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Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/VI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO VI.

Ritorno di mio padre. — Dialogo fra mio padre e me. — Nuove occupazioni. — Tratto di giovinezza.

Mia madre voleva farmi vedere e presentarmi a tutti i suoi conoscenti: ma tutto il mio vestiaro consisteva in un vecchio sopratodos, che mi aveva fatto per mare da abito, da veste da camera e da coperta.

Fece venire un sarto, e appena fui in stato di comparire, i miei primi passi furono rivolti verso i miei compagni di viaggio, che mi [p. 22 modifica] videro con piacere. Erano ritenuti in Chiozza per venti recite ancora, io aveva i miei biglietti d’ingresso, e mi ero proposto di profittarne col permesso della mia tenera madre. Era essa in molta amicizia coll’abate Gennari, canonico della cattedrale. Questo buono ecclestiastico era un poco rigorista. La Chiesa Romana non proscrive in Italia gli spettacoli, nè i comici sono scomunicati; ma l’abate Gennari sosteneva che le commedie che si davano allora erano pericolose per la gioventù. Non aveva forse il torto; onde mia madre mi proibì lo spettacolo. Bisognava obbedire: non andavo alla commedia, andavo bensì a trovare i comici, e la servetta più frequentemente che gli altri: ho avuto sempre da quel tempo in poi per le servette un gusto di preferenza.

In capo a sei giorni giunge mio padre. Io tremo, e mia madre mi nasconde nello stanzino della toeletta, incaricandosi del resto. Sale, ed essa gli va incontro, insieme con mia zia; ed ecco i consueti amplessi. Egli pare alquanto burbero e disgustato, nè ha la solita ilarità; si crede che possa essere stanco. Entrano in camera. Ecco le sue prime parole: Dov’è mio figlio? Mia madre risponde bonariamente: Nostro figlio minore è alla sua dozzina. No, no, replicò mio padre in collera: domando del maggiore; deve esser qui, voi me lo nascondete, fate male, questo è un impertinente che bisogna correggere. Mia madre sconcertata non sapeva che dire: pronunziò delle parole vaghe. Ma... come?... Egli la interrompe pestando i piedi. Sì, il signor Battaglini mi ha messo al fatto di tutto, mi ha scritto a Modena, ed io nel ripassarvi vi ho ritrovata la lettera. — Con aria afflitta mia madre lo prega di udirmi, prima di condannarmi. Egli sempre in collera torna a domandare ove io era. Non potei più ritenermi; apro l’invetriata, ma non ardisco avanzarmi. Ritiratevi, dice mio padre alla moglie ed alla sorella, lasciatemi solo con questo bel soggetto. Esse escono, ed io mi accosto tremante: Ah padre! — Come, signore! in qual modo siete voi qui? — Padre mio... vi sarà stato detto... — Sì, signore: m’è stato detto che, malgrado le rimostranze, i buoni consigli e a dispetto di chiunque, voi avete avuta l’insolenza di lasciar Rimini improvvisamente. — Ma, padre mio, che cosa facevo a Rimini? Era per me tempo perduto. — Come! tempo perduto? lo studio della filosofia tempo perduto? — Ah! la filosofia scolastica, i sillogismi, gli entimemi, i sofismi, nego, probo, concedo; padre mio, ve ne ricordate voi? (Non può astenersi di fare un piccolo movimento di labbra, che indica voglia di ridere. Ero abbastanza accorto per avvedermene, onde presi coraggio); Ah padre mio! ripresi, fatemi imparare la filosofia dell’uomo, la buona morale, la fisica sperimentale. — Su via: su via: come sei venuto qua? — Per mare. — Con chi? — Con una compagnia di comici. — Di comici? — Padre mio, son gente di garbo. — Come si chiama il direttore? — In scena è Florindo, e si chiama Florindo de’ Maccheroni. — Ah! ah! lo conosco, è un brav’uomo: recitava la parte di don Giovanni nel Convitato di Pietra. Si messe in testa di mangiare i maccheroni che appartenevano ad Arlecchino, ed ecco l’origine del suo cognome. — Padre mio, vi assicuro, che questa compagnia... — Dov’è andata? — È qui. — È qui? — Sì, mio padre. — Dà commedie qui? — Sì. — Anderò a vederla. — Ed io? — Tu briccone?... Come si chiama la prima amorosa? — Clarice. — Ah! ah! Clarice!... eccellente! brutta, ma molto spiritosa. — Padre mio... — Converrà dunque, che io vada a ringraziarli. — Ed io? — Disgraziato! — Vi chiedo perdono. — Andiamo, andiamo per questa volta... Entra mia madre, che aveva udito tutto, e si mostra [p. 23 modifica] contentissima di vedermi riconciliato con mio padre. Gli parla dell’abate Gennari, non per impedirmi di andare alla commedia, poichè mio padre l’amava quanto me, ma per farlo consapevole che questo canonico, affetto da diverse malattie, lo aspettava con impazienza; egli aveva parlato a tutta la città del famoso medico veneziano allievo del celebre Lancisi, ch’era aspettato quanto prima, e doveva soltanto mostrarsi, per aver più malati di quello che ne potesse desiderare. Successe così di fatto: ognuno voleva il dottor Goldoni; aveva i ricchi ed i poveri, ed i poveri pagavano meglio dei ricchi.

