Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/I

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima Parte prima - II
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CAPITOLO I.

Mia nascita e miei genitori.

Nacqui a Venezia, l’anno 1707, in grande e bella abitazione, situata tra il ponte di Nomboli e quello di Donna-Onesta, al canto di via di Cà cent’anni, nella parrocchia di San Tommaso.

Giulio Goldoni, mio padre, era nato nella medesima città: tutta la sua famiglia però era di Modena. Carlo Goldoni mio avo fece i suoi studi nel famoso collegio di Parma. Vi conobbe due nobili Veneziani, e strinse con essi la più intima amicizia. Questi lo impegnarono ad andar seco loro a Venezia. Suo padre era morto; gliene accordò il permesso suo zio, colonnello e governatore del Finale in quel tempo. Seguitò pertanto i compagni nella loro patria; vi si stabilì; vi fu incaricato di una commissione onorevolissima e lucrosissima nella camera dei Cinque Savi del Commercio, e sposò in prime nozze la giovine signora Barili, nata in Modena, figlia e sorella di due consiglieri di Stato del duca di Parma. Questa adunque era la mia nonna paterna.

Venuta essa a morte, mio avo fece conoscenza con una vedova rispettabile, madre di due sole fanciulle. Sposò la madre; e diede in matrimonio a suo figlio la maggiore. Erano esse della famiglia Salvioni, e godevano, senza esser ricche, una onesta comodità. Mia madre era bruna di colorito, ma bella, un poco zoppa, ma sagacissima. Ogni loro assegnamento passò in mano di mio nonno.

Egli era un brav’uomo, ma punto economo. Amava i piaceri, e si affaceva benissimo all’amenità dei Veneziani. Teneva a pigione una bella villa appartenente al duca di Massa di Carrara sopra il Silo nella Marca Trevisana, sei leghe distante da Venezia. Quivi viveva lautamente. I benestanti del luogo mal soffrivano che il Goldoni richiamasse in propria casa tutte le persone del villaggio, non meno che i forestieri. Uno dei vicini fece le pratiche per togliergli l’abitazione. Mio nonno andò a Carrara, prese a fitto tutti i beni posseduti dal duca nello Stato Veneto, e ritornò trionfante della vittoria, divenuto però più ricco a proprie spese, Aveva in [p. 12 modifica]casa Commedia ed Opera; tutti i migliori attori, tutti i più rinomati musici stavano al suo comando, vi si concorreva da ogni parte. Io nacqui in questo strepito, in questa dovizia; poteva io disprezzar gli spettacoli, poteva io non amare l’allegria?

Mia madre mi diè alla luce quasi senza dolore, onde mi amò anche di più; ed io non detti in pianto, vedendo la luce per la prima volta. Questa quiete pareva manifestare fin d’allora il mio carattere pacifico, che non si è mai in seguito smentito.

Ero la gioia di casa. La mia governante diceva che io aveva ingegno. Mia madre prese cura di educarmi, ed il mio genitore quella di divertirmi. Fece fabbricare un teatro di marionette, le maneggiava in persona con tre o quattro suoi amici, e in età di quattr’anni trovai esser questo un delizioso divertimento.

Nel 1712 morì mio nonno. Un mal di petto acquistato in una partita di piacere lo condusse alla tomba in sei giorni. Mia nonna lo seguì poco dopo. Ecco l’istante di una mutazione terribile nella nostra famiglia, la quale precipitò tutt’a un tratto dalla comodità più felice nella mediocrità più disagiata.

Mio padre non ebbe l’educazione che gli si conveniva. Non gli mancava ingegno, ma non si era avuta bastantemente cura di lui. Non potè mantenersi nell’impiego del padre, che un accorto Greco seppe togliergli. I beni liberi di Modena erano venduti, i beni di sostituzione ipotecati. Non restavano che quelli di Venezia, che formavano la dote di mia madre e l’assegnamento di mia zia.

Per colmo di disgrazia, mia madre diede alla luce un secondo figlio, Giovanni Goldoni mio fratello. Mio padre era alle strette, e siccome non gradiva troppo di gemere sotto il peso di riflessioni ipocondriache, prese risoluzione di fare un viaggio a Roma per distrarsi. Dirò nel seguente capitolo ciò che vi fece, e quello che divenne. Ritorniamo frattanto a me, giacchè io sono l’eroe dell’opera.

Mia madre restò sola alla direzione della casa con sua sorella ed i due suoi figli. Collocò il minore in collegio; ed occupandosi di me unicamente, volle allevarmi sotto i suoi occhi. Ero docile, quieto, obbediente, e di quattro anni leggevo, scrivevo, e sapevo a mente il catechismo. Mi fu assegnato un maestro. Amavo molto i libri; imparavo con facilità la grammatica, i principii della geografia, e quelli dell’aritmetica. La mia lettura favorita però era quella degli autori comici. Ne era ben provvista la piccola biblioteca di mio padre; ne leggevo sempre qualcuno nei momenti di mia libertà, e ne trascrivevo ancora i pezzi che più mi davan piacere. Mia madre, purchè non mi trattenessi in puerili trastulli, non si prendeva la minima cura della scelta dei miei libri.

Fra gli autori comici che io leggeva e rileggeva spessissimo, il Cicognini era quello che preferivo ad ogni altro. Questo autor fiorentino, pochissimo conosciuto nella repubblica delle lettere, aveva fatte parecchie commedie d’intreccio, sparse di sentimenti noiosi, patetici e di facezie triviali: vi si trovava nulladimeno molto diletto, ed aveva l’arte di mantenere la sospensione, e di piacere con lo scioglimento. Presi per esso un’infinita propensione; lo studiai molto, ed ebbi nell’età di otto anni la temerità di abbozzare una commedia. Ne feci la prima confidenza alla governante, che la trovò piena di grazia; mia zia si burlò di me; mia madre mi sgridò, e mi abbracciò nell’istesso tempo, ed il mio precettore asserì, esservi spirito e buon senso oltre le forze della mia età. Il più singolare però fu, che mio compare, uomo in carica, e assai più ricco di danari che di cognizioni, non volle mai credere che quella fosse [p. 13 modifica]opera mia; sosteneva che il mio maestro l’aveva rivista e corretta. Questi trovò ingiurioso il giudizio: la disputa prendeva fuoco; sopraggiunse fortunatamente un terzo soggetto in quell’istante, e li calmò. Era questi il signor Vallè, poi abate Vallè di Bergamo. Questo amico di casa mi aveva visto lavorare intorno a quella composizione, ed era stato testimone delle mie fanciullesche fole ed arguzie. Lo avevo pregato di non parlarne ad alcuno; egli aveva serbato il segreto, e in questa occasione facendo tacere l’incredulo, rese giustizia alle mie buone disposizioni. Nel primo volume della mia edizione del Pasquali, avevo citato per prova di questa verità l’abate Vallè, che nel 1770 ancora viveva, dubitando io fortemente, che vi fossero altri compari, che non mi prestasser fede. Se il lettore mi domandasse qual era il titolo della mia composizione, non sarei in grado di soddisfarlo, poichè questa fu una bagattella, cui niente riflettei nell’eseguirla. Non istarebbe che a me rassegnarglielo presentemente, ma mi compiaccio dir le cose come sono, piuttosto che abbellirle. In somma quella commedia o, per meglio dire, quella puerile follìa, corse per tutte le conversazioni di mia madre, e ne fu spedita una copia al mio genitore. Eccoci al momento di ritornare a lui.