Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/X

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - IX Parte prima - XI

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CAPITOLO X.

Mie prime vacanze. — Lettura piacevole. — Mia partenza per Modena. — Avventura comica.

Quattro mesi di vacanze! sessanta leghe per andare a casa mia, ed altrettante per ritornare agli studi! È vero che non si pagava dozzina in quel collegio, ma la ispesa del viaggio non era indifferente. Avrei potuto restare a dozzina in Pavia, ma verun collegiale forestiero vi restava. In tal tempo non si porta la sovrana, e non avendo l’arme del Papa sopra le spalle, vi era da temere che gli abitanti di Pavia volessero contrastarci certi diritti di preferenza che eravamo assuefatti a godere; e poi ero sicuro di dare a mia madre il più gran piacere, andando a riunirmi con lei. Presi adunque questo partito; ed essendo scarso di danaro, feci il viaggio per acqua, avendo per servitore e mia guida un fratello del cantiniere del collegio. Nulla di particolare in questo viaggio; avevo lasciato Chiozza in abito da secolare e vi ritornai in abito da ecclesiastico. Il mio collare però non ispirava troppa devozione, ma mia madre, che era piena di pietà, credè ricevere in sua casa un apostolo; mi abbracciò con una tal quale considerazione, e mi pregò di correggere il mio fratello, che le dava qualche disgusto.

Era questi un vivacissimo ed impetuosissimo ragazzo, che salava la scuola per andare a pescare, che di undici anni si batteva come un demonio, e si burlava di chiunque. Mio padre, che lo conosceva a fondo, lo destinava alla guerra: mia madre ne voleva fare un frate, e questo era un soggetto continuo di disputa fra loro. Mi presi poca briga di mio fratello: cercavo solo di distrarmi, nè sapevo trovarne i mezzi. Chiozza mi parve sgradevole più che mai: avevo altre volte una piccola libreria, vi cercai il mio antico Cicognini, e non ne trovai che una parte: mio fratello si era servito del resto per farsi i ricci. Il canonico Gennari era sempre l’amico di casa. Mio padre lo aveva sanato da tutti i mali che aveva, e da quelli che non aveva. Stava più spesso da noi che in casa sua. Lo pregai di procurarmi qualche libro, ma nel genere drammatico, se fosse stato possibile. Il signor canonico non era troppo addomesticato colla letteratura; mi promise, ciò non ostante, di far di tutto per trovarne, e mi mantenne la parola. Mi portò pochi giorni dopo una vecchia commedia rilegata in cartapecora; e, senza darsi la pena di leggerla, me l’affidò, facendomi promettere di restituirgliela speditamente, poichè l’aveva presa senza dir nulla nello studiolo di uno dei suoi confratelli. Era la Mandragora del Machiavelli, che non conoscevo, ma di cui avevo bensì inteso parlare, e sapevo bene che non era una produzione castissima.

La divorai nella prima lettura, e la rilessi dieci volte. Mia madre non badava al libro che leggevo, essendomi stato dato da un ecclesiastico; ma mio padre mi sorprese un giorno in camera nel tempo appunto che facevo delle note e delle osservazioni sopra la Mandragora. La conosceva, e sapeva quanto questa produzione era pericolosa per un giovinetto di diciassette anni: volle sapere da chi l’avevo avuta, e glielo dissi: mi sgridò acerbamente, e si accapigliò con quel povero canonico, che aveva peccato solo di trascuraggine. Avevo delle ragioni giustissime, e molto ben fondate per scusarmi in faccia a mio padre, ma non volle ascoltarmi. [p. 31 modifica]

Non era già lo stile libero nè l’intreccio scandaloso che mi facevano trovar buona questa composizione, anzi la sua lubricità mi ributtava. Vedevo da me stesso, che l’abuso di confessione era un delitto abominevole avanti a Dio e avanti gli uomini; ma era questa la prima produzione di carattere che cadevami sotto gli occhi, e n’ero rimasto incantato. Avrei desiderato che gli autori italiani avessero continuato dietro questa commedia a scriverne delle oneste e decenti, e che caratteri attinti dalla natura fossero subentrati agli intrighi romanzeschi. Era riservato a Molière l’onore di nobilitare e di render utile la scena comica, esponendo i vizi e le ridicolezze alla correzione ed al riso. Non conoscevo ancora queste grand’uomo, poichè non intendevo il francese; mi ero proposto di impararlo, e presi intanto l’abitudine d’osservare gli uomini da vicino, e di non trascurare gli originali.

Erano prossime al termine le vacanze, e bisognava partire. Dovendo andare a Modena un abate di nostra conoscenza, mio padre profittò dell’occasione, e mi fece prender quella strada, e tanto più volentieri, perchè in quella città mi si dovea somministrar danaro.

Imbarcammo, il mio compagno di viaggio ed io, col corriere di Modena; vi arrivammo in due giorni di tempo, e andammo ad alloggiare in casa di un fittaiuolo di mio padre, che dava a pigione stanze mobiliate. Vi era in questa casa una donna di servizio, nè vecchia nè giovine, nè bella nè brutta, che mi guardava con occhio amichevole, e si prendeva cura di me con attenzioni singolari: scherzavo seco, ed ella vi si prestava con buona grazia, e di tempo in tempo lasciava cadere qualche lacrima. Il giorno della mia partenza mi alzo di buon’ora per fare il mio baule; ed ecco Tognetta (questo era il nome della ragazza) che viene nella mia camera, e mi abbraccia senza altri preliminari. Io non era tanto libertino per trarne partito: la sfuggo, ella insiste, e vuol partir meco. — Con me? — Sì, mio caro amico, se no, mi getto dalla finestra. — Ma io vado in un calesse di posta. — Ebbene, saremo noi due soli. — E il mio servitore? — È fatto per andar dietro. — Il padrone e la padrona di casa cercano Tognetta da per tutto. Entrano, la trovano in un fiume di lacrime. — Che è stato? — Eh non è niente. — Io tiro a sbrigarmi: bisogna partire. Avevo destinato per Tognetta uno zecchino: ella piange, non so come fare. Stendo il braccio e le offro la moneta; la prende, la bacia, e tutta piangente se la mette in tasca.