Prese dunque a pigione un appartamento più comodo, e si stabilì a Chiozza, per restarvi fintantochè la fortuna gli si mantenesse favorevole, o che qualche altro medico alla moda non fosse venuto a soppiantarlo. Vedendomi ozioso e mancando nella città buoni maestri per occuparmi, volle egli stesso far qualche cosa di me. Mi destinava alla medicina, e nell’aspettare le lettere di chiamata per il collegio di Pavia mi ordinò di andar seco alle visite che giornalmente faceva. Era di pensiero, che un poco di pratica precedentemente allo studio della teorica fosse per darmi una cognizione superficiale della medicina, e fosse per essermi utilissima all’intelligenza dei termini tecnici, e dei primi principii dell’arte. Non era la medicina di troppo mio piacere, ma non bisognava esser recalcitrante, poichè si sarebbe detto che io non voleva far nulla. Seguitai dunque mio padre; vedevo con lui la maggior parte dei malati, tastavo i polsi, guardavo le orine, esaminavo gli sputi, e molte altre cose che mi ributtavano. Pazienza. Fintantochè la compagnia continuò le sue recite, che ella eseguì insino a trentasei, credei compensata ogni mia perdita. Era mio padre molto contento di me, e più ancora mia madre; ma uno dei tre nemici dell’uomo, e forse due, o tutti e tre vennero ad assalirmi, ed a turbar la mia pace. Fu chiamato un giorno mio padre in casa di una ammalata molto giovine e molto bella: mi condusse seco, non avendo il minimo sentore di qual malattia si trattasse. Quando vide che bisognava fare delle ricerche e delle osservazioni locali, mi fece escire, e da quel giorno in poi, tutte le volte ch’entrava in camera della signorina, ero condannato ad aspettarlo in una piccolissima ed oscurissima stanza. La madre della giovine ammalata, cortesissima ed assai garbata persona, non soffriva che io restassi solo; veniva a tenermi compagnia, e mi parlava sempre della sua figlia. Questa, mercè l’abilità e le premure di mio padre era fuori d’impiccio; stava bene, e la visita di quel giorno doveva essere l’ultima. Feci adunque ad essa il mio complimento, la ringraziai della bontà avuta per me, e terminai con dire: Se non ho più l’onore di vedervi... — Come? mi disse ella, non ci rivedremo più? — Se non ci viene mio padre. — Potrete per altro venir voi. — A che fare? — A che fare? Ascoltate. Mia figlia sta bene, non ha più bisogno del signor dottore, ma non mi dispiacerebbe che di tempo in tempo avesse una visita per amicizia, per vedere... se le cose vanno bene... se ella avesse bisogno... di purgarsi...; se non avete occupazioni più importanti, veniteci qualche volta, ve ne prego. — Ma la signorina mi gradirà ella? — Ah mio caro amico! non parliamo di questo: mia figlia vi ha veduto, nè altro bramerebbe che stringere relazione con voi. — Signora, questo è per me molto onore. Ma se mio padre venisse a saper ciò? — Non lo saprà: e poi, mia figlia è sotto la sua cura; non può disapprovare che il figlio venga a vederla. — Ma perchè non mi ha lasciato entrare in camera? — Perchè... la camera è piccola, c’è afa. — Sento rumore; esce mio padre. — Andiamo, [p. 24 modifica] andiamo; venite a rivederci. — Quando? — Questa sera, se volete. — Se io posso. — Mia figlia ne sarà contentissima. — Ed io pure.

Esce mio padre, e ce ne andiamo: rumino tutta la giornata, faccio delle riflessioni, cangio di parere ad ogni momento. Giunge la sera: mio padre va ad un consulto, ed io sul far della notte ritorno alla porta dell’ammalata che sta bene. Entro; mi sono fatte mille convenienze, mille gentilezze: mi esibiscono rinfreschi, e non ricuso. Si cerca nella dispensa, ma non vi è più vino: bisogna andare a provvederlo ed io metto mano alla tasca. Si picchia alla porta, aprono; è il servitore di mia madre, che mi aveva visto entrare, e che conosceva quella canaglia; fu veramente un angiolo, che lo mandò: mi dice una parola all’orecchio: io ritorno in me stesso, ed esco subito.