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Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/LI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - L Parte prima - LII

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CAPITOLO LI.

Mio ritorno a Pisa. — Arrivo del mio cognato da Genova. — Sua partenza con mia moglie per questo paese. — Disgusto provato nel mio impiego. — Raffreddamento del mio zelo. — Colloquio singolare con un comico. — Nuova commedia composta a richiesta di lui. — Mio viaggio a Livorno.

Dopo alcuni giorni del mio ritorno a Pisa, arrivò da Genova il fratello maggiore di mia moglie per reclamare da parte de’ suoi maggiori l’impegno da me con essi preso di andare a vederli. Essendomi per due volte assentato per cagione di affari, non potevo prendermi l’ardire di una terza per puro oggetto di piacere: la moglie non diceva nulla, io conosceva per altro bene il suo desiderio di rivedere la famiglia, e prevedevo il dispiacere di mio cognato, nel caso che fosse stato obbligato di ritornare a casa da sè solo. Disposi le cose con soddisfazione di tutti tre: la moglie partì per Genova con suo fratello, ed io restai solo ed in pace, tutto occupato [p. 139 modifica] negli affari del mio studio. Avevo cause in tutti i tribunali della città, clienti in ogni ceto; nobili di prima classe, cittadini de’ più ricchi, negozianti del maggior credito, curati, frati, fittuari facoltosi, e perfino uno de’ miei confratelli, che, trovandosi implicato in una causa criminale, mi scelse per suo difensore. Ecco dunque tutta la città dalla mia, tutti almeno avrebbero così creduto, ed era io pure di tale opinione; non indugiai però molto ad accorgermi dell’inganno: l’amicizia e la considerazione mi avevano, è vero, naturalizzato nei cuori dei particolari, ma in sostanza ero sempre forestiero, allorquando questi istessi individui si adunavano in corpo. Passò in questo tempo all’altra vita un vecchio avvocato pisano, il quale, secondo l’uso del paese, era il difensore fisso di parecchie comunità religiose, di alcune società d’arti e mestieri e di diverse altre case della città; carica che gli procurava in vino, grano, olio ed in danaro, uno stato convenientissimo, sgravandolo anche dalla spesa della casa. Alla di lui morte feci la domanda di tutti questi posti vacanti, per averne se non altro qualcuno; furono ottenuti tutti dai Pisani, e restò escluso il solo Veneziano.

Mi si diceva poi, per consolarmi, che non erano che soli due anni e mezzo che io mi trovavo a Pisa, e che all’opposto fino da quattr’anni almeno i miei antagonisti facevano passi per succedere al vecchio avvocato allora morto; ch’erano già stati presi impegni e corse parole, ma che per altro alla prima occasione io sarei stato assolutamente contento.

Tutto ciò poteva esser vero; ma di venti impieghi neppure uno per me! Tale avvenimento mi risvegliò un po’ di malumore, e talmente m’indispose, che non riguardavo più il mio impiego se non come uno stato precario e casuale. Un giorno, in cui me ne stavo concentrato in simili pensieri, mi si annunzia un forestiero che voleva parlarmi. Vedo un uomo dell’altezza di quasi sei piedi, grasso e grosso proporzionatamente, che traversa la sala con canna d’india alla mano e cappello tondo all’inglese. Entra nel mio studio a passi contati, ed io mi alzo: costui fa un gesto propriamente pittoresco, per dirmi che non m’incomodassi; si avanza, e lo fo sedere: ecco il nostro colloquio. — Signore, ei mi disse, io non ho l’onore di esser conosciuto da voi; voi però dovete conoscere in Venezia mio padre e mio zio; in una parola sono il vostro servo umilissimo Darbes. — Come! il signor Darbes? Il figlio del direttore della posta del Friuli, quel figlio che si credeva perduto, di cui s’erano fatte tante ricerche, e che si era così amaramente pianto? — Sì, signore: quel figliuol prodigo appunto, che non si è ancora prostrato alle ginocchia di suo padre. — Perchè adunque differite voi a dargli questa consolazione? — La mia famiglia, i miei parenti, la mia patria non mi rivedranno, che gloriosamente cinto di alloro. — Qual è dunque il vostro stato, o signore? — A questa domanda si alza il Darbes dalla sedia, batte la mano sulla sua pancia, e in tono di voce misto di fierezza e buffoneria: signore, egli disse, fo il comico. — Tutte le doti, ripresi allora io, sono stimabili, purchè chi le possiede sappia farle valere. — Io sono, egli soggiunse, il Pantalone della compagnia, che attualmente trovasi in Livorno; nè posso chiamarmi l’infimo tra i miei camerati, e il pubblico non isdegna di concorrere in folla alle rappresentazioni alle quali io prendo parte. Il Medebac, nostro direttore, ha fatto cento leghe per dissotterrarmi; non fo disonore ai parenti, al paese, alla professione, e senza vantarmi, o signore (dandosi in questo mentre un altro colpo sulla pancia), se è morto il Garelli, è subentrato il Darbes. [p. 140 modifica] — Nell’atto appunto, che son per fargli i miei complimenti di congratulazione, egli si mette in una tal positura comica che mi fa ridere e m’impedisce di andare avanti. — Non crediate, o signore, egli proseguì, che per vanagloria io vi abbia esagerato i vantaggi di cui godo nella mia professione: ma son comico, mi fo conoscere ad un autore, ed ho bisogno di lui. — Voi avete bisogno di me? — Sì, signore, anzi vengo al solo oggetto di chiedervi una commedia: ho promesso a’ miei compagni una commedia del signor Goldoni, e voglio mantenere a loro la parola. — Voi dunque volete, gli dissi sorridendo, una mia produzione? — Sì, vi conosco per fama; so che siete garbato quanto abile, non mi darete una negativa. — Ho molte occupazioni, non posso farlo. — Rispetto le vostre occupazioni; farete questa composizione quando vorrete a tutto vostro comodo. —

