il 14 ottobre 1867 alle sei pomeridiane io abbandonavo casa mia, dirigendomi verso il mare a settentrione. Giunsi alla spiaggia e vi trovai il Beccaccino, piccolo legno comprato sull’Arno e capace di trasportare due sole persone.
Il Beccaccino trovavasi casualmente a pochi metri dalla spiaggia, e dalla parte di levante d’un piccolo magazzino che serve a metter le imbarcazioni al coperto. Nella stessa parte trovavasi una pianta di lentisco che copriva quasi intieramente il minuto schifo, dimodochè i miei regi guardiani non avean potuto scoprirlo.
Giovanni, un giovane sardo, custode della goletta, dono generoso dei miei amici inglesi, ancorata nel porto dello Stagnatello, stava sulla spiaggia aspettandomi. Col suo aiuto posi il Beccaccino in acqua e m’imbarcai. Egli partì col palischermo della goletta canterellando. Io costeggiai a sinistra la spiaggia della Caprera, facendo meno rumore d’un’anitra, ed uscii in mare per la punta dell’Arcaccio, ove Froscianti, altro mio fido, e Barberini, ingegnere di Caprera, avevano esplorato il terreno per timore di qualche imboscata.
I miei custodi eran molti. Essi occupavano le isolette del porto dello Stagmitello, ove tenevano una barcaccia da guerra con altre minori, pattugliando in ogni direzione tutta la notte, ma non nella direzione da me scelta per uscire dalle loro unghie.
Era plenilunio, circostanza che rendeva più difficile assai la mia impresa, e secondo i miei calcoli la luna dovea uscire dal Teggiolone (montagna che domina la Caprera) un’ora circa dopo il tramontar del sole. Io doveva quindi profittar di quell’ora per il mio passaggio alla Maddalena, non prima nè più tardi: che prima mi avrebbe tradito il sole, e più tardi la luna. Una circostanza imprevista che mi favorì molto fu la seguente. Maurizio, assistente mio, era andato alla Maddalena in quel giorno e verso quell’ora tornava in Caprera. Un po’ allegro forse non badò al «chi viva» delle barche da guerra che incrociavano numerose nel canale della Moneta, che separa la Maddalena dalla Caprera, e coteste barche lo fulminarono di fucilate che felicemente non lo colpirono. Per combinazione ciò succedeva mentre io stavo operando la mia traversata, favorito pure dal vento di scirocco, le cui piccole ondate servivano mirabimente a nascondere il Beccaccino, che appena usciva d’un palmo dalla superficie del mare.
La mia pratica acquistata nei fiumi dell’America, con le canoe indiane che si governano con un remo solo, mi valse sommamente. Io avevo un remo o pala di circa un metro, con cui potevo remare con tanto rumore quanto ne fanno gli acquatici.
Dunque mentre la maggior parte dei miei custodi si precipitavano su Maurizio, io tranquillamente traversavo lo stretto della Moneta ed approdavo nell’isoletta divisa dalla Maddalena da un piccolo canale guadabile.
Giunsi a greco dell’isoletta e vi approdai fra i numerosi scogli che la circondano quando il disco della luna spuntava dal Teggiolone. Tirai il Beccaccino in terra e lo nascosi nella macchia; poi mi diressi ad ostro per passare il canale guadabile e dirigermi verso la casa della signora Collins.
Nel canale suddetto mi avevano aspettato il maggiore Basso ed il capitano Cuneo, amico mio, che avean supposto il mio passaggio in quella parte; ma il cataclisma mauriziano e la quantità di fucilate che credettero sparate contro di me, li persuasero essere affare finito e io morto o almeno prigioniero. Presero quindi la decisione di ritirarsi alla Maddalena.
Indebolito dagli anni e dai malanni, l’agilità mia era poca tra gli scogli e i cespugli dell’isola della Maddalena. Per fortuna ero illuminato dalla luna, che avrei temuta sul mare, ma che benedivo in quel mio difficile transito, tanto più difficile che avendo dovuto passare il canale guadabile senza scalzarmi per esser irto di punte granitiche, avevo gli stivali pieni d’acqua, e quindi lo sguazzare dei miei piedi nell’umido, cosa ben dispiacevole camminando. In tale stato giunsi con tutte le precauzioni possibili in casa della signora Collins e vi fui accolto generosamente.