Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/IX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO IX.

Mio allogamento in collegio e mie dissipazioni.

Mia madre aveva rimediato con accortezza al difetto di patrimonio per conseguire le lettere dimissorie dal patriarca di Venezia. Le fece spedire un segretario del senato, il signore Cavanis, a condizione che, essendo io nel caso di abbracciare lo stato ecclesiastico, vi fosse una rendita assicurata in mio favore. [p. 29 modifica] Ricevei dunque la tonsura per mano del cardinale Cusani arcivescovo di Pavia: e uscito dalla cappella di sua eminenza andai con mio padre a presentarmi al collegio.

Il superiore, che si chiama Prefetto, era l’abate Bernerio, professore di gius canonico nell’università, protonotario apostolico, che godeva, in virtù di una bolla di Pio V il titolo di Prelato, suddito immediato della Santa Sede.

Fui ricevuto dal prefetto, viceprefetto e camarlingo, Mi fanno una breve predica, mi presentano ai più anziani del collegio, ed eccomi allogato: mio padre mi abbraccia, mi lascia, e il giorno dopo prende la volta di Milano per ritornarsene a casa. Abuso forse un poco troppo della vostra compiacenza, mio caro lettore, trattenendovi con frivolezze, che non debbono importarvi, e che di più non vi divertono. Ma vorrei parlarvi di questo collegio, ove avrei dovuto fare la mia sorte, e dove feci la mia disgrazia. Vorrei confessarvi i miei errori, e nel tempo stesso provarvi che nella mia età e nello stato in cui mi trovavo, era necessaria una virtù superiore per evitarli. Ascoltatemi con sofferenza.

Eravamo in questo collegio ben trattati e benissimo alloggiati. Avevamo la libertà di escire per andare all’università, ed andavamo per tutto. L’ordine era di escire a due a due, e così ritornare. Noi però ci lasciavamo alla prima strada che voltava, assegnandoci un punto di riunione per il ritorno nel modo ordinato; e se rientravamo soli, il portinaio la prendeva in celia, e non ne faceva parola. Questo posto equivaleva per lui a quello di guarda portoni di un ministro di Stato.

Eravamo ben forniti di abiti e con l’eleganza medesima degli abati, che girano per le conversazioni: panno d’Inghilterra, seta di Francia, ricami, e guarnizioni, con una specie di veste da camera senza maniche per sopravveste ed una stola di velluto appesa alla spalla sinistra con l’arme Ghislieri ricamata in oro e argento sormontata dalla tiara pontificia, e dalle chiavi di san Pietro. Questa toga chiamata sovrana, che è la divisa del collegio, dà un’aria d’importanza, che reprime la bizzarria della gioventù. Questo collegio non era, come vedete, una comunità di fanciulli: si faceva precisamente ciò che piaceva, ed eravi molta dissipazione nell’interno, molta libertà nell’esterno. Ivi ho imparato la scherma, il ballo, la musica ed il disegno, come pure tutti i giuochi possibili di trattenimento e di azzardo. Questi ultimi, benchè proibiti, erano ciò nondimeno frequenti e quello della primiera mi costò caro.

Quando eravamo esciti, guardavamo l’università da lontano, e andavamo a rimpiattarci nelle case più piacevoli. In Pavia pure sono riguardati i collegiali come gli uffiziali di guarnigione: li detestano gli uomini, e le donne li ricevono.

Piaceva alle signore il mio gergo veneziano, che mi dava qualche vantaggio sopra i compagni: la mia età e la mia figura non dispiacevano: le mie strofette e le mie canzoni non erano ascoltate con disgusto. Era mia colpa se impiegavo male il tempo? Sì; perocchè, in quaranta che eravamo, ve ne erano alcuni savi e costumati, che avrei dovuto imitare: ma non avevo che sedici anni; ero allegro, ero debole, amavo il piacere, e mi lasciavo sedurre e rapire.

Basta così per questo primo anno di collegio: si avvicinano le vacanze, che cominciano verso la fine di giugno, e non si torna che alla fine di ottobre.