Nel tempo che andavamo chiacchierando in tal guisa, tira a sè la mia scatola, prende una presa di tabacco, vi insinua alcuni ducati d’oro, poi la chiude, e la rimette sulla tavola con uno di quei lazzi, che sembrano nascondere ciò che appunto sì ha caro di far palese: apro allora la scatola, nè voglio aderire alla celia. — Eh via... via, egli disse, non vi dispiaccia; questo è un piccolo acconto per la carta. — Insisto per restituire il danaro; molti gesti, molti atti, molte riverenze: si alza, retrocede, prende la porta e se ne va. Che mai avrei dovuto fare in tal caso? Presi, come a me pare, l’espediente migliore. Scrissi al Darbes, che poteva star sicuro della commedia richiestami, e lo pregai di dirmi se gli piaceva meglio di averla con Pantalone in maschera o a viso scoperto. Il Darbes non tardò un momento a rispondermi. In questa lettera di risposta non potevano esservi positure ridicole, scontorcimenti di persona ma vi erano tratti singolarissimi.

«Avrò dunque (ei diceva) una commedia del Goldoni? Questa, sì questa sarà la lancia e lo scudo, di cui armato andrò a sfidare i teatri tutti del mondo... Quanto sono adesso felice! ho scommesso cento ducati col direttore, che avrei avuto un’opera del Goldoni; se vinco la scommessa, il direttore paga, e la rappresentazione resta a me... Benchè ancora giovine, benchè non abbastanza noto, andrò a sfidare i Pantaloni di Venezia, il Rubini a San Luca, e il Curini a San Samuele. Attaccherò il Ferramonti a Bologna, il Pasini a Milano, il Bellotti, detto Tiziani, in Toscana, il Golinetti nella sua solitudine, il Garelli nella tomba». Terminava poi con dirmi, che desiderava una parte da giovane senza maschera, indicandomi per modello un’antica commedia dell’arte, intitolata: Pantalone paroncino. Questo termine di paroncino, tanto per la traduzione letterale, quanto per il carattere del soggetto, corrisponde esattamente alla parola francese petit-maitre, poichè paron nel dialetto veneziano esprime la medesima cosa che padrone in toscano, e maitre in francese, onde paroncino è il diminutivo di parone, e padrone, come petit-maitre è il diminutivo di maitre. A’ miei tempi i paroncini veneziani recitavano in Venezia la medesima parte, che i petits-maitres in Parigi; ma tutto varia. Ora in Francia non ve ne son più, e forse neanche in Italia. Feci dunque pel Darbes la commedia richiestami sotto il titolo di Tonin bella grazia, che si poteva tradurre in francese: Toinet le gentil. Ultimai questa composizione in tre settimane, e la portai io stesso a Livorno, città che molto conoscevo, distante da Pisa quattro sole leghe e dove avevo amici, clienti, corrispondenti. Il Darbes, che aveva già strombazzato il mio arrivo, venne subito a trovarmi [p. 141 modifica] all’albergo ov’ero alloggiato, ed io gli feci la lettura della mia commedia; ne parve contentissimo, e con molti complimenti, e con riverenze e parole tronche, mi lasciò con galante modo la scommessa da lui vinta, e per evitare i ringraziamenti fuggì col pretesto di andare a comunicare il mio lavoro al direttore. Renderò conto di quest’opera nell’occasione della sua prima rappresentazione a Venezia: ora debbo trattenere il lettore sopra qualche altra cosa più importante.